Essere 1.000, 10.000 o 100.000 volte più
ricco della media produce un livello di potere incompatibile con i principi
dell'eguaglianza democratica. Si può avere una società con i miliardari o una
vera democrazia, non entrambe le cose.
Grazie anche all’attuale rinascita della sinistra in un periodo di
crescente disuguaglianza, mettere in discussione la tirannia delle
concentrazioni di ricchezza sta divenendo sempre più materiale del dibattito
politico mainstream statunitense. Con la reintroduzione della politica di
classe nel dibattito politico americano, c’è uno stimolo crescente per riforme
prima impensabili come una tassazione del 70% per la fascia di
reddito più alta e un’imposta sulla proprietà aumentata
in maniera decisa (merita di essere citato anche il rappresentante del
Minnesota Ilhan Omar per aver proposto una tassazione ancora superiore per la
fascia di reddito più alta, il 90%).
Anche l’attenzione verso i singoli miliardari ha preso piede nella politica
mainstream, grazie in buona parte, ancora una volta, a Bernie Sanders, che ha
fatto della condanna morale della classe dei miliardari, da Jeff Bezos alla
famiglia Walton, il suo pane quotidiano. Per esempio, qualche settimana fa gli
è stato chiesto di esprimersi sulla prossima partecipazione alle elezioni
presidenziali dell’amministratore delegato di Starbucks Howard Schultz, e lui ha cortesemente
risposto:
Perché Howard Schultz è in tutte le televisioni del paese? Perché parlate
di Howard Schultz? Perché è un miliardario. Conosco personalmente moltissime
persone che sanno di politica molto di più del signor Schultz, ma che lavorano
duramente per vivere e guadagnano quaranta, cinquanta mila dollari l’anno. Ma
poiché il nostro sistema politico non funziona, chiunque sia miliardario,
chiunque possa veicolare molta pubblicità in televisione, tutto ad un tratto
acquista credibilità.
Questa rottura improvvisa nella cultura politica di lunga data americana
segnata da un’ossequiosa reverenza nei confronti dei miliardari è a dir poco in
ritardo; la corsa alle primarie dei democratici – che vedrà una partecipazione
differenziata, da progressisti come Sanders e Elizabeth Warren, a candidati
supportati da miliardari fino a miliardari veri e propri – sarà un
banco di prova per le argomentazioni pro e anti-miliardari.
Proprio per questa ragione, alcuni opinionisti di centro sembrano
desiderosi di posizionare le loro argomentazioni in qualche punto a metà della
discussione (e dove sennò?), difendendo la fondamentale esistenza dei
miliardari e sostenendo contemporaneamente che potrebbero, potenzialmente,
essercene di meno, forse.
Una recente testimonianza di questa posizione si trova sul New York Times,
con il contributo del collaboratore del Times Will Wilkinson –
appartenente al “Niskanen Center”, di orientamento liberista moderato –
intitolato “Non Aboliamo i miliardari. Aboliamo invece la cattiva politica”.
Wilkinson riconosce correttamente che «l’entusiasmo per un riequilibrio radicale
delle condizioni economiche» sta «trovando spazio nello stato d’animo
mainstream». Ma avverte, «io spero [che i futuri candidati democratici]
sosterranno l’idea che può essere moralmente legittimo mettere da parte un
miliardo e che l’esistenza di gigantesche fortune a tre virgole non è un segno
di insuccesso, ma di successo supremo delle politiche pubbliche».
Queste argomentazioni si basano in gran parte su un sillogismo
evidentemente scorretto: Le democrazie liberali hanno i miliardari. La democrazia
liberale è giusta. Da cui segue che i miliardari sono giusti. Wilkinson
sostiene:
La documentazione empirica è abbastanza chiara su quale sia la forma
generale dell’economia politica nazionale che produce le vite più felici, più
sane, più ricche, più libere e più lunghe. Non c’è un nome specifico, ci
dovremo accontentare di un “capitalismo liberal-democratico con stato-sociale”.
Esiste una sua versione “social-democratica”… e una versione “neoliberista”. Si
può preferire una versione o l’altra, ma non sono così differenti. E in termini
comparativi, sono tutte incredibilmente fantastiche. Il tipico cittadino di
questi paesi è benestante come gli uomini non sono mai stati. Questi luoghi
mostrano l’apice del successo delle politiche pubbliche. Ma indovinate un po’?
Ci sono dei miliardari in tutti questi paesi… E quindi qual è il problema?
Provare a prevenire la formazione di depositi di miliardi di dollari per
evitare le cattive conseguenze di… avere il miglior sistema politico mai
esistito?
Procede quindi offrendo un’argomentazione in difesa dei miliardari fin
troppo familiare: ossia che alcuni di loro sono semplicemente degli innovatori
premiati per il loro contributo alla società. Ci sono perciò miliardari che
meritano, e altri che non meritano; i primi vanno intensamente celebrati. In
questo racconto, i miliardari sono potenzialmente, anche se non
intrinsecamente, corollari positivi del nostro sistema economico più che un
errore o un problema strutturale.
Ma ci sono alcune cose da dire a proposito di questi argomenti. La prima è
una contestazione di base della logica circolare di Wilkinson. Il fatto che il
sistema Y stia facendo meglio del sistema X non è una difesa soddisfacente del
sistema Y, anche se dovessimo concordare sulla sua superiorità relativa. La
maggior parte dei membri del proletariato urbano nell’Europa del diciannovesimo
secolo erano in maniera praticamente certa in condizioni materiali migliori dei
loro equivalenti degli anni del Medioevo, ma la superiorità del capitalismo
industriale pre-democratico sul feudalesimo non è un argomento che permette di
definirlo superlativo. Allo stesso modo, la semplice presenza dei miliardari
nelle democrazie liberali moderne o anche social-democratiche non può esserne
una difesa.
Con il suo modo di argomentare («in termini comparativi»), è difficile dare
credito alla caratterizzazione di Wilkinson di tutte le democrazie liberali
come «incredibilmente fantastiche». Gli Stati Uniti sono la società più ricca
nella storia dell’uomo, ma hanno anche livelli osceni di povertà e
disuguaglianza. Come ha osservato recentemente Meagan Day, Jeff Bezos mette da parte l’equivalente
del reddito medio di un cittadino americano ogni 20 secondi, mentre circa il 40
percento degli americani non ha nemmeno 400 dollari da parte, trovandosi così
in una situazione disastrosa alla prima emergenza.
Per sottolineare ciò che dovrebbe essere ovvio, questi due fatti sono
correlati. Le immense concentrazioni di ricchezza nelle mani dei pochi sono sia
il come sia il perché della tanta povertà e
insicurezza tra i lavoratori e gli americani della classe media, pur in
presenza di così tante risorse in generale. Grazie al lavoro di tutti – nelle
industrie, nelle scuole, negli ospedali, nelle case di cura, nei ristoranti e
in tutta l’economia – una società come gli Stati Uniti produce un’immensa
quantità di ricchezza, ma molta di questa è espropriata dai miliardari nella
forma di rendite e reddito da capitale. Nessuno guadagna un
miliardo di dollari, ma una struttura economica gerarchica e un sistema
politico distorto assicurano la possibilità di acquisirlo grazie ai patrimoni
già in possesso. Un miliardo di dollari – per non parlare degli oltre 100
miliardi di dollari accumulati da Jeff Bezos – non sono un riconoscimento
proporzionato per il contributo alla società di qualcuno. Sono un furto
legalizzato, chiaro e semplice.
Non è vero nemmeno che i miliardari sono semplicemente normali cittadini
che a un certo punto diventano più ricchi degli altri. Da parte sua, Wilkinson
almeno riconosce l’influenza potenzialmente nefasta della classe miliardaria
sulle istituzioni democratiche, ma per lo più la elude usando le stesse logiche
circolari:
L’idea progressista in questione è che solitamente le persone che
possiedono ricchezze ampiamente superiori a quelle dei comuni cittadini
detengono un potere politico enorme e perciò mettono in pericolo la democrazia
e i nostri diritti fondamentali. È una preoccupazione che dobbiamo prendere
seriamente, ma si basa su una teorizzazione astratta più che su un’analisi
empirica. Controllate qualunque credibile ranking internazionale sulla qualità
della democrazia, sul’equo trattamento di fronte la legge o sui livelli di
libertà personale. Troverete ripetutamente lo stesso numero di stati tolleranti
con i miliardari.
Al contrario di quello che sostiene Wilkinson, la minaccia descritta
precedentemente non ha nulla a che fare con una teorizzazione astratta. Come
classe, i miliardari esercitano visibilmente una tremenda e insidiosa influenza
sul processo decisionale politico, finanziando figure chiave sia nel Partito
Democratico sia nel Partito Repubblicano, e lavorano in maniera straordinaria
per far passare leggi a proprio favore. Essere mille, diecimila o centomila
volte più ricco della persona media inevitabilmente produce un livello di
potere e influenza incompatibile con i principi di base dell’eguaglianza
democratica. Per dirla nel modo più crudo possibile: si può avere una società
con i miliardari o si può avere una vera democrazia, non si possono avere
entrambe le cose. (La Svezia socialdemocratica è forse un po’ più protetta
dalla minaccia dei suoi miliardari rispetto a quanto lo sia la democrazia
liberale americana, ma rimane comunque in pericolo e compromessa).
Lontano dall’essere una necessità o anche solo un corollario accettabile
delle società sviluppate, l’osceno accaparramento della ricchezza da parte di
pochi è un’espressione profonda e costante di ingiustizia. La classe dei
miliardari è il moderno equivalente capitalista della nobiltà feudale:
acquisisce fortune attraverso lo sfruttamento della rendita e con la sua
immensa ricchezza e potere rafforza la sua illegittima presa sulla politica e
sull’economia.
È un abominio morale. Staremmo tutti meglio senza.
(Luke Savage è redattore di Jacobin Usa. Questo articolo è
uscito du Jacobinmag.com. La traduzione è di
Matteo Boccacci)
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