A costo
di ripetermi: era meglio l’Alabama. Quello che è successo a Torre Maura in
questi giorni, coagulo massiccio di infiniti episodi sparpagliati in tutta
Italia, è una specie di pogrom verso un popolo su cui già è stata sperimentata
la «soluzione finale». La distruzione del cibo destinato a famiglie e bambini
Rom – «dovete morire di fame» – non è solo un gesto simbolico ma anche un passo
concreto verso la loro estinzione.
Come additarli tutti come ladri, solo per
appartenenza etnica, solo perché Rom. Era meglio l’Alabama perché a Selma, Alabama,
migliaia di cittadini marciarono a rischio della propria incolumità per opporsi
alla segregazione e al razzismo mentre qui da noi siamo fermi, se va bene, alle
parole e alle proteste rituali.
Era meglio
l’Alabama perché, con tante esitazioni e tanti compromessi, comunque alla fine
il ministro della giustizia e il governo degli Stati Uniti spedirono la Guardia
Nazionale e l’Fbi a dare un minimo di protezione ai diritti civili. Anche da
noi ci vorrebbe la Guardia nazionale a Torre Maura e altrove per imporre la
legalità. Ma da noi il governo, e i suoi patetici ministri, quello degli
interni ma anche quello della giustizia, stanno dall’altra parte.
Le forze dell’ordine costituito caricano, manganellano,
arrestano i manifestanti No-Tav, gli antifascisti a Padova, e persino la massa
critica dei ciclisti a Torino, mentre non ho mai sentito che nessuno dei
«cittadini indignati» che aggrediscono, picchiano, distruggono come a Torre
Maura sia stato mai in qualche modo infastidito. Il Comune di Roma si indigna, e cede, dandola vinta
ai violenti e ai razzisti: la legalità vale solo per sfrattare i centri
sociali, i circoli culturali indipendenti, e la Casa Internazionale delle
Donne. Casa Pound naturalmente non si tocca.
La scusa, o almeno l’attenuante, invocata sempre in
questi casi, anche a «sinistra», è che le cose sono «più complesse» e che gli
aggressori non sono proprio «razzisti, ma…» danno voce a un malessere e un disagio reali
delle periferie e reagiscono a decisioni prese senza consultarli (in questo
caso, spostare le famiglie Rom di cinquecento metri: nel territorio c’erano
già). Sappiamo da sempre che «non sono razzista, ma…» è la formula auto assolutoria del
razzismo italiano.
Il malessere delle periferie è vero ma c’entra
fino a un certo punto. Ci
sono state aggressioni fasciste pure quando don Luigi Di Liegro provò a portare
i malati di Aids in una casa famiglia a Villa Glori, in pieno quartiere
Parioli; e comunque non è che le periferie e le borgate siano mai state
paradisi in terra. Emarginazione, sfruttamento, disagio ci sono da tempo, e la
sola novità è la forma che prende oggi la protesta.
Torre Maura
è stato uno dei luoghi di maggiore presenza politica e organizzata del
Manifesto all’inizio degli anni ’70: una delle prime assemblee cittadine se non
la prima, la tenemmo in un locale della borgata, ed era di Torre Maura il
compagno Lello Casagrande, primo militante del Manifesto arrestato a Roma. I
fascisti c’erano già, e tanti; ma c’erano anche i comunisti, e persino i
cattolici: la periferia non era «abbandonata» perché prendeva in mano il
proprio destino, si sentiva protagonista.
Se mancavano i servizi, il quartiere si mobilitava
in solidarietà per provare a conquistarseli, non covava passivamente una rabbia
da rivolgere non verso i responsabili del disagio ma verso gente che sta ancora
peggio. Oggi a
«sinistra» sentiamo ripetere che «dobbiamo andare» nelle periferie: come se
potessero essere solo destinatarie di un discorso calato dall’alto ed emanato
dal centro. Non dimenticherò mai il nostro Aldo Natoli che raccontava come
invece dovessero essere, e spesso fossero, le periferie e le borgate a invadere
il centro. E comunque noi non facciamo veramente né l’uno né l’altro.
Qualche anno
fa, quando il mio quartiere di Roma Nord si mobilitò contro il trasferimento in
zona di un piccolo nucleo di Rom, una compagna della sezione di Ottavia mi
disse: «Questo non è razzismo, è cattiveria». È pura e inutile ferocia
calpestare il cibo. Ha ragione Marco
Revelli quando dice che «quella che stiamo vivendo oggi è un’emergenza
psicotica». “L’Italia l’è malada,” cantavano mondine e braccianti a
cavallo del ‘900, e “Sartori l’è ‘l dutur”.
Adesso di
«dottori» come Eugenio Sartori, un antico organizzatore di società di mutuo
soccorso, non se ne vede neanche l’ombra. E
anche io, tutto sommato, non ho altro che parole.
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