sabato 20 aprile 2019

Stati mafiosi e potere politico - Raúl Zibechi



Di fronte ai nostri occhi possiamo osservare come gli stati-nazione stiano scivolando verso istituzioni controllate da gruppi paramilitari, mafie poliziesche e narcotrafficanti. Quello che prima sembrava un’eccezione, limitata a situazioni quasi estreme, ora si sta trasformando in norma, nella misura in cui lo stato non è più quella istituzione capace di controllare territori e assicurare il monopolio della violenza legittima, come sostenne Max Weber.
La crisi degli stati va per mano con la crescita di gruppi che occupano gli spazi che in altri tempi erano controllati da quelle istituzioni. Il sociologo brasiliano José Claudio Alves, specialista delle periferie urbane, afferma che le “milizie” di Río de Janeiro controllano l’aggiudicazione delle aree dove i migranti del nordest possono comprare terreni e costruire le proprie case, grazie a “informazioni privilegiate ottenute all’interno dello stato”.
“Mi impressiona molto il potere che hanno questi gruppi e la fragilità della giustizia di fronte a questo potere”, sostiene Alves. Sta facendo riferimento ad un potere territoriale che ha il suo proprio braccio politico, fissato nei gruppi parlamentari dell’ultradestra e dei partiti con una logica fondamentalista religiosa, nel caso del Brasile. Come è successo con Marielle Franco, consigliera nera e lesbica assassinata un anno fa, si assiste ad un aumento delle esecuzioni sommarie di fronte all’inetta risposta statale.
Non si stanno registrando né omicidi né sparizioni, per lo meno a Río, perché la paura è più forte della volontà di denunciare. Siamo di fronte alla perdita di diritti e la situazione sta peggiorando, in tutta la regione latinoamericana. “Cinque decenni di gruppi di sterminio hanno elevato fino al 75 per cento il voto per Bolsonaro e per l’estrema destra nella Baixada Fluminense”, la regione carioca più violenta dello stato, secondo Alves. L’attuale violenza è stata costruita durante la dittatura e aumentata nella democrazia.
Le milizie stanno cambiando. Ora individuano dove si sta muovendo il capitale (grandi opere di infrastruttura, come parte del modello estrattivo), e controllano in modo violento l’accesso al lavoro che queste opere generano, di modo che riscuotono “imposte” dalle persone che vogliono lavorare nelle imprese, siano esse private o statali. I lavoratori devono consegnare parte dei propri salari ai paramilitari.
Questo l’ho visto a Medellín, a Río de Janeiro e ogni volta in più città dell’America Latina, sia sotto governi conservatori o progressisti, perché siamo di fronte a una mutazione strutturale di questa relazione che chiamiamo stato. “Un’altra novità è la milizia marittima”, continua Alves. Abborda i pescatori in mare, gli chiede la licenza di pesca ed esige del denaro per continuare a fare il proprio lavoro di sopravvivenza. “Controllano anche l’accesso ai servizi medici degli ospedali di Río”, riscuotendo tasse e negando l’ingresso a chi non paga.
Conclusione: “La relazione delle milizie con lo stato è determinante affinché si trasformino in una struttura di potere assoluta, vasta, autoritaria, potente e crescente a Río de Janeiro”. Agiscono in modo legale, con accesso ad informazioni economiche che ottengono dallo stato mediante degli alleati; ma anche illegale: assassinano, torturano e fanno scomparire. “Siamo usciti dalla dittatura ufficiale, per la dittatura dei gruppi di sterminio e delle milizie”, precisa Alves, per il quale non è mai esistita una fine della dittatura.
Di fronte a questa deriva credo che possiamo fare due riflessioni.
La prima è che la crisi degli stati è l’aspetto determinante che porta alla creazione di poteri come le milizie, parastatali o antistatali. Questo è il cambiamento strutturale in relazione alle istituzioni; qualcosa che ho visto giorni fa a Barcelona, dove il potere municipale non ha potuto fermare la repressione poliziesca verso gli immigranti. Questo potere è cresciuto anche sotto Lula o i Kirchner, non per colpa loro ma perché siamo di fronte ad un processo globale, per ora irreversibile.
La seconda è relativa alle nostre strategie. Incunearsi nello stato, occupare lo stato o prenderlo, o come si chiami questo processo consistente nel vincere elezioni e amministrare l’esistente, aveva senso quando gli stati-nazione incarnavano una configurazione minimamente democratica. Ora può essere molto pericolosa, perché ci paralizza di fronte a nemici che escono da un qualsiasi controllo istituzionale e ci fa complici delle loro violenze.
Lo storico Emilio Gentile segnala che la novità dell’attuale ultradestra consiste “nel pericolo che la democrazia si trasformi in una forma di repressione con consenso popolare”. Una facciata elettorale che copre la mancanza di democrazia è un cattivo argomento perché ci distrae mentre disarma i nostri poteri, che sono gli unici che ci possono permettere di affrontare e superare questa fase del capitalismo estrattivo che depreda i beni comuni, disarticola gli stati-nazione e attacca i popoli del colore della terra.

Fonte: La Jornada
Traduzione a cura del Comitato Carlos Fonseca

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