“Dopo venti anni di regime e dopo cinque di guerra,
eravamo ridiventati uomini con un volto solo e un’anima sola. Eravamo di nuovo
completamente noi stessi. Ci sentivamo di nuovo uomini civili. Quel giorno, o
amici, abbiamo vissuto una tra le esperienze più belle che all’uomo sia dato di
provare: il miracolo della libertà”. Così diceva Norberto Bobbio il 25 aprile
del 1957 in Piazza San Carlo, ai “Cittadini torinesi e agli uomini e donne
della Resistenza”, ricordando le ragioni della festa ma, soprattutto, evocando
un’esperienza vissuta: il
ritorno all’”umanità” – individuale e collettiva: a un’umanità
liberamente vissuta – da parte di un popolo che quell’umanità l’aveva perduta,
in vent’anni di servitù e
conformismo, perversione e ipocrisia, adesione fanatica o silenzio complice,
nell’accettazione più o meno partecipata di un regime che della disumanità –
del culto e della pratica dell’inumano – aveva invece fatto il proprio emblema.
Ecco, lì sta probabilmente la ragione più forte per
continuare a replicare quella Gran Festa d’Aprile – per dirla con Franco
Antonicelli – che i nostri padri (e nonni) vissero in prima persona
settantaquattro anni fa. In quel “ridiventare uomini”. Certo, nel giorno della liberazione ci sono
molte “vittorie” da celebrare. C’è una vittoria “militare” su un nemico
che, all’inizio della Seconda guerra mondiale, sembrava imbattibile e che
invece sotto i colpi congiunti degli eserciti alleati e della Resistenza
europea è alla fine crollato. C’è una vittoria “politica”, un segno di riscatto
per un Paese, l’Italia, che era finito al fondo di un abisso, dopo aver dato i
natali a un regime come quello fascista diffusosi come un cancro in Europa; un
Paese giunto alla fine di quella parabola discendente distrutto materialmente e
squalificato politicamente, sconfitto e disprezzato, e infine rimesso all’onor
del mondo, per così dire, dal sacrificio di quei duecentomila combattenti per
la libertà che si sacrificarono per riscattare gli errori e le cadute degli
altri milioni di loro compatrioti. E c’è, fondamentale, una vittoria “morale”,
espressa nella parola “scelta”, nel fatto che in quel punto morto della storia
che fu l’8 settembre del 1943 ci furono uomini e donne che scelsero, senza
ordini superiori né obblighi formali, di mettere in gioco le proprie vite, in
un atto costituente di disobbedienza di massa in nome di valori. Ma c’è, nella Resistenza e nel suo esito
con la Liberazione, una vittoria che le sintetizza tutte e dà loro il senso
storico che nasce dall’esperienza vissuta, ed è la vittoria dell’Umano
sull’Inumano. L’affermazione di un umanesimo testimoniato col sacrificio
personale sulla disumanizzazione ostentata da regimi ed eserciti che marciavano
sotto le bandiere della distruzione dell’Umano.
La lotta di liberazione – lo documenta benissimo lo
splendido libro Una guerra di
civiltà di Claudio Pavone, che ha come significativo
sottotitolo Saggio sull’eticità della Resistenza –
fu una Guerra per l’Umanità (è, lo so, un ossimoro, perché la guerra non ha
praticamente mai qualcosa di umano ma in questo caso è la realtà) perché
fu combattuta contro chi, con
le armi di distruzione di massa che lo Stato moderno mette a disposizione, si
proponeva la cancellazione dell’umanità dagli uomini. La riduzione a cose. L’annientamento
totale del proprio simile riconfigurato come “altro”, come non-uomo. Fu
la guerra – vinta – contro gli autori di Auschwitz e del “male assoluto” che vi
si consumò in nome di un principio suprematista e razzista che divideva il
genere umano in eletti e reietti, signori e schiavi, Noi (i “primi”) e Altri
(il nulla, le cose da usare o distruggere a piacere).
Contro quei principii, contro quelle Autorità infami,
contro quelle Leggi perverse, contro gli ordini degli Uomini della Provvidenza
e i Bandi dei loro scherani i partigiani pronunciarono un fragoroso NO a
riscattare i troppi SI che nel ventennio precedente erano stati pronunciati: i
“si” alle retoriche bolse del fascismo, alle sue pratiche dispotiche, ai suoi
riti ridicoli, alle sue pretese arroganti di falsi primati della stirpe e di
sordide unità di popolo contro chi popolo non veniva considerato. I Si
all’obbrobrio delle leggi razziali, alle politiche imperiali, alle
discriminazioni politiche, ai miti di potenza. La
Resistenza fu – bisogna ripeterlo perché in quello sta la sua “anima” – un
clamoroso atto di disobbedienza di massa (il primo veramente popolare) in un
Paese abituato al conformistico seguire la corrente, catartico nella sua
radicalità. I partigiani non si limitarono a combattere. Misero la
propria rete clandestina a disposizione delle vittime razziali di quei regimi,
si trasformarono in passeur per favorirne il passaggio in Svizzera o in
traghettatori verso le vie di fuga, tentarono, là dove nella forma più brutale
il naturale sentimento di solidarietà umana era negato, di restaurarne il
senso. E la pratica.
Questo dobbiamo ricordare
nel giorno della Festa, perché non
risulti beffa a noi stessi nella realtà che ci circonda: questo atto di
disobbedienza costituente a Leggi e Autorità ingiuste, da cui è nata la nostra
nuova legge fondamentale, una Costituzione fatta da uomini (finalmente) liberi
per uomini (universalmente) liberi. Lo
dobbiamo ricordare perché il fantasma dell’inumano è tornato ad aggirarsi per
l’Europa, e sciaguratamente in Italia. Infesta le sale del Governo,
occupa ministeri importanti, vitali, a cominciare da quello dell’Interno
ridiventato “di polizia”, chiude porti, costruisce muri, pronuncia bestemmie
pretendendo di tornare a separare “uomini e no” e a ri-proclamare nefasti
primati (“prima gli italiani”), spietate messe al bando, reiterati apartheid.
È un bene – sinceramente “è un bene”! – che Matteo
Salvini si tenga alla larga da quella data e da questa festa, lui e le sue
felpe abusate. Perché quando dice che non vuol partecipare al “derby tra
fascisti e comunisti” mostra, è vero, tutta la sua ignoranza storica, ma se
anche sapesse di cosa si parla, a maggior ragione dovrebbe disertarlo quel
ricordo, perché da esso gli viene, forte e chiaro, il monito “de te fabula
narratur”: della sua ostentazione del disumano, della pedagogia del negativo
che ogni giorno mette in scena con le sue esternazioni da trivio, delle sue
pratiche di segregazione e deportazione, del genocidio a bassa intensità che
sulla costa meridionale del Mare Nostrum i suoi sodali libici mettono in atto,
della fossa comune a cielo aperto che si estende per tutto il canale di Sicilia
e che la sua guerra alle Ong che salvano contribuisce ad alimentare… In una
parola del suo essere interprete di quel ritorno dell’inumano che era stato
sconfitto il 25 aprile del 1945, ma non sradicato dagli strati più bassi
dell’autobiografia della nazione.
È probabile che nella sua sconfinata ignoranza il
ministro di polizia e quelli che la pensano come lui, i fascistoidi fuori tempo
di Fratelli d’Italia, i sindaci senza coscienza che nascondono dietro la fascia
tricolore le loro pratiche segregazioniste, la feccia dei loro seguaci che
contaminano i social con i rifiuti tossici del loro odio -, è probabile,
dicevo, che costoro considerino i partigiani gentaglia, balordi e spostati,
figure del disordine e del margine di cui diffidare, oppure fanatici di un mito
sociale depravato. A tutti costoro possiamo replicare come fece nella
Prefazione del 1964 al suo romanzo d’esordio, Il sentiero dei nidi di ragno,
Italo Calvino, il quale così rispose a quanti già allora lavoravano alla
denigrazione di quei combattenti per la libertà:
“D’accordo, farò come se aveste ragione voi, non
rappresenterò i migliori partigiani, ma i peggiori possibili, metterò al centro
del mio romanzo un reparto tutto composto di tipi un po’ storti. Ebbene: cosa
cambia? Anche in chi si è gettato nella lotta senza un chiaro perché, ha agito
un’elementare spinta di riscatto umano, una spinta che li ha resi centomila
volte migliori di voi, che li ha fatti diventare forze storiche attive quali
voi non potrete mai sognarvi di essere”.
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