Il problema
non è che gli studenti del Classico vadano a fare i gommisti e quelli del
Tecnico si ritrovino a fare fotocopie. L’alternanza scuola-lavoro, resa
obbligatoria per tutti gli istituti Superiori dalla legge 107, meglio nota come
Buona Scuola, è il dispositivo centrale di un’operazione propagandistica: la
disoccupazione giovanile nascerebbe da un disallineamento tra le competenze dei
diplomati e le richieste del mondo del lavoro. Spariti d’incanto decenni di
ristrutturazione selvaggia dei processi produttivi e dell’organizzazione del
lavoro su scala internazionale, la responsabilità delle difficoltà
occupazionali delle giovani generazioni viene attribuita ad una presunta
inadeguatezza della scuola. Agli studenti e alle loro famiglie si fornisce da
un lato l’illusione che qualche settimana in azienda faciliterà, poi,
l’inserimento lavorativo, dall’altro la percezione che le materie oggetto di
studio sono lontane dalla realtà e non sono realmente importanti per la vita.
Intanto, la scuola pubblica, divenuta fornitrice di mano d’opera a costo zero,
è sottoposta ad una vera invasione di campo da ditte, terzo settore, banche,
assicurazioni, studi professionistici, che propongono agli studenti “pacchetti
formativi”, talora persino a pagamento. Sfatiamo un luogo comune: non esiste
una buona alternanza, perché non è emendabile un dispositivo strategico di
adattamento sociale e di stravolgimento delle finalità educative. E’ necessario
chiedere alle forze politiche una moratoria nell’applicazione dell’alternanza,
dispositivo che compromette gravemente la dignità e lo spessore culturale del
percorso educativo, la libertà di insegnamento, la necessaria indipendenza
della scuola dalle pressioni del mercato.
Nell’ambito del processo di aziendalizzazione
che, da almeno due decenni, investe il sistema della pubblica istruzione
l’alternanza scuola-lavoro, resa obbligatoria per tutti gli istituti Superiori
dalla legge 107, meglio nota come buona
scuola, rappresenta uno snodo cruciale, sia per le sue implicazioni
-pratiche e teoriche- sia per il suo carattere strategico.
L’alternanza è esemplare di come la quantità
possa trasformarsi in qualità, fino a caratterizzare una nuova impostazione
scolastica. La riforma renziana, infatti, non ha inventato gli stages in azienda, già da tempo
praticati in totale autonomia da molti istituti tecnici e professionali , ma ne
ha sancito l’ obbligatorietà , li ha estesi ad ogni tipo di scuola di secondo
grado ed ha aumentato massicciamente il numero di ore (200 per il triennio dei
Licei, 400 per quello dei Tecnici).
Già il nome attribuito al progetto è
significativo: istituendo una relazione dicotomica tra i due ambiti, si
nega che lo studio sia un lavoro che, come tale, necessita di un
tirocinio psico-fisico, oltre che intellettuale e si esprime una concezione
piuttosto primitiva, per la quale il lavoro è solo quello manuale o, comunque,
quello espletato in azienda. Dietro tanta approssimazione e semplificazione si
cela, in realtà, una profonda svalorizzazione dei contenuti culturali ed etici
che dovrebbero trovare nella scuola il loro terreno privilegiato.
L’alternanza è paradigmatica di una scuola
progettata per il mercato: da un lato tende a spostare il baricentro della
formazione dalla scuola- ritenuta obsoleta, perché nel nostro Paese è ancora
legata alla trasmissione e rielaborazione di un patrimonio culturale-
all’impresa , dall’altro svolge un ruolo di adattamento sociale non
trascurabile, considerate le dinamiche lavorative del nuovo millennio.
Il suo presupposto si basa su una colossale
mistificazione che una martellante campagna mediatica ha cercato di trasformare
in evidenza: la disoccupazione giovanile nascerebbe da un disallineamento tra
le competenze dei diplomati e le richieste del mondo del lavoro. Spariti
d’incanto decenni di ristrutturazione selvaggia dei processi produttivi e
dell’organizzazione del lavoro su scala internazionale, taciuta vergognosamente
la complicità di una classe politica attenta solo a recepire le richieste dei
mercati ed incapace di progettare politiche economiche di ampio respiro,
la responsabilità delle difficoltà occupazionali delle giovani generazioni
viene attribuita ad una presunta inadeguatezza della scuola, chiamata, quindi,
a colmare questo ritardo attraverso la didattica delle competenze e la
collaborazione con le imprese. Dovendo dare, naturalmente, a questo
assioma una parvenza di scientifica oggettività, il testo della “buona scuola“ porta a sostegno i
dati emersi da un’ inchiesta McKynsey 2014, secondo cui il 40% della
disoccupazione giovanile avrebbe carattere non congiunturale, ma strutturale e
nascerebbe dallo scarto” tra la domanda di competenze che il mondo esterno
chiede allla scuola di sviluppare e ciò che la nostra scuola effettivamente
offre”. (http://labuonascuola.gov.it/documenti,p.106)
Tutta la costruzione regge, insomma, su una sola fonte e sul metodo della
decontestualizzazione dei dati rilevati, assunti come significativi in sé ed
inappellabili e non ricondotti ad uno scenario economico ed occupazionale
di ben diversa complessità e rispondente ad una ben precisa ratio.
Riduzionismo informativo e demagogia si
mescolano per mettere a segno due obiettivi: assolvere le classi dirigenti
dalle gravissime responsabilità nel campo delle politiche del lavoro e sociali
e, contemporaneamente, attaccare la scuola pubblica e portarne avanti la
progressiva destrutturazione.
L’alternanza diventa il dispositivo centrale
di un’operazione demagogica e propagandistica indirizzata agli studenti e
alle loro famiglie, ai quali si fornisce da un lato l’illusione che qualche
settimana in azienda faciliterà, poi, l’inserimento lavorativo, dall’altro la
percezione che le materie oggetto di studio sono lontane dalla realtà e non
sono realmente importanti per la vita. Non solo: si dà corpo ad una
concezione della scuola come luogo di formazione della futura manodopera
che contrasta radicalmente con il portato di una lunga ed elaborata tradizione
pedagogica per la quale la scuola è , innanzitutto, luogo di formazione della
personalità umana, della coscienza civile, dell’ educazione della ragione
e dei sentimenti, attraverso la trasmissione ( che è anche rielaborazione)
delle conoscenze.
Operazione demagogica, perché gli ideatori
della buona scuola sono i
primi a sbandierare con compiacimento la rapidità dei mutamenti dell’assetto
produttivo e lavorativo della cosiddetta “società della
conoscenza” e, quindi, sono perfettamente consapevoli dell’inutilità pratica
dell’alternanza ai fini dello sviluppo di competenze immediatamente spendibili
sul mercato del lavoro e che , nel giro di poco tempo, rischiano di divenire
obsolete. La finalità perseguita è un’altra :
l’elaborazione di uno strumento efficace per aprire la scuola pubblica ad una
vera invasione di campo da parte di enti esterni: ditte, terzo settore, banche,
assicurazioni, studi professionistici, compagnie navali che propongono agli
studenti “pacchetti formativi”, talora persino a pagamento. La scuola è stata
trasformata in un mercato appetibile che fornisce mano d’opera a
costo zero e consente l’attivazione di convenzioni di tipo privatistico.
L’alternanza diventa, pertanto, il
fulcro del processo di aziendalizzazione che sta snaturando in profondità
la scuola, così come ogni ambito della vita pubblica, a partire dalla
politica. Ben lontano dall’essere un parto naturale dei riformatori
nostrani, trova il suo humus nelle “raccomandazioni” espresse in
sede europea sul finire del secolo precedente. In particolare, il Libro bianco del 1995 del Commissario
europeo con delega alla formazione e cultura Edith Cresson invita a
stabilire nuovi ponti tra scuola e impresa, cui si conferiscono le
credenziali di luogo formativo con correlate agevolazioni fiscali . Non
solo: questo documento prospetta la possibilità di sostituire in futuro il
titolo di studio, troppo rigido, con “una tessera personale delle
competenze” sulla quale verrebbero registrate di volta in volta le acquisizioni
del titolare, in modo da consentire al datore di lavoro una rapida
valutazione delle qualifiche dell’aspirante lavoratore in ogni momento della
sua vita. (www.mydf.it/DOC_IRASE/librobianco_Cresson.pdf,
pp.10,11) La certificazione delle competenze sarebbe demandata in buona parte
alle imprese; in questo contesto la scuola sembra avviarsi a divenire
un’agenzia formativa tra le altre, conformemente al nuovo scenario
dell’apprendimento permanente funzionale alla mobilità dei lavoratori in base
alle esigenze dell’economia. Non è possibile, salvo fraintenderne
funzione e fini, estrapolare l’alternanza dal quadro più vasto delle
politiche del lavoro programmate dai centri economico-politici decisionali sul
breve-medio termine : il suo perfetto equivalente in ambito lavorativo è il jobs act, al quale essa prepara
disinvoltamente i giovani, sin dall’età scolare. Non solo: fornisce alibi
a mobilità, flessibilità , sottoccupazione, facilità di licenziamento, mettendo
a disposizione delle imprese lavoratori non pagati da usarsi in sostituzione di
quelli ancora abituati a percepire un salario, per quanto irrisorio. Ciò,
naturalmente, è reso possibile da un quadro occupazionale caratterizzato
ormai da contratti a tempo determinato o “atipici”.
Che, poi, la scuola sia chiamata ad attuare
queste stesse politiche, così estranee al suo ambito d’intervento e alle sue
finalità, prelude ad un capovolgimento radicale della sua struttura
e del suo ruolo, di cui stiamo vedendo solo le prime avvisaglie.
L’alternanza, insomma, funziona da efficace cavallo di Troia
di una destrutturazione del sistema dell’istruzione, già delineata nelle sue
linee essenziali attorno agli anni ’90 del Novecento, a cominciare dalla
presenza di esperti esterni che garantiscono flessibilità quanto a reclutamento
e fedeltà ideologica ai valori dell’impresa e del mercato, rispetto ai
quali si sottolinea il persistere di una certa tiepidezza da parte dei docenti
italiani. ( La rimostranza viene espressa nei quaderni dell’Associazione
TreeLLLe, think tank di
ambito confindustriale che si propone di studiare le proposte per
migliorare la qualità dell’ education e
alla quale si sono largamente ispirati gli autori della buona scuola; cfr., in particolare,
http//wwwtreellle.org/files/III/quaderno-8,p.21.)
L’alternanza come primo passo verso
una progressiva esternalizzazione della docenza, con significativo
cambiamento del profilo giuridico ( libero da vincoli contrattuali ritenuti
troppo rigidi) e professionale ( da insegnanti alle prese con un sapere
disciplinare a formatori chiamati ad addestrare a specifiche competenze
richieste dal mondo esterno) va di pari passo con la sua funzione di
dispositivo ideologico rivolto ai ragazzi per indirizzarli alla “ cultura
d’impresa” e all’autoimprenditorialità.
Se, infatti, con Harry Braverman , riteniamo
che nella scuola non ha capitale importanza solo ciò che si impara, ma anche
ciò a cui ci si abitua (cfr. Lavoro e
capitale monopolistico .La degradazione del lavoro nel xx secolo,Einaudi,
Torino,1978,p.287), non è di poco conto considerare che l’alternanza
scuola-lavoro abitua gli studenti a lavorare gratuitamente dietro il presunto
apprendimento di qualche abilità utile dopo il diploma. Se a ciò si aggiunge
l’insistenza sulla necessità di una formazione permanente per rimanere sempre
aggiornati rispetto alle esigenze del mercato del lavoro, si profila uno
scenario futuro molto allettante per i profitti delle imprese,
estremamente preoccupante per quanto riguarda la dignità del lavoro, già
ampiamente devastato dalla deregolamentazione introdotta dalle “riforme”
neoliberiste. L’alternanza proietta direttamente l’adolescente
nella condizione lavorativa già predisposta per la gran maggioranza dei
diplomati di lavoratore flessibile, sottopagato, docile, disposto ad accettare
come normali demansionamenti, mobilità e precariato , incline a sentirsi
personalmente responsabile in caso di disoccupazione o sottoccupazione, poiché
privo di adeguate competenze o di soddisfacenti capacità imprenditoriali.
E’ doveroso sfatare un luogo comune che ,
criticando l’applicazione concreta dell’alternanza quale si è registrata in
questi tre anni, non ne mette per nulla in discussione la sostanza che,
peraltro, gli sfugge. Non esiste una buona alternanza , perché non è
emendabile un dispositivo strategico di adattamento sociale e di
stravolgimento delle finalità educative , rimosse a vantaggio di un
economicismo che svilisce la scuola a luogo di formazione e addirittura di
diretto collocamento di forza lavoro in possesso di qualche abilità settoriale
di tipo tecnico. Il problema di fondo non consiste nello scarto tra la mancata
corrispondenza fra le attività svolte dagli studenti durante lo stage in azienda e il loro piano
di studio. Che gli studenti del Classico vadano a fare i gommisti e
quelli del Tecnico si ritrovino a fare fotocopie in qualche ufficio,
rappresenta solo un lato marginale e folkloristico del problema. E il
problema è l’ingresso massiccio dell’impresa e della logica del mercato nella
scuola, sia come concreta invadenza in termini di tempi, di spazi e di
contenuti, sia come modello organizzativo, nonché culturale. Avrebbe
dovuto sollevare l’indignazione del mondo intellettuale la perdita di un
numero consistente di ore di lezione, di tempo sottratto alla trasmissione e
rielaborazione delle conoscenze, alla riflessione critica, all’approfondimento
disciplinare, tempo prezioso per la crescita umana e culturale che, per la
maggior parte dei ragazzi, qualunque sia l’indirizzo frequentato, solo la scuola
può offrire. L’alternanza comporta, inevitabilmente, un impoverimento dei
contenuti , una compressione dei programmi e, in questo senso, è perfettamente
organica alla “didattica delle competenze” . Che tale levata di scudi non
ci sia stata, salvo qualche lodevole eccezione, rappresenta un’ulteriore
riprova di un declino culturale complessivo, di un’ attenzione alle sirene
mercantilistiche che autorizza previsioni poco rosee relativamente alla
tenuta di un pensiero critico e della stessa democrazia.
L’alternanza, in quanto meccanismo predisposto
per un connubio contronatura scuola-impresa che sottrae specificità
culturale ed educativa alla prima, nonché spazi istituzionali, costringendola
sul terreno socialmente vincente della seconda, ipoteca gravemente
il futuro della pubblica istruzione . Essa non ha nulla a che vedere con il
riconoscimento della dimensione del lavoro e dell’esperienza pratica nella vita
dei ragazzi, come viene suggerito da chi cerca di correggerne le storture più
evidenti, con il fine di legittimarne la presenza, seppur in forme
riviste. Le scuole, già da tempo, possono organizzare progetti estivi con
gli enti locali per l’inserimento lavorativo, peraltro pagato, dei
ragazzi che desiderino dedicare una parte delle loro vacanze allo
svolgimento di un’ attività professionale. L’ alternanza non promuove il lavoro
che, anzi, svilisce in una nuova forma di apprendistato non
riconosciuto socialmente ed economicamente, ma l’ideologia aziendalistica e ,
non a caso, si avvale dell’ educazione “all’autoimprenditorialità”
consigliata già dalla scuola materna ,mentre ,nella concretezza
della prassi scolastica, disputa il terreno ai saperi disciplinari,
avvertiti come estranei alla ragione calcolante e strumentale.
E’ necessario chiedere alle forze politiche
una moratoria nell’applicazione dell’alternanza, sulla scia di un appello,
forte di migliaia di adesioni, lanciato nel dicembre 2017 da alcuni docenti . (
cfr. Appello per la scuola pubblica. Un
documento sulla scuola e
sull’Istruzione: da leggere, pensare e sottoscrivere)
L’obbligatorietà, il consistente monte-ore, la presenza di consulenti
esterni , il suo essere requisito vincolante per l’ammissione alla
Maturità compromettono gravemente la dignità e lo spessore
culturale del percorso educativo , la libertà di insegnamento, la
necessaria indipendenza della scuola dalle pressioni del mercato.
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