giovedì 25 dicembre 2025

Referendum sulla separazione delle carriere, via con le firme per fermare il colpo di mano - Antonella Mascali


Il governo si sente in un angolo. Forzare la mano per fissare al 5 o al 15 marzo il referendum sulla riforma della separazione delle carriere e dei due Csm non sembra più così facile anche se lo vuole fortemente, perché teme che una campagna più lunga giochi a favore di chi spiega “l’inutilità” e la “pericolosità” della riforma.

Non a caso il decreto di lunedì del Consiglio dei ministri fissa solo il voto: non più nella sola giornata di domenica, ma anche di lunedì.

La data, però, non c’è. Segno che vacilla la sua interpretazione sui generis del combinato Costituzione-legge ordinaria, secondo la quale l’iter per la data del referendum si calcolerebbe a partire dall’ordinanza di novembre della Cassazione, che ha ammesso il quesito referendario in seguito alla raccolta di firme dei parlamentari della maggioranza e dell’opposizione. Solo così potrebbe fissare la data ai primi di marzo.

Ma a rompere le classiche uova nel paniere di Palazzo Chigi e della maggioranza di centrodestra sono stati 15 cittadini “volenterosi” che il 19 dicembre hanno promosso la raccolta di 500 mila firme per chiedere anche loro il referendum, come previsto dall’articolo 138 della nostra Carta. Sono magistrati in pensione e avvocati per il No.

Fra loro, gli ex consiglieri di Cassazione Antonella Di Florio e Pino Salmé e gli avvocati Piero Panici e Carlo Guglielmi, che è il portavoce.

“La Costituzione – ha detto Guglielmi – consente alla cittadinanza di promuovere una richiesta di iniziativa popolare per sollecitare la partecipazione consapevole e per sviluppare la campagna referendaria coi tempi più opportuni. Chiediamo al governo che venga rispettato il diritto di raccogliere le firme entro il 31 gennaio”. Se alla scadenza saranno raccolte 500 mila firme, l’ufficio centrale della Cassazione si esprimerà sulla loro legittimità e sul quesito referendario ed emanerà un’ordinanza. È il momento in cui il Consiglio dei ministri può deliberare il referendum. Spetta al presidente della Repubblica, però, entro 60 giorni, emanare il decreto.

La data del referendum viene fissata “in una domenica (e anche lunedì con la nuova norma, ndr) compresa tra il 50° e il 70° giorno successivo all’emanazione del decreto”.

Se si rispetta la Costituzione, l’iter per il decreto presidenziale non può che avviarsi all’inizio di febbraio e la data del referendum non può essere prima di fine marzo, più verosimilmente metà aprile. I “tre mesi” per la delibera del Cdm, infatti, non si contano dalla data dell’ordinanza della Cassazione di novembre (in seguito al quesito dei parlamentari) poiché non si può comprimere il diritto dei cittadini alla raccolta delle firme, che scade a fine gennaio. È questa l’interpretazione che danno i costituzionalisti rifacendosi all’articolo 138 della Carta, combinato con la legge del 1970 (articolo 15). D’altronde è la stessa interpretazione data dai governi Amato e Conte-2, rispettivamente nel 2001 e nel 2020 per i referendum sul Titolo V della Costituzione e sul taglio del numero dei parlamentari.

Ad appoggiare i 15 cittadini “volenterosi” anche il Coordinamento per la Democrazia Costituzionale presieduto dal professor Massimo Villone e che ha nell’esecutivo, tra gli altri, Alfiero Grandi, Silvia Manderino (vicepresidenti) e Domenico Gallo. Il quesito pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 20 dicembre è il seguente: “Approvate il testo della legge costituzionale concernente ‘Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare’ approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 253 del 30 ottobre 2025, con la quale vengono modificati gli artt. 87 comma 10, 102 comma 1, 104, 105, 106 comma 3, 107 comma 1 e 110 comma 1 della Costituzione?”. Rispetto a quello dei parlamentari indica tutti gli articoli che saranno modificati: “Abbiamo formulato un quesito parzialmente diverso, ha spiegato l’avvocato Guglielmi, per rendere evidente che è in gioco l’equilibrio dei poteri dello Stato così come previsto dai Costituenti”.

Chiunque può firmare con Spid o con Cie sulla piattaforma pubblica.

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mercoledì 24 dicembre 2025

Natale al tempo del genocidio di Gaza: meditazione in forma di responsorio - Tomaso Montanari

 

«Verbo di Dio, che ti sei fatto carne»: nei sacchi di plastica in cui sono stati raccolti i corpi di Gaza, fatti a pezzi.

«Verbo di Dio, che hai piantato la tua tenda in mezzo a noi»: nei liquami di Gaza, che scorrono come fiumi in ogni tenda.

«Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme»: e i coloni israeliani lo picchiarono, e bruciarono la casa e l’uliveto in cui si era fermato.

«Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia»: affrettatevi, fate presto, accorrete: prima che un drone lo centri, e tramuti un altro Bambino in cadavere, la gioia in disperazione.

«Perché ogni calzatura di soldato che marciava rimbombando, ogni mantello intriso di sangue saranno bruciati, dati in pasto al fuoco»: ma a Gaza non c’è più legna per accendere il fuoco.

«E la pace non avrà fine sul trono di Davide e sul suo regno, che egli viene a consolidare e rafforzare con il diritto e la giustizia, ora e per sempre»: come potrà non avere fine una pace che non ha avuto inizio?

«Il Re della pace viene nella gloria: tutta la terra desidera il suo volto»: Gaza lo ricorda il tuo volto, quando passasti nelle sue strade, bambino in fuga verso l’Egitto. Oggi sei invidiato, per quella fuga, che a loro non è concessa.

«Cristo Gesù, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini»: ma quelli che prendono il nome da Te, i cristiani dell’Occidente, invece, loro considerano un tesoro geloso il valore della loro vita superiore e di pregio. Non si spogliano: spogliano gli altri – i diversi, i non cristiani, i non bianchi –, della dignità, e della vita. I primi non sono simili agli uomini nel cuore, di pietra: gli altri non lo sono nel corpo, devastato.

«Gioiscano i cieli, esulti la terra, risuoni il mare e quanto racchiude; sia in festa la campagna e quanto contiene, acclamino tutti gli alberi della foresta, davanti al Signore che viene: sì, egli viene a giudicare la terra, giudicherà il mondo con giustizia»: i cieli di Gaza sono solcati da droni omicidi, la terra carica di macerie, il mare chiuso, proibito. Gli alberi tagliati, bruciati. Davvero verrà la giustizia? Gli autori e i complici saranno puniti, anche se sono i signori del mondo? Quando sarà, questo Natale di giustizia?

«E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama”»: e da Gaza rispose una voce: ‘E noi, non ci ama, noi? Sangue del suo sangue, terra della sua terra, noi non conosciamo pace. La moltitudine dell’esercito che appare su di noi è uscita dalla porta dell’inferno, ci uccide. Nessuna luce splende per noi’.

«Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme. Il Signore ha snudato il suo santo braccio davanti a tutte le nazioni; tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio»: le macerie di Gaza prorompono in pianto, nessuno consola il suo popolo, nessun riscatto appare all’orizzonte. Ma le nazioni hanno visto il suo massacro: i senza potere, lo hanno visto e lo hanno testimoniato in piazza, fino ai confini della terra.

«Il Signore ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni»: quando saranno rovesciati i troni dei capi dello Stato di Israele, e quelli dei loro complici in tutto l’Occidente? Quando li vedremo annegare nel mare delle loro colpe, o Signore?

«Ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati»: è a Gaza, che devi nascere, o Signore, da nessun’altra parte. Perché lì gli umili sono più in basso della terra stessa. Perché lì sono stati affamati per calcolo e per odio. Perché solo a Gaza c’è una possibilità di Dio: perché c’è una possibilità di umanità. Malgrado tutto.

«Perché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse»: oggi sono coloro che sopravvivono nella Gaza tenebrosa che rifulgono di luce, là dove Natale e Strage degli Innocenti coincidono. Là dove la disperazione è impastata con la speranza. Là dove si guarda al futuro con disperata speranza nel mondo.

Ricordaci, Signore, che «questa fede e speranza nel mondo trova forse la sua più gloriosa e stringata espressione nelle poche parole con cui il Vangelo annunciò la ‘lieta novella’ dell’avvento: “un bambino è nato per noi”»; che «anche se gli uomini devono morire, non sono nati per morire, ma per incominciare» (Hannah Arendt). Per incominciare la pace, e la giustizia. Amen

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Fare la guerra ai migranti fa male a tutti - Guido Viale

 

È inutile girarci attorno. L’affermazione delle destre sovraniste autoritarie e razziste è ovunque riconducibile al rigetto dell’immigrazione: al rifiuto del profugo, del migrante, dello straniero povero (quello ricco è sempre bene accetto). Non alla dissoluzione delle sinistre, quanto a una percezione diffusa che con la crisi climatica – anche per chi la nega, pur sapendo che c’è – su questa Terra non ci sia più posto per tutti e che il posto che si ha vada difeso comunque (di migliorarlo non parla più nessuno). Per questo l’allarme per “l’inverno demografico” nei paesi sviluppati è razzismo: si vorrebbe evitare, senza peraltro riuscirci, che il deficit di nascite venga colmato da nuovi arrivati di altro colore, di altre religioni, di altre culture; a costo di diventare una popolazione decrepita, non solo senza soldi per le pensioni e senza braccia per i lavori pesanti, ma anche senza aspettative, senza creatività, senza gioia, senza speranza.

La ricetta delle destre è semplice: respingiamoli tutti, in tutti i modi; rimandiamoli da dove sono venuti. Che queste soluzioni non funzionino non importa; vuol dire che bisogna rafforzarle, che ce ne vogliono di più… Così si trasforma una moltitudine in cerca di un lavoro, un salario e un tetto in una torma di sbandati che alimentano quel senso di insicurezza di cui si nutrono le destre. D’altronde le fu-sinistre non hanno idee diverse: copiano le destre cercando di non darlo a vedere; o di precederle, come ha fatto Minniti. Ma è una competizione persa in partenza e priva di prospettive, se non il sacrificio di tutto ciò che è connesso a una vera alternativa anche nel campo dei redditi, del welfare, dei diritti, del benessere di tutti. Il problema delle migrazioni non è uno “specchietto per le allodole”, ma una tragedia planetaria – soprattutto per coloro che sono costretti a migrare – legata ad altri due processi: la moltiplicazione delle guerre e la crisi climatica e ambientale che ne è spesso all’origine.

In pochi decenni inondazioni, siccità, desertificazione, uragani, incendi e soprattutto l’innalzamento dei mari (i ghiacci persi non si ricostituiranno per migliaia e migliaia di anni) cacceranno dal loro habitat centinaia di milioni di esseri umani (ma diversi studiosi parlano di miliardi entro la fine del secolo). Europa e Stati Uniti non ne saranno indenni, ma il grosso dei flussi avrà origine in paesi lontani e investiranno innanzitutto quelli più vicini o che si troveranno lungo le rotte di quegli esodi. Ma poi?

Le pressioni verso paesi più “ricchi”, meno popolati e più vecchi aumenteranno in modo esponenziale. Certo, i loro governi si adopereranno per fermarle, come già fanno ora. Ma a che prezzo? Moltiplicando in mare, nei deserti, nelle prigioni dei paesi di transito, o direttamente, lo sterminio di quelle genti in cammino. Con le armi di cui si stanno dotando in misura spropositata: aerei, razzi, cannoni, bombe, droni, ma soprattutto apparati di sorveglianza e di comando da remoto dei “sistemi d’arma”. L’Ucraina è stato un laboratorio per la guerra dei droni; Gaza per la distruzione sistematica di un territorio e di un popolo. Ma quel compito verrà affidato sempre più spesso ai governi dei paesi di transito, resi per questo sempre più instabili ed esposti a bande e milizie capaci di tenere in scacco anche gli Stati che pretendono di controllarli. Poi ci sarà da “fare i conti” anche con i milioni di immigrati, recenti e no, già presenti in Europa e negli Stati Uniti che in quel contesto si riconosceranno sempre meno nel paese che abitano e sempre più nelle popolazioni perseguitate dei loro paesi di origine. Che cosa ciò comporterà in termini di “guerra interna” ce lo mostra la caccia al migrante scatenata da Trump…

Neanche per i “nativi” di Europa e Stati Uniti, però, la vita sarà facile: oggi si discetta su dilemmi come motore termico o auto elettrica, come se la vita potesse continuare a scorrere (per coloro a cui “scorre”) come sempre anche in condizioni di belligeranza permanente sia contro “l’invasore” che all’interno. Ma le restrizioni saranno enormi e in continua crescita. Ovviamente non per tutti; solo per i più. E la cappa del potere sarà sempre più opprimente.

La ricerca di un’alternativa a questa prospettiva dovrebbe impegnare tutti coloro che vedono nel rapporto con i migranti la faglia di uno scontro di civiltà, il passaggio stretto di un cambiamento radicale degli assetti sociali, la possibilità di una convivenza e una cooperazione tra diversi al posto della competizione e delle gerarchie tra diseguali. Le rivendicazioni basilari delle classi oppresse “autoctone” potranno affermarsi solo coinvolgendo, su un piede di parità, anche tutti i vecchi e nuovi arrivati. È con loro che si potrà portare a buon fine interventi, lavori e opere per prevenire o rimediare ai disastri della crisi climatica e delle guerre: sia qui che nei loro paesi di provenienza, grazie ai contatti che essi mantengono con le loro comunità di origine. È per raggiungere l’Europa, e non per restare impigliati ai suoi confini, in Italia o in Grecia, che in tanti affrontano i pericoli e i lutti di quei viaggi; ed è su questa loro “fame di Europa”, e non sul mercato unico, sull’euro, su un esercito condiviso o sulla guerra – che essi detestano come può fare solo chi vi è sfuggito – che si può ricostituire l’unità del continente. Il tema è centrale: rifondare l’Europa insieme ai profughi e ai migranti.

https://volerelaluna.it/controcanto/2025/12/17/fare-la-guerra-ai-migranti-fa-male-a-tutti/

Tutto quello che è un uomo - David Szalay

David Szalay scrive nove racconti, come un romanzo in nove parti.

i protagonisti sono uomini, che hanno alcune cose in comune, sono infelici, indecisi, inetti, inutili, chi legge sa che quei racconti sono un avvertimento, tu, uomo, potresti essere uno di quelli che stai leggendo.

il libro è una bellissima sorpresa, non privartene.

buona (maschia) lettura.

 

  

"Quanto poco capiamo della vita mentre accade. Gli attimi ci sfrecciano accanto come piloni visti dal finestrino di un treno". Lettura perfetta per iniziare l'anno in bellezza. Veramente un bel libro, che sembra un insieme di racconti ma in realtà è un romanzo. Nove capitoli che parlano di altrettanti uomini, in momenti diversi dell'arco della loro vita, dall'adolescenza alla senilità, che si trovano in varie località d'Europa e che alla fine rappresentano nove declinazioni della stessa persona: l'homo europeus del nostro tempo, tra crisi e senso di sconfitta. Un libro semplice e immediato nello stile ma allo stesso tempo profondo e pieno di spunti di riflessione che ci consente di realizzare "una passeggera immersione nella trama dell'esistenza, l'eterno trascorre del tempo".

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Ricorderò le nove storie di Szalay per il loro modo particolare di essere narrate. Le prime due, in particolare, le ho adorate per la scorrevolezza e la bellezza delle vicende. I protagonisti sono sempre ben caratterizzati e ho apprezzato che l’autore spesso ce li faccia conoscere attraverso le loro debolezze. Questo libro mi tornerà utile per la posizione del narratore nella seconda storia, che sembra quasi un migliore amico del protagonista, rimasto solo in vacanza.

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L'autore è attento, ma è soprattutto onesto: descrive senza pietà, mette alla berlina l'essere maschile ben sapendo di essere uomo anche lui. Racconta infatti di uomini di qualsivoglia età e latitudine alle prese con la vita e con il genere e, anche se può sembrare riduttivo, sembrerebbe che la 'risposta' al titolo sia che solo gli stereotipi regoli la vita del maschio, ovunque egli si trovi, in qualunque momento della vita si trovi. Szalay non fa di tutta l'erba un fascio, pur rimanendo severo nell'illustrare le situazioni (ma senza comunque esserne giudice). Non tutti gli uomini SONO così ma, sembra avvisare Szalay, potrebbero diventarlo tutti se non si sta attenti. E per quanto si tratti di racconti, l'andamento della lettura è lento, a tratti anche un po' pesante: potrebbe essere colpa dello stile dell'autore, così come la poca voglia da parte di chi legge di scoprire potenziali anfratti oscuri del proprio io. Ma è un libro molto bello, perciò ve lo consiglio.

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martedì 23 dicembre 2025

Il Tav, i media e i voltagabbana - Giovanni Vighetti

 

Nessun movimento di opposizione ha mai avuto in Italia la capacità di dare una continuità trentennale alle ragioni della propria lotta, e la recente e partecipata manifestazione dell’8 dicembre, ventennale dall’epico sgombero popolare nel 2005 del cantiere nella piana di Venaus, ne è la dimostrazione. Se duri trent’anni e prosegui, se ai nostri volti invecchiati si affiancano quelli dei più giovani – e molti sono nostri figli o nipoti – vuol dire che le ragioni della lotta non sono fuffa ma hanno radici motivate e ben salde.

Ma i media di queste ragioni non parlano. E il giorno dopo la manifestazione non trovi su La Stampa un’intervista a chi è partecipe del movimento no Tav ma a chi l’ha abbandonato, come Antonio Ferrentino. E allora alcuni chiarimenti vanno fatti. Cambiare opinione è legittimo, ci mancherebbe altro. Ma quando si passa da una parte all’altra della “barricata”, si dovrebbe avere la serietà di scegliere un dignitoso silenzio o di occuparsi d’altro. Diversamente, un’affermazione come «oggi non ha più senso manifestare contro l’Alta Velocità» diventa sale sulle ferite aperte nelle vite dei cittadini no Tav traditi – questo il termine più gentile utilizzato in proposito – dal Masaniello pentito che quando, prima di entrare in sintonia con Mario Virano (all’epoca Commissario di Governo per l’Alta Velocità Torino-Lyon), era tra i punti di riferimento del movimento no Tav, gridava al megafono, a Venaus nel 2005, che neanche con l’uso dei carri armati avrebbero messo un chiodo in Valle di Susa.

L’autore dell’intervista all’ex presidente della Comunità montana è il giornalista Andrea Bucci che, in un precedente articolo (La Stampa del 7 dicembre), aveva già collezionato lo scoop dei petardi tirati ad altezza d’uomo contro le forze dell’ordine. Ora, se la balistica non è un’opinione, di fronte a reti metalliche e intrecciate alte 4-5 metri e orlate di filo spinato alla “concertina” (lo stesso filo spinato elicoidale usato da Israele nel conflitto in Palestina), un petardo, che comunque non è pericoloso come un lacrimogeno, se viene tirato ad altezza d’uomo, può, al massimo, rimbalzare. Ma tant’è. Tutto serve per definire come violenza immotivata e gratuita ogni azione contro i cantieri (e sono già quattro!) che militarizzano aree della Valle di Susa. Nella stessa direzione vanno articoli come quello recente di Alberto Giulini, sul Corriere della Sera, che dedica più spazio alle dichiarazioni di sindacalisti autonomi della Polizia che alle ragioni dell’opposizione all’inesistente linea ad alta velocità tra Torino e Lyon. Sì, proprio inesistente perché la Francia – aspetto fondamentale taciuto da media al servizio dei propri editori più che di una una corretta informazione – non ha ancora elaborato alcun progetto definitivo e tanto meno stanziato risorse per la costruzione di una linea ad alta velocità in direzione Lyon, sì che l’alta velocità terminerebbe comunque all’uscita del tunnel di base a Saint Jean de Maurienne. Non importa: troveremo probabilmente un altro illuminato ministro ai trasporti – in realtà ce l’abbiamo già – che proporrà di accollarsi oltre ai costi del tunnel di base che sarebbero spettati ai francesi, anche i tre quarti dei costi della tratta in territorio francese!

Ma, tornando all’intervista, c’è un altro aspetto importante da rigettare. Non è assolutamente vero – come afferma Ferrentino («Non si è detto nulla sul raddoppio del traforo del Frejus, del progetto della seconda canna, e invece si vuol fermare la ferrovia») – che il movimento no Tav non si sia opposto al raddoppio del Frejus. La tesi, sostenuta in più occasioni da La Stampa, non può essere sostenuta anche dall’ex presidente della Comunità montana, visto che contro il raddoppio del tunnel abbiamo marciato insieme, a Bardonecchia, prima della sua giravolta.

Il movimento ha sempre individuato nel raddoppio del tunnel autostradale del Frejus un pericoloso tassello della trasformazione del territorio valsusino in un’area di transito penalizzante per chi in valle vive e per lavorare, dopo aver perso una dopo l’altra le numerose realtà produttive locali, deve fare il pendolare oppure emigrare in altre zone d’Italia o all’estero. Certo l’impegno è stato più ridotto, ma non è difficile capire il perché. Innanzi tutto l’autostrada – costruita con soldi pubblici e ovviamente poi privatizzata, nel rispetto della linea “oneri pubblici e guadagni privati” – è stata presentata come una superstrada non a pagamento e, dunque, imposta con l’inganno (mentre l’elevata tariffa, tra le più care d’Italia, ne causa uno scarso utilizzo da parte dei torinesi che prima la sostenevano e ora nei fine settimana, per risparmiare l’elevato pedaggio, intasano le due statali della Valle). In ogni caso, opporsi all’autostrada era impossibile dopo l’apertura del tunnel del Frejus nel 1980, anno in cui nessuno ne immaginava le conseguenze sul territorio valsusino. E, per evitare la contestazione nei confronti del raddoppio del tunnel autostradale, i lavori di scavo sono stati effettuati partendo dal lato francese. Per opporsi più duramente al raddoppio (anch’esso imposto con l’inganno, perché presentato come canna di sicurezza e non di transito per auto e Tir), sostenendo contemporaneamente due fronti di lotta, poi, ci sarebbe voluto Nembo Kid, anche perché l’Alta Valle è sempre stata più preoccupata a ricevere fondi dalla Regione per l’innevamento artificiale che a programmare uno sviluppo urbanistico meno speculativo del proprio territorio o curarsi dell’interesse generale della Valle.

Infine sono inaccettabili le dichiarazioni di Ferrentino su Askatasuna («Il movimento è ormai gestito dai centri sociali di Torino. Per Askatasuna l’opera è l’unico vero megafono per ottenere visibilità») che, tra l’altro, riducono i valsusini che manifestano contro la linea ad alta velocità a un insieme di imbecilli, teleguidati da strategie altrui piuttosto che consapevoli delle ragioni di una lotta che, senza alcune giravolte, avrebbe potuto e dovuto chiudersi già nel 2005. E sono particolarmente sgradevoli in quanto fatte da chi, a suo tempo, non ne disdegnava l’appoggio nei momenti più impegnativi dello scontro.

Askatusuna non ha certo bisogno di difensori d’ufficio ma è grave la campagna di criminalizzazione nei suoi confronti. Per alcuni è quasi un’ossessione. Come per l’ex procuratore generale di Torino Francesco Saluzzo che, anche dalla pensione, insiste nei suoi assilli («La violenza è nel DNA di Askatasuna […] è una associazione criminale», La Stampa, 1 dicembre), reiterando la precedente affermazione secondo cui «dal punto di vista della criminalità il distretto giudiziario del Piemonte, tra mafie, antagonisti e No Tav “è un inferno”» (Ansa, 13 settembre 2024). Poco manca che il centro sociale venga accusato anche del recente terremoto di magnitudo 7,5 che ha colpito il Giappone e il movimento no Tav del conseguente rischio tsunami. Ma cosa dovrebbe fare un centro sociale? Limitarsi a organizzare tornei di ping pong e non essere partecipe delle lotte che manifestano il crescente disagio sociale delle periferie (come è considerata la Valle di Susa rispetto alla Città Metropolitana)? Concludo, e ammetto che queste righe sono scritte con molta rabbia, tipo L’avvelenata di Guccini. Stranamente – si fa per dire – gli operai dell’Ilva in lotta per la legittima difesa del posto di lavoro che hanno assediato la Prefettura di Genova, battuto i caschi sulle reti, gridato frasi non propriamente gentili verso i poliziotti, a cui hanno rilanciano i candelotti lacrimogeni, e, infine, abbattuto con una gigantesca pala meccanica parte delle reti metalliche a protezione della zona rossa, non vengono caricati. Evidentemente è più facile manganellare i giovani o giovanissimi studenti, come più volte è avvenuto (non solo ma) in particolare a Torino, che affrontare operai delle acciaierie che hanno ben altra esperienza e forza fisica.

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Ad Atreju Giorgia Meloni mette in mostra “il presepe degli intellettuali”. E la sinistra glielo lascia fare…- Fulvio Abbate

Giorgia Meloni sembra detestare chiunque non le somigli. E, si sappia ancora, non è l’unica a provare risentimento, se non proprio livore, per tutti noi che, per semplici ragioni di eleganza e stile, non possiamo perdonarle di non avere mai mostrato discontinuità rispetto a una sua, interamente sua, matrice neofascista, temo ostentata come fosse un peluche festivo. Altrettanto meschini, anzi, “rosiconi” risultiamo agli occhi dei suoi molti instancabili sostenitori, cioè in chi ha votato il suo miracoloso partito che, fin dal nome, mostra pretese familiari, forse anche familistiche, quasi fossimo in presenza di un patto tra consanguinei, sorta di prima comunione e cresima identitarie: Fratelli d’Italia. Implicitamente, assodata la narrazione da rotocalco popolare e populista, perfino “sorelle”, in questo caso non meno italiane, cristiane, convinte che prima d’ogni altri debbano essere gratificati i nostri dirimpettai connazionali, implicito disprezzo verso l’immigrati, concepiti come immondizia umana, indesiderabili.

Giorgia Meloni, come molti fanno inutilmente notare, dimentica, forse strumentalmente, di trovarsi da tre anni in una posizione apicale, addirittura alla presidenza del Consiglio, ciononostante tutto ciò non le impedisce di attribuire agli altri, ai cosiddetti, sempre parole sue, “rosiconi” e “sinistri”, “residenti delle ZTL”,  appunto, i propri limiti, i doverosi compromessi che realismo politico impone; d’altronde il vittimismo risentito è tra le armi principali di chi, notava il liberale Ennio Flaiano, vive in uno stato di perenne profondo senso di inferiorità culturale, oltre che politico. Non si dimentichi che agli occhi di molti il luogo ideale di chi non abbia mai marcato distanza dalla memoria dell’orbace mussoliniana prende il nome di “fogna”. Per antifrasi, gli stessi “camerati”, anni addietro, ritennero giusto chiamare una loro fanzine altrettanto identitaria proprio “La voce della fogna”. Non sembra che, diversamente da Gianfranco Fini, abbiano mai definito il fascismo “male assoluto”. Quanto ai rapporti con la “comunità” non si sono mai interrotti.  

Accanto al vittimismo temperato di rabbia mal trattenuta, il Minculpop intestato a una creatura fantasy di Giorgia Meloni da settimane ormai lavora ad ampliare le sale del proprio pantheon già prossimo scenograficamente a una cripta, includendo accanto all’immaginario già sufficientemente citato – “Il Signore degli Anelli” di J. R. R. Tolkien, e ancora “La storia infinita” di Michael Ende: da cui trarre il “logo” Atreju per le proprie manifestazioni-vetrina-showroom – figure del tutto improprie rispetto al patrimonio genetico iniziale.

L’appropriazione di Antonio Gramsci, in funzione della legittimazione di una propria egemonia venata di revanchismo tuttavia non meno nibelungico come già nelle premesse “non conformi”, è in questo senso esemplare, ed essendo condotta in un contesto segnato dalla post-verità dell’Intelligenza artificiale che tutto concede e consente appare in definitiva irrilevante che storicamente non possano esserci punti di contatto da il promotore dell’“Ordine Nuovo” nei giorni dell’occupazione armata delle fabbriche torinesi, Gramsci, e chi giunge invece dal “bunker” di Colle Oppio, alle cui pareti figuravano semmai i ritratti votivi di Corneliu Codreanu, leader ultranazionalista e ideologo antisemita romeno de la “Guardia di Ferro” o di Léon Degrelle, quest’ultimo un politico belga, fondatore del rexismo, movimento nazionalista di ispirazione ultra-cattolica, pronto a virare ideologicamente verso il fascismo, combattente nella seconda guerra mondiale nel contingente vallone delle Waffen-SS. Oppure, in un caso più “colto” ed estetizzante nel controluce mortuario della destra “sublime”, suggerendo quindi temperature eroiche, Robert Brasillach, scrittore francese collaborazionista e come tale fucilato nel febbraio 1945 al forte di Montrouge. Sorge perfino il dubbio che il culto di Ezra Pound cui molta destra fa riferimento, come fiore all’occhiello al posto delle “cimice” del trascorso Pnf, non ne riguardi con esattezza l’opera poetica straordinaria, si pensi alla complessità immaginifica dei “Cantos”, semmai l’immagine ben più prosaica e vittimistica del “prigioniero in gabbia”, catturato dai partigiani italiani e consegnato ai militari statunitensi che lo internarono nel campo di prigionia di Coltano, nei pressi di Pisa.

C’è anche il caso del non meno improbabile tentativo di appropriazione di Pier Paolo Pasolini, poeta, scrittore, cineasta, critico letterario, semiologo civile, intellettuale (anzi, “intelletuale”, così come scrisse un anonimo segretario di sezione friulana sulla sua tessera di militante comunista del 1947), polemista “corsaro” e “luterano” e legato “sentimentalmente” all’epica resistenziale. Basterebbe in questo caso leggere la sua dichiarazione di voto del giugno 1975 per abbattere ogni dubbio: “Voto comunista perché ricordo la primavera del 1945, e poi anche quella del 1946 e del 1947Voto comunista perché ricordo la primavera del 1965 e anche quella del 1966 e del 1967. Voto comunista, perché nel momento del voto, come in quello della lotta, non voglio ricordare altro”.

Rispetto a un possibile Pasolini “conservatore”, se non “reazionario” o addirittura “fascista e delatore”, come ha suggerito Federico Mollicone, deputato di Fratelli d’Italia e presidente della commissione Cultura alla Camera – “Sì, in pochi lo sanno. E tuttavia è un fatto. Non certo una mia opinione” – ritengo che basti citare un remoto “comunicato stampa” della Giovane Italia, organizzazione juniores del Msi, stilato intorno al 1968, per “manifestare contro il clima di sporcizia morale che ha invaso il cinema italiano servo del P.C.I. e dei preti del dialogo”, dove Pasolini viene indicato come “vate dei porci” per rispondere nel merito senza fatica alcuna. Evidentemente anche in questo caso “le radici non gelano”, semmai si prova a rimuoverle.  

Ma è forse ciò che definiremo “presepe familiare” è ciò che più di ogni altra cosa restituisce il nucleo del consenso che la Meloni riesce a ottenere: come ho avuto modo di notare nei giorni scorsi anche altrove, l’apparizione della madre di “Giorgia”, Anna Paratore, tra il pubblico di Atreju è in questo senso rivelatorio ed esemplare, Anna Paratore ci consegna infatti sia l’immagine di una Madre Coraggio capitolina sia, per postura e stazza (e non sembri “body shaming”, semmai un dato oggettivo) la sagoma di Sora Lella che accompagna Mimmo al seggio elettorale in “Bianco rosso e Verdone”, così in un paese mai pienamente pervenuto alla convinzione che Dio Patria e Famiglia, categorie queste presenti nella pochette meloniana, siano valori regressivi, proprio di un’angustia piccolo-borghese soffocante proprio di un tempo antecedente le più significative conquiste civili. Temo invece che, al contrario, l’immagine della Ur-Madre Anna nel caso di “Giorgia” sembra essere un sigillo ulteriore di verace “autenticità”. In verità, ci sarebbe da citare altrettanto, sempre lì ad Atreju, la presenza tra il pubblico dell’ex compagno, nonché padre della figlia Ginevra, Andrea Giambruno… Irrilevante che la piccina sia nata fuori dal vincolo matrimoniale. La Destra non sottilizza molto in tema di morale confessionale quando si tratta di sé stessa; il peso del sentire clericale lo riserva infatti ad altri, magari evocando l’uso del “Maalox” per questi ultimi.

Peccato che a dispetto di questo deposito di retorica populista da sottoscala, a Sinistra prevalga il timore di pronunciare parole che possano indispettire, o ancora peggio amareggiare, i perbenisti, lasciando agli altri il monopolio di una presunta irrefrenabile libertà, così Donald Trump potrà letteralmente continuare a “cacare in testa” in effigie a chiunque – testuale come da video postato tempo addietro – tra i sorrisi impliciti della cara “Giorgia”. 

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lunedì 22 dicembre 2025

Le (spiacevoli) verità di Trump sull'Unione Europea - Andrea Zhok


Nel documento sulla Strategia di Sicurezza Nazionale (National Security Strategy) appena pubblicato dall’amministrazione statunitense troviamo una dolorosa descrizione dell’attuale realtà europea. 

Vi troviamo scritto:

“L'Europa continentale ha perso quota nel PIL mondiale, passando dal 25% del 1990 al 14% di oggi, in parte a causa di normative nazionali e transnazionali che minano la creatività e l'operosità.

Ma questo declino economico è eclissato dalla prospettiva reale e più concreta della cancellazione della civiltà. I problemi più ampi che l'Europa si trova ad affrontare includono le attività dell'Unione Europea e di altri organismi transnazionali che minano la libertà e la sovranità politica, le politiche migratorie che stanno trasformando il continente e creando conflitti, la censura della libertà di parola e la repressione dell'opposizione politica, il crollo dei tassi di natalità e la perdita di identità nazionali e di fiducia in se stessi.

Se le tendenze attuali dovessero continuare, il continente sarà irriconoscibile tra 20 anni o meno. Pertanto, non è affatto scontato se alcuni paesi europei avranno economie e forze militari sufficientemente forti da rimanere alleati affidabili. Molte di queste nazioni stanno attualmente raddoppiando il loro impegno in quella direzione.

(…)

L'amministrazione Trump si trova in contrasto con i funzionari europei che nutrono aspettative irrealistiche rispetto alla guerra, radicati in governi di minoranza instabili, molti dei quali calpestano i principi fondamentali della democrazia per reprimere l'opposizione. Un'ampia maggioranza europea desidera la pace, ma questo desiderio non si traduce in politica, in larga misura a causa del sovvertimento dei processi democratici da parte di quei governi.”

Ora, dare ragione all’amministrazione americana è spiacevole, spiacevole sia perché questa traiettoria europea è stata fino a tempi recentissimi supportata e alimentata dagli USA, sia perché sappiamo tutti che queste verità vengono dette non certo in buona coscienza e per amore della verità, ma solo perché al momento tornano utili alla prospettiva strategica americana.

Ciò non toglie che siano verità, e vengono dette perché, in quanto verità, appaiono riconoscibili ai popoli europei.

La traiettoria europea che viene delineata nel documento parte, correttamente, dal 1990, cioè dalla svolta neoliberale che ha luogo con il Trattato di Maastricht e la trasformazione della Comunità Europea in Unione Europea. Al tempo quella svolta significava seguire gli USA nel loro percorso storico, come unica potenza mondiale rimasta dopo il crollo dell’URSS. Allora – come ora – ciò che caratterizza le classi dirigenti europee è la loro astrattezza. Se agli USA si può imputare frequentemente un brutale pragmatismo, l’Europa soffre invece di una congenita astrattezza (che, peraltro, può essere precisamente altrettanto brutale, ma senza essere pragmatica, senza esercitarsi ad analizzare e reagire alla realtà circostante).

Negli anni ’90 quell’astrattezza si espresse nella forma di un’adesione incondizionata all’idea del trionfo liberale sul modello comunista, trionfo che si traduceva in una metamorfosi del senso dello stato.

Lo stato neoliberale non si voleva più né “stato sociale” come nella stagione a economia mista del secondo dopoguerra, né “stato minimo” come nel liberalismo classico. Lo stato neoliberale si voleva interventista, ma non per interventi mossi da un’agenda sociale bensì con un’agenda dettata dall’ideale della “concorrenza perfetta”. Questo ideale microeconomico andava imposto a tutti i livelli, inclusi i monopoli naturali (ferrovie, forniture elettriche, ecc.) e inclusi i sistemi difficilmente privatizzabili (scuola, sanità, università). Là dove non si poteva senz’altro privatizzare, lì si inventavano sistemi di valutazione, di misurazione del prodotto, di competizione interna, di creazione di incentivi e disincentivi che mimavano i meccanismi di mercato.

Questo processo di snaturamento del settore pubblico, nel tentativo di assimilarne i meccanismi alla concorrenza privata è alla radice non solo della decadenza progressiva dell’istruzione pubblica e della sanità, dove le migliori risorse vengono spese in pseudocompetizioni e burocrazia, ma anche della frenesia normativa degli apparati europei. Qui il grande perdurante equivoco, sia per i detrattori che per i sostenitori, è che questo interventismo del centro amministrativo rappresenti un residuo socialista, mentre è neoliberalismo allo stato puro: infatti non è l’intervento centrale (stato, commissione europea) a fare la differenza, ma la sua agenda, i suoi intenti.

Con un esempio, avere una Banca Centrale Europa avrebbe potuto di principio essere un fattore compatibile col socialismo-comunismo, nel momento in cui la Banca Centrale avesse orientato la produzione di moneta e il suo indirizzamento a sostegno della piena occupazione, delle politiche di ricerca e sviluppo, di un consolidamento dell’industria pubblica; ma nel momento in cui l’agenda della BCE è dettata prioritariamente dal fine della stabilità della moneta, essa pone al centro dei propri interessi i detentori di capitale (oligarchie finanziarie in primis) e non i cittadini lavoratori.

La combinazione tra interventismo centrale e priorità degli interessi delle oligarchie finanziarie è catastrofica, è la peggiore delle combinazioni economico-politiche immaginabili. Essa unisce tendenze centrali al normativismo, alla sorveglianza, all’autoritarismo con la mancanza anarchica di un indirizzo politico, sostituito dall’interesse economico delle oligarchie. Questa combinazione è incomparabilmente peggiore dei sistemi dove l’autoritarismo si radica nel perseguimento di un interesse nazionale (es., Cina) ma anche di quelli dove la priorità dell’interesse economico individuale si abbina ad una cornice libertaria, anarcocapitalista (come gli USA).

Tutte le tendenze più catastrofiche degli ultimi trent’anni sono da ricondurre a questa devastante combinazione.

La distruzione delle identità collettive (nazionali, etniche, religiose, comunitarie, famigliari) è stata funzionale alla sostituzione della società tradizionale con un sistema di transazioni individuali, idealmente con un mercato universale.

La cosiddetta “sostituzione etnica” non è mai stata pianificata, e tuttavia essa di fatto avviene come esternalità di un simultaneo processo di indebolimento delle identità interne e di un ricorso massivo a risorse lavorative a basso costo (migranti). L’opzione opposta, quella di aumentare salari, compattezza politica e potere contrattuale dei lavoratori autoctoni avrebbe rappresentato una riduzione percentuale della fetta di profitti per le oligarchie finanziarie, dunque non è stata presa in considerazione.

L’indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori è andato di pari passo con una riduzione della loro capacità di consumo, e questo si è abbinato alla tendenza europea al mercantilismo, cioè a puntare tutte le proprie carte sulle esportazioni, su una bilancia commerciale favorevole. Ma questo naturalmente significa che, a fronte di qualunque sconvolgimento esterno, a qualunque turbativa dei meccanismi del commercio estero (crisi subprime, covid, guerre) l’Europa non è più in grado di compensare le carenze del mercato esterno ricorrendo al mercato interno.

In un contesto dove solo l’interesse economico individuale viene santificato, il ceto politico ha iniziato a essere rappresentato sempre più da mediocri arrivisti, da quaquaraquà, da gente priva di qualunque spina dorsale ideale e disposta a ogni compromesso pur di arrivare. Ovviamente questo si è ripercosso in forma di un degrado complessivo della politica, in un collasso delle capacità autenticamente politiche, in un crollo della lungimiranza strategica, in un disfacimento di ogni qualità personale sostituita dalla fedeltà alla lobby di riferimento (e ogni riferimento a von der Leyen, Kallas, Merz, Starmer, Macron, ecc. è puramente casuale).

Alla fine ci ritroviamo nella situazione paradossale di aver preso un modello pragmatico di matrice americana come un’ideologia eterna, di averla coltivata e implementata con tipica astrattezza europea, di esserne caduti vittima, e di rimanere alla fine con il cerino in mano mentre gli stessi americani – come hanno fatto più volte nella storia – girano la nave di 180° perché ora è nel loro interesse fare così.

Impoveriti, invecchiati, senza futuro, senza identità, senza visione, marginali ma con la presunzione di essere ancora chi dà le carte.

Materialmente i margini per cambiare rotta ci sarebbero ancora, ma il muro di ottusità creato ad arte negli ultimi decenni - e consolidato nei luoghi strategici di formazione della pubblica opinione - non sembra essere prossimo a cedere, e senza una rivoluzione culturale nessuno spiraglio si può aprire.

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a proposito di BlackRock e della democrazia

BlackRock vuol farci pagare la guerra e la pace - Alberto Capece

Ieri, nel post dedicato alla demenzialità bellica della Ue, avevo accennato proprio in coda, al ruolo degli ambienti global – finanziari nella inedita, scomposta e incoerente aggressività europea. Non sono andato avanti per evitare di rendere il post troppo lungo, ma occorre uscire dal vago: questa ingombrante presenza non è sempre nascosta dietro le quinte, alle volte le eminenze grigie si mostrano anche sul palcoscenico. Per esempio ci si potrebbe chiedere cosa c’entri Larry Fink, amministratore delegato di BlackRock, il gigante finanziario che gestisce più o meno 10 triliardi di dollari, con le trattative di pace e con Zelensky?  C’entra molto, visto che telefona spesso al duce di Kiev  e non è certo un caso che il cancelliere tedesco, Merz, un uomo che esce da BlackRock appunto, sia diventato il maggior fautore della guerra. Il fatto è che fin dall’autunno del 2022 Fink ha firmato con Zelensky un patto per la ricostruzione dell’Ucraina che di fatto sfrutta joint venture pubblico – privato per fare un mucchio di affari.

Ovviamente più viene distrutto nel corso del conflitto, più la torta aumenta: così possiamo presumere che Fink e i suoi compari stiano aspettando il momento in cui si potrà lucrare di più sul Paese che ha fornito ilo materiale umano, evitando però che l’avanzata russa dilaghi e rompa le uova nel paniere o susciti negli stessi ucraini un sentimento di ripulsa nei confronti di chi li ha usati come carne da cannone. È dunque probabile, per non dire certo, che egli sia parte di primo piano nelle trattative, così come è stato un attore importante nella guerra. Adesso c’è da ricostruire tutto ciò che rimarrà del Paese, dalla rete elettrica all’agricoltura, all’industria, allo stesso apparato dello stato che oggi è in mano a nazisti e oligarchi che rubano a più non posso. Ossia ci sono come minimo 600 miliardi di euro in gioco che stanno già stati dirottati su strumenti finanziari ad hoc: tutto questo è persino visibile nel cosiddetto piano di pace formulato da Trump e leggendo le clausole che riguardano il “dopoguerra”, pare di sentire i sussurri delle eminenze grigie nei recessi della Casa Bianca. Del resto, a quanto pare di capire, l’intero Paese non sarà che un bel parco giochi nelle mani della finanza. Va però specificato che gran parte dei soldi saranno di origine pubblica, cioè verranno prelevati dalle tasche dai cittadini,  soprattutto europei, in maniera che i ricchi divengano ancora più ricchi, grazie a un massacro che hanno propiziato con un cinismo estremo: quando si sono resi conto di non riuscire a sconfiggere la Russia con le loro sanzioni, si sono dedicati a mettere in piedi un gigantesco business. Che poi sia macchiato di sangue a loro importa ben poco. L’espressione il sonno del giusti è una clamoroso falso: i giusti si tormentano, sono gli ingiusti a non avere pensieri.

Per un momento è sembrato che parte di quei soldi avrebbero potuto derivare dalla rapina dei fondi russi, ma quando si è capito che ciò avrebbe spaccato la Ue, forse in maniera irrecuperabile e che comunque l’Fmi aveva forti dubbi sull’operazione, ecco che hanno messo le mani nelle tasche sempre più povere dei cittadini, per cavar fuori 90 miliardi di euro da regalare ai corrotti di Kiev: si tratta di denaro da rubare che non serve a nulla per la guerra. I problemi dell’Ucraina  consistono soprattutto nella carenza di uomini e di addestramento e in parte nella mediocrità e del costo stratosferico delle armi prodotte dall’Occidente. Cerco di spiegarmi con un esempio concreto: i russi lanciano ogni mese molte decine di missili ipersonici su obiettivi militari, energetici o industriali dell’Ucraina, ma per avere il 12 % di possibilità di intercettarli occorre far partire almeno 4 Patriot per ognuno dei vettori russi in avvicinamento, vale a dire  occorre un totale di 16 milioni di dollari per avere una minima possibilità di difesa. Per disporre poi di un’intera batteria di questi mediocri missili antiaerei  (in Arabia Saudita sono riusciti a beccare solo pochissimi droni degli Houti)  dotata di radar, centri di controllo, generatori e tutto ciò che occorre, la spesa è di un miliardo in relazione a una modestissima efficacia.

Così 90 miliardi sembrano tanti e sono in effetti tanti, anzi troppi, per Paesi in drammatica  crisi economica, ma in realtà sono pochi per organizzare una efficace difesa nelle condizioni in cui si trova ormai l’esercito ucraino: la sola difesa aerea per un anno li brucerebbe quasi tutti. Senza dire che Kiev è in totale bancarotta e che occorrerebbero 150 miliardi solo per tenere in piedi la baracca. Ma si sa, Fink e la sua compagnia cantante di speculatori, amano questi fiumi di denaro perché producono interessi che poi vanno in tasca a loro. La russofobia, instillata ogni giorno, su ogni canale o giornale mainstream, serve appunto a fa sì che il flusso di soldi non si fermi. E per questo che intervengono direttamente nelle trattative, non fidandosi abbastanza delle loro teste di legno di Bruxelles, scelte proprio in ragione della loro mediocrità e/o ricattabilità. In una lettera aperta al cancelliere Merz, l’economista Jeffrey Sachs gli lancia l’accusa di essere fuori dalla storia, dalla diplomazia, da ogni buon senso e credibilità. Però dovrebbe sapere che, nel modello economico in cui viviamo, il profitto non guarda in faccia a nessuno e tantomeno alla storia. Fino a quando la storia non ne decreterà la fine.

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Davos, BlackRock e il cerino della democrazia

Quando il potere non si presenta alle elezioni - Giuseppe Gagliano

C’è chi parla di “nomina tecnica”, chi di “fase di transizione”, chi si affanna a precisare che no, BlackRock non ha preso formalmente il controllo del World Economic Forum. Tutto vero. Ma irrilevante. Perché il punto non è il titolo sulla porta, bensì chi tiene le chiavi. E oggi una di quelle chiavi è finita nelle mani di Larry Fink, capo del più grande gestore di capitali del pianeta, chiamato a co-presiedere il tempio di Davos proprio mentre il sistema globale scricchiola.

Dicono che non sia una presa di potere. Sarà. Ma quando il signore di dieci e passa trilioni di dollari di asset diventa il garante della “governance globale”, forse una domanda bisognerebbe farsela. Anche solo per sport.

Il World Economic Forum è sempre stato questo: un luogo dove il potere si dà del tu, lontano da urne, parlamenti e fastidiose opinioni pubbliche. Ma finché restava un salotto, una fiera delle buone intenzioni, si poteva liquidarlo come folklore d’élite. Oggi no. Oggi Davos è il posto dove si prova a supplire al fallimento della politica. E chi meglio di BlackRock, che governa capitali più grandi di molti Stati, può farlo?

BlackRock non legifera, certo. Ma decide cosa è finanziabile e cosa no. E nel mondo reale, quello dove le fabbriche chiudono e le transizioni si pagano, questo equivale a decidere cosa esiste e cosa muore. Se non investi, non cresci. Se non cresci, scompari. Altro che sovranità.

La favola racconta che è tutto per il bene comune: sostenibilità, clima, responsabilità sociale. Peccato che a stabilire cosa è “responsabile” sia sempre lo stesso club. Un club che non risponde a elettori, ma ad azionisti. E che quando sbaglia non viene sfiduciato, ma al massimo cambia consulente.

Sul piano geopolitico il messaggio è chiarissimo. Mentre Cina e Russia rafforzano il controllo statale sull’economia, l’Occidente sceglie un’altra strada: privatizzare la stabilità. Delegare al capitale il compito di tenere insieme un sistema che la politica non sa più governare. Non è liberalismo, è resa. Una resa elegante, in giacca scura e cravatta ESG.

Il problema non è Larry Fink. È il vuoto che lo rende indispensabile. Stati indeboliti, istituzioni multilaterali paralizzate, democrazie che non decidono più ma ratificano. In questo spazio entra la finanza, che non fa prigionieri ma nemmeno promesse. E soprattutto non chiede permesso.

Poi ci stupiamo se fuori dall’Occidente Davos viene visto come il volto sorridente di un ordine economico imposto dall’alto. Ci stupiamo se cresce la diffidenza, se il Sud globale parla di ipocrisia, se la parola “governance” suona come un sinonimo elegante di comando.

La verità è che nessuno ha eletto BlackRock, ma tutti ne subiscono le scelte. Nessuno ha votato il World Economic Forum, ma molte politiche pubbliche sembrano scritte con il suo vocabolario. E quando il potere diventa così grande da non avere bisogno di legittimazione, allora sì che il problema non è più complottista. È democratico.

Davos non ha bisogno di prendere formalmente il potere. Gli basta che nessun altro lo eserciti davvero.

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domenica 21 dicembre 2025

Rebranding del genocidio - Chris Hedges


In primo luogo, Israele aveva il diritto di difendersi. Poi è diventata una guerra, anche se, secondo i dati dell'intelligence militare israeliana, l'83% delle vittime erano civili. I 2,3 milioni di palestinesi di Gaza, che vivono sotto un blocco aereo, terrestre e marittimo israeliano, non hanno esercito, aviazione, unità meccanizzate, carri armati, marina, missili, artiglieria pesante, flotte di droni killer, sistemi di tracciamento sofisticati per mappare tutti i movimenti, né un alleato come gli Stati Uniti, che hanno  fornito a Israele almeno 21,7 miliardi di dollari in aiuti militari dal 7 ottobre 2023.

Ora è un "cessate il fuoco". Solo che, come al solito, Israele ha rispettato solo la prima delle 20 clausole. Ha liberato  circa 2.000 prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane – 1.700 dei quali detenuti dopo il 7 ottobre –  e circa 300 corpi di palestinesi, in cambio della restituzione dei 20 prigionieri israeliani rimasti.

Israele ha violato ogni altra condizione. Ha gettato l'accordo – mediato dall'amministrazione Trump senza la partecipazione palestinese – nel fuoco insieme a tutti gli altri accordi e patti di pace riguardanti i palestinesi. La violazione estesa e palese da parte di Israele degli accordi internazionali e del diritto internazionale – Israele e i suoi alleati si rifiutano di rispettare tre serie di ordinanze giuridicamente  vincolanti della Corte Internazionale di Giustizia (CIG) e due pareri consultivi della CIG, nonché la  Convenzione sul Genocidio e il diritto internazionale umanitario – presagisce un mondo in cui la legge è ciò che i paesi militarmente più avanzati affermano che sia. 

Il finto piano di pace – il "Piano globale del presidente Donald J. Trump per porre fine al conflitto di Gaza" – in un clamoroso tradimento del popolo palestinese, è stato approvato dalla maggior parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a novembre, con l'astensione di Cina e  Russia. Gli stati membri si sono lavati le mani di Gaza e hanno voltato le spalle al genocidio.

L'adozione della risoluzione 2803 (2025), come scrive lo studioso del Medio Oriente Norman Finkelstein, "è stata allo stesso tempo una rivelazione di insolvenza morale e una dichiarazione di guerra contro Gaza. Dichiarando nullo il diritto internazionale, il Consiglio di Sicurezza si è autoproclamato nullo. Nei confronti di Gaza, il Consiglio si è trasformato in una cospirazione criminale".

La fase successiva dovrebbe vedere Hamas consegnare le armi e Israele ritirarsi da Gaza. Ma questi due passaggi non si realizzeranno mai. Hamas – insieme ad  altre fazioni palestinesi –  respinge  la risoluzione del Consiglio di Sicurezza. Affermano che disarmeranno solo quando l'occupazione finirà e verrà creato uno Stato palestinese. Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha promesso che se Hamas non disarmerà, lo farà "nel modo più duro".

Il "Board of Peace", guidato  da Trump, apparentemente governerà Gaza insieme a mercenari armati  della Forza Internazionale di Stabilizzazione, alleata di Israele, sebbene nessun paese sembri ansioso di impegnare le proprie truppe.

Trump promette una  Riviera di Gaza che funzionerà come una "zona economica speciale" – un territorio che opererà al di fuori delle leggi statali e sarà governato interamente da investitori privati, come la  città-stato  in Honduras sostenuta da Peter Thiel. Questo obiettivo sarà raggiunto attraverso il trasferimento "volontario" dei palestinesi – con l'offerta di token digitali in cambio  a coloro che saranno abbastanza fortunati da possedere terreni . Trump dichiara che gli Stati Uniti "prenderanno il controllo della Striscia di Gaza" e "la possederanno". È un ritorno al governo dei viceré – anche se a quanto pare non dell'odioso Tony Blair. I palestinesi, in uno dei punti più ridicoli del piano, saranno "deradicalizzati" dai loro nuovi padroni coloniali.

Ma queste fantasie non si realizzeranno mai. Israele sa cosa vuole fare a Gaza e sa che nessuna nazione intercederà. I palestinesi lotteranno per sopravvivere in condizioni primitive e disumanizzanti. Saranno traditi, come è già accaduto tante volte in passato.

Secondo l'Ufficio Stampa del Governo di Gaza e il Ministero della Salute palestinese, Israele ha commesso 738 violazioni dell'accordo di cessate il fuoco tra il 10 ottobre e il 12 dicembre, inclusi 358 bombardamenti terrestri e aerei, l'uccisione di almeno 383 palestinesi e il ferimento di altri 1.002.   Si tratta di una media di sei palestinesi uccisi al giorno a Gaza, in calo rispetto alla media di 250 al giorno prima del "cessate il fuoco". Israele ha dichiarato di aver ucciso  sabato un alto comandante di Hamas, Raed Saad, in un attacco missilistico contro un'auto sulla strada costiera di Gaza. A quanto pare, anche altre tre persone sono rimaste uccise nell'attacco.

Il genocidio  non è finito. Certo, il ritmo è rallentato. Ma l'intento rimane immutato. Si tratta di uccisioni al rallentatore. Il numero giornaliero di morti e feriti – con un numero crescente di persone che si ammalano e muoiono per il freddo e la pioggia – non si aggira sulle centinaia, ma sulle decine.

A dicembre, a Gaza sono stati autorizzati in media 140 camion di aiuti umanitari  al giorno, invece dei 600 promessi, per mantenere i palestinesi sull'orlo della carestia e garantire una malnutrizione diffusa. A ottobre, secondo l'UNICEF, a circa 9.300 bambini di Gaza sotto i cinque anni è stata diagnosticata una malnutrizione acuta grave. Israele ha aperto il valico di frontiera con l'Egitto a Rafah, ma solo per i palestinesi che lasciano Gaza. Non è aperto a coloro che desiderano tornare a Gaza, come previsto dall'accordo. Israele ha conquistato circa il 58% di Gaza e sta spostando costantemente la sua linea di demarcazione, nota come "linea gialla", per espandere la sua occupazione. I palestinesi  che attraversano questa linea arbitraria, che si sposta costantemente ed è scarsamente segnalata quando viene segnalata, vengono uccisi a colpi d'arma da fuoco o fatti saltare in aria , anche se  sono bambini.

I palestinesi vengono stipati in un campo di concentramento sempre più piccolo, fetido e sovraffollato, finché non potranno essere deportati. Il 92% degli edifici residenziali di Gaza è stato danneggiato o distrutto e circa l'81% di tutte le strutture è danneggiato, secondo le stime delle Nazioni Unite. La Striscia,  lunga solo  40 chilometri e larga 11,5, è stata ridotta a 61 milioni di tonnellate di macerie,  inclusi  nove milioni di tonnellate di rifiuti pericolosi tra cui amianto, rifiuti industriali e metalli pesanti, oltre a ordigni inesplosi e circa  10.000 cadaveri in decomposizione. Non c'è quasi acqua pulita, elettricità o trattamento delle acque reflue. Israele  blocca  le spedizioni di materiali da costruzione, tra cui cemento e acciaio, materiali per ripari, infrastrutture idriche e carburante, quindi nulla può essere ricostruito.

L'82% degli ebrei israeliani sostiene la pulizia etnica dell'intera popolazione di Gaza e il 47% sostiene l'uccisione di tutti i civili nelle città conquistate dall'esercito israeliano. Il 59% sostiene che lo stesso venga fatto ai cittadini palestinesi di Israele. Il 79% degli ebrei israeliani afferma di non essere "così turbato" o "per niente turbato" dalle notizie di carestia  e sofferenza tra la popolazione di Gaza,  secondo  un sondaggio condotto a luglio. Le parole "Cancellare Gaza" sono apparse più di 18.000 volte nei post di Facebook in lingua ebraica solo nel 2024,  secondo  un nuovo rapporto sull'incitamento all'odio e l'incitamento contro i palestinesi.

La più recente forma di celebrazione del genocidio in Israele, dove i social media e i canali di informazione ridono abitualmente delle sofferenze dei palestinesi, è l'apposizione di cappi d'oro sui risvolti dei membri del partito politico di estrema destra Otzma Yehudit, la versione israeliana del Ku Klux Klan, tra cui uno indossato dal ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir.

Stanno spingendo un disegno di legge alla Knesset che mira a rendere obbligatoria la pena di morte per i palestinesi che "causano intenzionalmente o indifferentemente la morte di un cittadino israeliano", se si dice che siano motivati ??da "razzismo o ostilità verso un pubblico" e con lo scopo di danneggiare lo Stato israeliano o "la rinascita del popolo ebraico nella sua terra",  spiega l'organizzazione israeliana per i diritti umani Adalah .

Più di 100 palestinesi sono stati  uccisi  nelle carceri israeliane dal 7 ottobre. Se il nuovo disegno di legge diventerà legge – ha superato la prima lettura – si unirà all'ondata di oltre 30 leggi anti-palestinesi promulgate  dal 7 ottobre.

Il messaggio che il genocidio invia al resto del mondo, più di un miliardo del quale vive con meno di un dollaro al giorno, è inequivocabile: abbiamo tutto e se provate a portarcelo via, vi uccideremo.

Questo è il nuovo ordine mondiale. Sarà come Gaza. Campi di concentramento. Fame. Distruzione di infrastrutture e società civile. Uccisioni di massa. Sorveglianza su larga scala. Esecuzioni. Torture, tra cui percosse, elettrocuzioni, waterboarding, stupri, umiliazioni pubbliche, privazione del cibo e negazione delle cure mediche, abitualmente usate sui palestinesi nelle carceri israeliane. Epidemie. Malattie. Fosse comuni dove i cadaveri vengono scavati con i bulldozer in fosse anonime e dove i corpi, come a Gaza, vengono dissotterrati e fatti a pezzi da branchi di cani selvatici famelici.

Non siamo destinati alla Shangri-La venduta a un pubblico credulone da accademici fatui come Stephen Pinker. Siamo destinati all'estinzione. Non solo all'estinzione individuale – che la nostra società consumistica tenta furiosamente di nascondere spacciando la  fantasia dell'eterna giovinezza  – ma all'estinzione totale con l'aumento delle temperature che renderà il globo inabitabile. Se pensate che la specie umana risponderà razionalmente all'ecocidio, siete tristemente fuori contatto con la natura umana. Dovete studiare Gaza. E la storia.

Se vivete nel Nord del mondo, potrete osservare l'orrore, ma lentamente questo orrore, con il peggioramento del clima, tornerà a casa, trasformando la maggior parte di noi in palestinesi. Data la nostra complicità nel genocidio, è ciò che ci meritiamo.

Gli imperi, quando si sentono minacciati, ricorrono sempre allo strumento del genocidio. Chiedetelo alle vittime dei conquistadores spagnoli. Chiedetelo ai nativi americani. Chiedetelo agli Herero e ai Nama. Chiedetelo agli armeni. Chiedetelo ai sopravvissuti di Hiroshima o Nagasaki. Chiedetelo agli indiani sopravvissuti alla carestia del Bengala o ai Kikuyu che si ribellarono ai colonizzatori britannici in Kenya. Toccherà anche ai rifugiati climatici.

Questa non è la fine dell'incubo. È l'inizio.

(Traduzione de l’AntiDiplomatico)

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