Ci sono cose che non si comprano, lo
diceva anche una pubblicità divenuta felicemente virale. Una carta di credito
può comprare tutto ma non i sentimenti, non la dignità.
La dignità si può perdere, ma non si può né vendere né comprare. Proprio questo veniva
sintetizzato nello slogan scelto ieri, a Gaza, per la Grande Marcia del Ritorno che va avanti da un anno e non si ferma né
sotto il tiro del killer israeliani che hanno fatto circa 260 martiri e decine
di migliaia di feriti, né sotto le offerte che, con la mediazione egiziana e i
forzieri del Qatar, Israele
sembrava aver ventilato per stroncare le proteste popolari. Proteste
che Hamas sta cavalcando senza però riuscire a tenerne del tutto le redini,
perché l’onda che muove i manifestanti è un’onda di popolo e non tutto il
popolo gazawo si riconosce in Hamas o in altre fazioni.
Ieri abbiamo avuto riconferma di quanto
sopra ad Al Bureji, uno degli otto campi profughi della Striscia di Gaza,
costantemente sotto le pericolose attenzioni dell’assediante israeliano e anche
uno dei cinque accampamenti “al awda” lungo il confine. Ad Al Bureji come negli
altri punti del border, ieri hanno manifestato circa duemila persone, “lo
zoccolo duro”, quello che non accetta concessioni per tacitare la protesta.
Duemila persone di tutte le
età, alcune sulle grucce o sulla sedia a rotelle, regalo dei proiettili
ad espansione usati canagliescamente dall’esercito israeliano, duemila persone
arrivate con tutti i mezzi, dai carretti trainati dagli asini alle
Mercedes, dai furgoni alle moto sgangherate con 4 o 5 bambini in
sella sono lì per rivendicare il loro diritto. Diritto riconosciuto dall’Onu e
calpestato dallo Stato di Israele, Stato fuorilegge ai sensi del Diritto
internazionale.
Abbiamo scritto più volte su questa
testata che la comunità gazawa è un esempio di resilienza fuori del comune.
L’esperienza di ieri ne è un’ulteriore conferma e non lo è solo per l’atmosfera
di festa che accompagnava la manifestazione dalla parte palestinese nonostante i tiratori scelti, i droni, le
jeep, i proiettili, i lacrimogeni, le bombe sonore e, di conseguenza, i feriti
dai proiettili e gli intossicati dal gas, ma anche per le singole storie
che si possono raccogliere e per l’incredibile reazione che i gazawi hanno di
fronte ad avvenimenti che altrove sembrerebbero straordinari.
Lo stesso posizionarsi, inermi, in cima
alle collinette limitandosi a guardare verso la rete dell’assedio mentre i
killer possono prenderli di mira e buttarli giù come sagome del tirassegno ha
qualcosa di surreale. E’ quasi una sfida comunicata in forma di “linguaggio del
corpo”. Alcuni si portano addirittura la sedia. Sono incredibili. Nella sua debole ragione e nella sua potente
e criminale forza, Israele spesso colpisce anche queste persone e i suoi
asserviti mezzi di comunicazione parlano di scontri.
Testimoni internazionali normalmente non
ce ne sono. Ieri ad Al Bureji c’era soltanto chi sta scrivendo questo reportage
e al pari dei manifestanti è stata intossicata, per fortuna lievemente, dai gas
che Israele ha sparato a oltre 700 metri dal confine. Perché? Semplicemente
perché non avendo dalla sua la ragione, usa la forza. I suoi killer hanno
sparato proiettili e gas lacrimogeni contro i manifestanti, compresi i ragazzi
che giocavano a pallone nella parte terminale dell’accampamento a quasi
un chilometro dal confine. Anche la zona in cui si tenevano spettacoli e
conferenze è stata “beneficiata” dai gas. Eppure il servizio d’ordine della
polizia locale, ovvero Hamas, ha impedito che si creassero motivi che
potessero giustificare l’aggressività dell’esercito assediante. Ma Israele non ha bisogno di motivi,
l’arbitrio è la sua legge, la violenza delle armi il suo strumento. Chi
vede lo sa, ma a vederlo sono pochi e poi le lobby ebraiche, vere padrone
della politica israeliana nonché di quella statunitense, hanno lunghi
tentacoli nel mondo dell’informazione mainstream e quindi l’informazione dei
grandi media o non arriva o arriva filtrata.
La libertà è come la dignità, quella che
non riconosce carte di credito. Può essere persa, ma chi ce l’ha come valore
assoluto non può venderla e in questo è il bello di fare giornalismo
indipendente. Quindi, grazie alla mia libertà assolutamente non in vendita,
decido di intervistare il padre di un martire il cui volto, stampato su un
grande manifesto, è esposto davanti alla tenda che simboleggia la volontà
del ritorno. Il giovane ritratto nel manifesto si chiamava Ahmad E.
Tawil, suo padre ci dice che è stato ucciso alcuni mesi fa da un cecchino. Aveva
solo 23 anni. Era bello, dice suo padre, e questo lo si vede dalla foto, era
intelligente, aveva studiato come le sue 6 sorelle e i suoi 3 fratelli e sognava la libertà e una vita dignitosa. Per
questo manifestava. Non era iscritto a nessun partito ed era uno
dei tanti, come anche suo padre e i suoi amici intorno alla tenda, che voleva
la Palestina libera e una leadership che rappresenti tutti i palestinesi.
Questo è il forte messaggio che viene mandato dalla Grande Marcia già dal suo
inizio, ma ancora non sembra sia stato colto.
L’intervista al signor Ibrahim, padre di
Ahmed, viene ogni tanto disturbata da qualche lacrimogeno che fa scappare molti
ragazzi per sottrarsi agli effetti venefici del gas, ma che poco dopo tornano
sulle loro postazioni di “presenza sfidante”.
Ai nostri piedi c’è una teiera di ferro
completamente annerita dal lungo uso. E’ poggiata su un fuoco raccolto
all’interno di un piccolo cerchio di pietre, un fuoco tipico dei beduini. Ci
viene offerto il tè. Poi ci verrà offerto anche il caffè. E’ una consuetudine,
ovunque in Palestina si offre tè e caffè, il primo spaventosamente dolce, il
secondo assolutamente amaro. Anche questo sembra raccogliere le contraddizioni
di questa terra, ma riprendiamo la nostra chiacchierata col signor Ibrahim, il
quale ci dice che Ahmad era già stato ferito a una gamba qualche venerdì prima
di essere colpito al petto. Non è il primo caso. Anche altri ragazzi sono stati
ammazzati mentre erano sulle stampelle o sulla sedia a rotelle. Perché? Non
certo per legittima difesa, ma forse perché la loro tenacia rappresentava un
pericolo per Israele, in quanto esempio di volontà e di dignità che non si
arrende.
Ibrahim è convinto infatti che suo
figlio sia stato ucciso volutamente, ma lui non se ne andrà, resterà qui, nella
tenda, finché Israele non sarà costretto a riconoscere il diritto al ritorno.
Ci sembra un’utopia ma non glielo diciamo, in fondo sono le utopie a muovere le
nostre azioni migliori! Ibrahim vive nel campo profughi di Nusseirat, la
sua famiglia proviene da un villaggio vicino a Erez, da cui fu cacciata
durante la Nakba e vuole avere assolutamente il diritto al ritorno nella sua
terra, come tutti gli altri palestinesi cacciati o costretti alla fuga nel
1948. Del resto è questa la ragione che ha dato vita alla Grande Marcia.
Ibrahim ci dice che conosce l’ebraico perché prima dell’assedio ha lavorato
molti anni in Israele occupandosi di coltivazioni di agrumi e aggiunge che
quando lavorava in Israele il suo rapporto con gli israeliani era normale. Poi Israele
ha chiuso Gaza nell’assedio e questo ha portato alla condizione tragica che sta
distruggendo la Striscia, ma lui vorrebbe vivere in pace anche con gli
israeliani. Non gli interessa l’esistenza dello Stato di Israele, non ha
il sogno di distruggerlo, ma i palestinesi hanno il diritto a tornare nelle
loro terre e Israele deve riconoscere questo diritto; è per questo che suo
figlio è morto insieme ad altri 260 martiri ed è per non riconoscere questo diritto che Israele uccide i manifestanti.
Ibrahim ripete che si può vivere con gli
israeliani, ma nel rispetto dei palestinesi e dei loro diritti. Vorrei fargli
qualche domanda più precisa rispetto a questo punto ma proprio Israele me lo
impedisce. Arrivano i lacrimogeni.
Siamo a circa 700 metri dalla rete, siamo oltre le collinette di sabbia, eppure
Israele ci riempie dei suoi micidiali gas. Purtroppo ne respiro un po’
anch’io, roba di due secondi ma bastano per farmi bruciare maledettamente gli
occhi e stringermi la gola. Alzo la kefia che porto al collo a coprirmi naso e
bocca ma ormai il gas è entrato. Tossisco, sento il bisogno di vomitare, gli
occhi bruciano. I miei due accompagnatori-interpreti-protettori mi spingono con
gentilezza verso la tenda dei soccorsi, la stessa dove un’ora prima avevo preso
un paio di foto mentre delle infermiere aiutavano dei bambini che avevano
inspirato i malefici gas. Stavolta tocca a me. Sono tutti gentilissimi. Le
infermiere mi spruzzano del liquido in faccia e mi mettono delle gocce negli
occhi. Vogliono darmi il ventolin ma non mi serve, dico che è tutto ok, tra
qualche minuto starò benissimo. Mi tengono comunque sotto la tenda per un po’.
Quando il bruciore accecante si calma e posso riaprire gli occhi faccio appena
in tempo a vedere una bambina che mi sta prendendo la mano, mi dà un papavero,
mi dice qualcosa con tono dolce che però non capisco e va via.
Non ho ancora smesso di sorridere che
arrivano altre bambine, anche loro mi danno dei fiori raccolti là intorno e mi
dicono qualcosa. I miei interpreti dicono che mi stanno ringraziando. Ma di
che? Io non ho fatto niente e il gas degli assedianti me lo sarei risparmiato
volentieri, infatti stavo in zona protetta, cioè in quella che doveva essere
zona protetta. Già, ma Israele è un paese fuorilegge, non riconosce zone protette,
è un paese in senso proprio “fuori-legge”
e quindi fa quel che vuole e seguiterà a farlo finché ciò gli verrà concesso
dal potere delle lobby ebraiche che realmente lo governano.
Comunque ho avuto il mio momento di
involontario eroismo e mi sono guadagnata fiori, abbracci e parole gentili da
un gruppo di bambine, le cure molto sollecite delle infermiere, il tè di
qualcuno che non ho visto perché me lo ha dato quando non riuscivo ancora a
vedere dicendomi che mi avrebbe fatto molto bene. Le bambine mi chiedono una
foto, ma sì certo, la faccio volentieri, ancora un po’ e mi danno una medaglia
al valore, ma perché tanta attenzione? Non mi è successo niente. Ma certo,
Akram mi dice: “Perché sei l’unica straniera che sta qui e ti ringraziano
per questo”. Roger aggiunge: “Stai rischiando insieme a noi per
raccontare la verità, non c’è nessun altro e per loro la tua presenza è molto
importante”.
Certo, tutto è relativo. Quindi una cosa
da niente si trasforma in una cosa importante solo perché qui non c’è nessuno.
In fondo io sto qui, in mezzo a
manifestanti pacifici che il mondo asservito al sionismo definisce
violenti, e mi prendo, sebbene contro la mia volontà, il gas
tossico solo per raccontare che oggi la marcia aveva come tema “la vittoria della dignità” e che la
Grande Marcia è del popolo palestinese di Gaza e non delle fazioni politiche
che provano a metterci il cappello. Ma sì, il giornalismo indipendente in
fondo ha una buona dose di empatia e le bambine devono averlo capito.
La manifestazione si è chiusa con 83
feriti ospedalizzati, nessun martire per fortuna, ma 83 persone ferite semplicemente perché chiedono ciò che gli spetta non
sono una cosa da poco, sono un crimine. Un crimine che pochi possono
conoscere perché la voce dell’informazione indipendente non ha megafoni
sufficientemente potenti , al contrario delle veline israeliane che deformano o
nascondono la realtà. Comunque la marcia continua e molti dei feriti di ieri e
dei precedenti venerdì seguiteranno a tornare, pur se sulle stampelle, proprio perché la dignità è fuori dalle leggi del
mercato.
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