Forse è stato
per una serie di eventi aleatori, senza legame apparente tra loro che la
tragedia si è sviluppata.
O forse si è trattato di una semplice coincidenza, un
caso sfortunato. Come se il destino avesse alimentato le voci sulla sua
esistenza lanciando i pezzi di un puzzle sulle teste rotte di umani e macchine.
O per caso la Tormenta (che lo zapatismo insiste nel
segnalare e che, come per tutto quello che dice, nessuno più nota) si era
imbattuta in uno “spoiler“, un piccolo anticipo di
quello che si avvicinava. Come se, nel software incoerente con cui sembra
funzionare la realtà, fosse apparso un avviso urgente, un “warning” inavvertito, un segno che avrebbe potuto
essere rilevato ed interpretato solo dalle più avvezze vedette che, negli
angoli del mondo, sono impegnate a scrutare orizzonti che, tanto lontani,
neanche appaiono come variabile nelle frenetiche statistiche del sistema
mondiale. Dopo tutto, le statistiche servono per segnalare tendenze che
cancellano drammi quotidiani. Che
cosa è, dopo tutto, l’omicidio di una donna? Un numero. Una più è una meno. Le
statistiche diranno che ci vogliono altri più numeri di questi omicidi “di
genere” per incidere su una tendenza: quella della cavalcata fuori controllo
del sistema verso l’abisso scivolando su sangue, fango, macerie, merda,
distruzione. All’orizzonte? La guerra. Sul sentiero percorso? La guerra. Perché
nel sistema capitalista la guerra è l’origine, la strada e il destino.
Infine, forse il delirio. Questo è solo un racconto e bisogna fare attenzione
che in esso non si infilino riflessioni tendenziose, cattive idee, pensieri
malsani, oziosi cavilli, provocazioni.
Chi qualche volta ha avuto
la sfortuna di guardare un film col defunto SupMarcos, racconta che era
insopportabile. Beh, non era solo insopportabile in quel frangente,
ma ora sto parlando di guardare un film. Bastava che nel film saltasse fuori un’arma
da fuoco perché il defunto mettesse in “pausa” e partisse in una lunga ed
oziosa dissertazione su precisione, energia, portata, potere di fuoco e le
brevi o lunghe parabole che un proiettile tracciava nella sua rotta verso
“l’obiettivo”. Poco importava che in quel momento di pausa la trama si
svolgesse, o che chi stava guardando il film si angustiasse senza sapere se
l’eroe (o l’eroina, non dimenticare l’equità di genere) si salvava o no. No, lì
si manifestava l’inutile spreco di erudizione: “quella è una carabina M-16,
calibro 5,56 mm NATO, chiamato così per distinguere le munizioni fabbricate dai
paesi dell’Alleanza Atlantica del Nord da quelle del Patto di Varsavia, ed
eccetera, eccetera”. Certo, la compagnia cinefila non sapeva che cosa fare: se
dimostrava interesse, il defunto poteva dilungarsi; se, invece, mostrava
indifferenza, il defunto poteva interpretare la cosa come una sua non chiarezza
di spiegazione e si sarebbe dilungato ancora di più, arrivando, chiaramente,
alla guerra fredda. Ed allora il SupMarcos si sentiva obbligato a spiegare che
il termine “guerra fredda” era un ossimoro, un’arguzia del sistema per ovviare
alla morte e distruzione che avevano segnato quell’epoca. Proseguiva quindi con la “quarta guerra
mondiale” e così via fino a che i popcorn si raffreddavano od erano diventati
un impasto di mais in salsa “Valentina”.
Beh, sto già diventando
uguale a lui. La questione era che se il SupMarcos assisteva alla proiezione,
bisognava poi vedere il film o le serie due volte: una per subire le
interruzioni, l’altra per capire la trama. Per questo dico che un racconto è un
racconto e non una discussione politica. Anche se
Difesa Zapatista usa la “discussione politica” per occultare le prove della
“violenza di genere” che, sotto forma di ceffoni, applica allo stoico Pedrito,
il bambino che, senza saperlo né volerlo, assume il ruolo di nemesi della
bambina e del suo indefinibile gatto-cane.
Dove eravamo? Ah, sì, nel perché di quello che vi
racconterò più avanti.
Il fatto è che, quell’alba,
confermò ciò che temevo: erano finite le brioche. Tutte. Perfino la riserva
strategica (destinata a far fronte alla prevedibile apocalisse zombi, ad
un’invasione extraterrestre o alla caduta di un meteorite) era a zero.
Che cosa era successo?
Perché, come nelle tragedie greche e nei corridomessicani, non
succede niente fino a che succede.
Doña Juanita, trincerata
nelle cucine del CIDECI, a San Cristóbal de Las Casas, Chiapas, Messico, era in
sciopero: niente tamales,
niente cuche (maiale, in Chiapas), niente tacos e salse, niente intrugli ricchi di
carboidrati, grassi e colesterolo. E, oh disgrazia, niente brioche. Adesso solo cibo sano, cioè verdure,
verdure e ancora verdure. Niente di niente. Viva resistenza e ribellione.
Abbasso il cibo spazzatura e fast food.
Quando me ne accorsi mandai
un messaggero per convincere Doña Juanita a fare un’eccezione; che la capivo,
ma che io avevo letto in un libro che le brioche erano molto nutritive; che se
lei avesse fatto le brioche, sarebbe rimasto “entre nous“, non si
sarebbe venuto a sapere. Il messaggero ritornò sconsolato: non era nemmeno
riuscito a parlare con Doña Juanitache se ne stava
trincerata insieme ai suoi compas di cucina cantando “no, no, nos moverán, y el que no crea que haga la prueba, no nos
moverán“. Chiesi al messaggero che cosa aveva fatto. Disse che si
era messo a cantare, che il coro era bello e così aveva afferrato una chitarra
ed accompagnato l’inno.
Io non mi lasciai sconfiggere da questioni che relegai
al rango “di genere”. Dopo tutto, Doña Juanita è una donna e ci sono cose che
le donne non capiscono.
Ricorsi allora all’arma ultra
segreta dell’ezetalene: il compa Jacinto Canek.
Molto lontano da queste
montagne, ma piantato in altre, il compa Jacinto Canek ne sa di cucina. Fa
meraviglie con solo qualche pentola e padella. Ma possiede un dono speciale per
fare il pane e i dolci. Si mormora che c’è gente che arriva dai più
diversi angoli del mondo per assaggiare il suo pane. Come dimostrazione della
“altra globalizzazione”, la sua pasticceria ha deliziato il palato di 5
continenti.
“Il segreto sta nel metterci
tante uova”, mi confessò un giorno il compa Jacinto Canek mentre
aspettavamo, io con impazienza, che le brioche uscissero dal forno. Anche se
lui si riferiva ai dolci, io dissi quasi di riflesso: “come in tutto, Don Jacinto, come in tutto” [in spagnolo
“huevos” è usato anche nel senso di “avere le palle” – N.d.T.].
Per una questione di
solidarietà di genere, confidavo che il compa Jacinto Canek facesse onore al
suo nome di lotta e contribuisse all’uscita dalla grave crisi che si
intravedeva.
Una missione di tale trascendenza richiedeva una
posizione drastica. Allo scopo di
zittire le critiche che già prevedevo arrivare dalle femministe, incaricai l’insurgenta Erika
di andare fino alle terre dove Jacinto Canek difendeva con cappa e spada i suoi
segreti culinari.
Dissi ad Erika che aveva una missione molto importante
da compiere. Che doveva andare da Jacinto Canek e raccontargli una leggenda: i
primi dei, quelli che crearono il mondo, crearono le brioche affinché gli umani
si facessero un’idea del paradiso. Ma poi arrivò lo stramaledetto sistema
capitalista con i suoi Bimbo-Marinela,
la Tía Rosa, Wonder [marchi
di merendine in commercio in Messico – N.d.T.] eccetera, che corruppero il
sacro manicaretto degli dei.
Che quelli che facevano dolci artigianali erano i
custodi della memoria, quelli che preservavano il sacro graal che permetteva la
comunicazione tra umani e dei.
Ovviamente la insurgenta Erika
mi domandò che cosa fosse il “sacro graal”. Le dissi che era qualcosa di molto
importante, di sacro, da cui dipendeva il destino dell’umanità.
Erika se la rise dicendo “Nah, te lo sei inventato, Sup, tu vuoi soltanto le brioche”.
Io feci la faccia da offeso e la congedai con i
rimproveri di rigore.
Dopo giornate che immagino spossanti, la insurgenta Erika
tornò con una grande borsa di pane e dolci. Non riuscii a trattenermi:
applaudii. E devo confessare che i miei begli occhi si inumidirono di
gratitudine.
Senza rispondere al saluto
di Erika, le strappai di mano la borsa e vuotai il contenuto sul tavolo.
Niente. C’erano conchas, trenzas, orejas,
moños, polvorones, bolillos, teleras, chilindrinas, marquesotes, pan de elote, empanadas, hojaldras (senza offendere i lettori), cemitas, ciambelle e perfino il cosiddetto “pane
dell’amore”. Ma nemmeno una brioche, neanche una sola.
Orrore.
Mi accasciai sulla sedia con un sapore amaro a
riempirmi la vita.
Allora la insurgenta Erika
tirò fuori dal suo zainetto un’altra borsa, più piccola. Avvolta in fogli di
plastica e carta apparve una brioche!
“È riuscito a fare solo
questa”, mi disse Erika, “non ne ha più fatte perché sta ballando con
sua moglie. E chissà fino a quando”.
La insurgenta Erika
se ne andò.
Con estrema attenzione, come se si fosse trattato di
un prezioso pezzo di fine cristallo, misi la brioche sul tavolo.
Con tutta la faccenda della
Tormenta, l’Idra e l’apocalisse-tutto-compreso di mio fratello giurato,
sentenziai:
“Questa è l’ultima
brioche sulle montagne del sudest messicano”.
Non sapevo se mangiarla o
farle un altare, un omaggio premonitore a ciò che significava: la fine di
un’epoca, l’inappellabile sentenza del destino, la collera degli dei ignoti, lo
sdegno ravvisato in uno sguardo desiderato, il danno collaterale della guerra
capitalista.
La guardai, sì. La guardai con mal dissimulata
lussuria. Con delicatezza le mie dita sfiorarono appena i suoi contorni
zuccherati, la fessura circolare che esaltava il seno univoco dell’essere
unigenito, la voluttuosa figura che non solo diceva ma gridava: “sono una brioche, ma non una brioche qualsiasi, sono l’ultima
brioche”.
Così mi trovavo, cioè pensando se nel negozio della
cooperativa avevano la nota bibita di cola con cui onorare l’ultima brioche,
quando, come a ratificare la disgrazia, apparvero
sulla porta…
Difesa Zapatista e il
gatto-cane.
Balzai in piedi il più rapidamente possibile e,
cercando di coprire col corpo l’oscuro oggetto del mio desiderio, cominciai a
balbettare incoerenze:
“Eh, no, non c’è una brioche sul tavolo.
No, non la sto nascondendo. No, non c’è niente dietro di me. Ehi, che caldo fa
oggi, e le zanzare sono tremende, credo che pioverà. Pensi che pioverà?”.
Credo che Difesa sospettò qualcosa, perché mi girò
intorno e vide la brioche.
Mi guardò con riprovazione e
disse:
“Sup, devi condividere”.
Il gatto-cane abbaiò o
miagolò, o vallo a sapere, ma suppongo in appoggio di Difesa Zapatista.
Immagino che sentendosi richiamata dalla parola
“brioche” apparve, chissà da dove, una bambina che tentava di raggiungere la
brioche con una manina mentre nell’altra aveva un orsacchiotto di peluche.
La allontanai dal tavolo e, seguendo i modi del
defunto, le chiesi:
“E tu chi sei? Non ti conosco”.
“Io mi chiamo Speranza e
di cognome “zapatista” e questo è il mio orsacchiotto ed abbiamo fame”.
Sentendo il nome della bambina non potei non
apprezzare la reiterazione dei paradossi di queste terre.
La Speranza Zapatista si ritirò dopo diversi tentativi
di quello che la nuova teoria sociale chiamerebbe “accumulazione per predazione
di brioche”, una fase ancora in sviluppo del capitalismo.
Difesa e il gatto-cane mi
guardavano con più di 500 anni di reclami sperando nell’impossibile: che io
condividessi con loro l’ultima brioche delle montagne del sudest messicano.
“Non è possibile”, mi
difesi con durezza, “ce n’è una sola. Se ce ne fossero state due o
di più, si potevano distribuire, ma siccome ce n’è solo una, non si può
condividere, è solo per uno”.
Sottolineai “uno” per marcare la
differenza di genere: “l’uno” escludeva Difesa Zapatista,
Speranza ed il gatto-cane, il quale, non si sa se è cane o gatto, e tanto meno
se è maschio o femmina.
Seguendo la quinta legge della dialettica (nota: la
prima legge della dialettica è “tutto ha a che vedere con tutto”; la seconda è
“una cosa è una cosa ed un’altra cosa è non rompetemi”; la terza è “al diavolo
l’universo e la materia”; la sesta è “non c’è problema sufficientemente grande
che non possa essere aggirato”)…
Vi dicevo che la quinta
legge della dialettica dice che può sempre piovere sul bagnato e, per
confermarla, riapparve Speranza Zapatista ora accompagnata da due bambini
zapatisti: uno indossava un cappello vaquero più grande di
lui e si presentò con “io sono il Pablito“; l’altro
indossava un cappello modello “Don Ramón en el Chavo del 8”, anche se sembrava
più un casco di paglia, e disse che lui era “Amado, Amado Zapatista”
(volevo rifilargli un ceffone per volermi sostituire).
Essendo in svantaggio
numerico, analizzai le mie possibilità:
Potevo, per esempio, mettermi nella classica “modalità matanga disse la changa“, afferrare la brioche
e fuggire in quello che nella teoria militare si chiama “ripiegamento strategico”.
Opzione scartata: il commando infantile zapatista mi
aveva circondato.
Potevo travolgerli, seguendo la modalità del Fondo
Monetario Internazionale di fronte a governi progressisti e non progressisti,
ma correvo il rischio di inciampare e di far cadere il sacro graal. Questo
avrebbe avvantaggiato il gatto-cane la cui abilità nel prendere le cose che
cadono era stata già dimostrata in un altro racconto che vi narrerò in un’altra
occasione.
Optai quindi per la
demagogia in voga e, rivolgendomi al commando infantile, dissi:
“Guardate,
dovete comprendere la congiuntura, la correlazione delle forze non è
favorevole. Non è tempo di radicalismi. È meglio una transizione tranquilla,
aspettare, per esempio, che ci siano più brioche, e
allora sì. Ma ora voi dovete aspettare pazientemente. Per esempio, se c’è una
bambina che si chiama “Difesa Zapatista” ed un’altra che si chiama “Speranza
Zapatista”, può essere che ce ne sia una che si chiami “Pazienza Zapatista”.
Allora, andate a cercarla e quando la troviate, fatele un bel discorso politico
e poi vedremo”.
“Non c’è”, rispose Difesa Zapatista, ed aggiunse maliziosamente: “ma c’è una compagna che si chiama “Calamità”, cioè, “La Calamità
Zapatista”. Vedrai se la portiamo”.
Un brivido scosse il mio corpo sensuale.
Disperato, mi resi conto che
i miei argomenti non erano convincenti.
Immaginai allora il
cataclisma terminale: una moltitudine di bambine e bambini zapatisti che
circondano la mia capanna, in altri tempi il comando generale dell’ezetaelene;
insulti nelle diverse lingue di origine maya; Difesa
Zapatista che ordina “portate la legna di ocote“;
Speranza che tira fuori, chissà da dove, un accendino, mentre il suo
orsacchiotto, ve lo giuro, si trasformava in “Chuky, la bambola assassina“;
il gatto-cane che abbaia e miagola; il Pedrito che balla con la promotrice di
educazione e il Pablito che canta quella del moño colorado e
l’Amado che fa la seconda voce (sì, gli uomini sempre in un altro canale); l’ocote acceso che si democratizza; le prime fiamme
che lambiscono le assi di legno e creano un cerchio di fuoco dentro il cerchio
infantile; ed io, eroico, abbraccio la brioche pronto a morire prima di
consegnare “my tresaure” a quella massa irriverente alta solo
qualche spanna da terra.
Era inutile tentare di
dividerli e portarli a scontrarsi tra loro: la brioche li univa ed io non potevo
cederla.
È vero, avrei potuto
lanciarla e, approfittando della confusione, cercare un nascondiglio. Ma dubito
che litigherebbero per la brioche. Sicuramente seguirebbero la loro tradizione
di condividere perfino il poco che hanno, proprio come
faceva la banda del defunto SupMarcos dopo aver assaltato il negozio “La Nana
Zapatista” alla Realidad.
Ma niente da fare, era la mia brioche. Lei ed io
eravamo uniti dal destino. Nei miei pensieri si affollavano gli antichi scritti
(scritti da me): “al principio dei tempi, gli dei crearono la
brioche e videro che la brioche era buona ed allora crearono il Sup affinché di
lei ne godesse e se la pappasse senza condividere”. Ergo, la brioche
era di mia proprietà per mandato divino e quei nani e nane eretici volevano spogliarmi
di lei, commettendo così il più grande dei peccati: sfidare la proprietà
privata della brioche che, come tutti sanno perché è in tutti i libri di
storia, è il fondamento della civiltà, dell’ordine e del progresso.
Era in gioco il futuro del
mio mondo. Se condividevo la mia brioche, l’umanità sarebbe tornata all’età
della pietra, ad un mondo senza internet, senza reti sociali, senza i film e le
serie in streaming e, orrore degli orrori, senza gelato alla noce.
Compresi allora che nel mio bello e ben formato corpo
risiedeva l’ultima opportunità dell’essere umano.
Se avessi condiviso la
brioche, potevano succedere cose terribili. Per esempio, le donne avrebbero
potuto ribellarsi. Non una, né due. Tutte. Milioni di Difese, Speranze e
Calamità Zapatiste che saltano fuori da tutti gli angoli del pianeta.
L’apocalisse.
La distruzione totale del mondo per come lo
conosciamo.
La fine dei tempi.
La catastrofe finale.
Mi spaventai.
Allora, feci un errore di
cui non finirò mai di pentirmi: senza che ce ne fosse bisogno, dissi:
“Inoltre, è l’ultima”.
“L’ultima!”, ripetè
la bimba con allarme e sorpresa.
Difesa Zapatista si fece
pensierosa. Io sentii un brivido percorrere il mio voluttuoso corpo. Non c’è
niente di più temibile di una bambina che pensa.
Difesa Zapatista ruppe il
silenzio:
“Va bene, allora
giochiamo e chi vince si prende la brioche”.
Io volevo dire che non dovevo proprio giocare a niente
scommettendo la mia brioche, perché era mia, mia-di-me-con-me, my tresaure, il prodotto del mio lavoro… beh, il lavoro
era stato del compa Jacinto Canek, ma per solidarietà di genere e in sua
rappresentanza, spettava a me).
Mentre costruivo la mia difesa, la idem zapatista,
aggiunse:
“Ed in onore del
gatto-cane qui presente, il gioco sarà il “tris”. Chi vince, vince la brioche”.
Sentendo questo, interruppi nella testa la mia
brillante dissertazione giuridico-gastronomica e domandai:
“Tris? Quello
che si gioca con cerchi e croci e vince chi li infila in una linea orizzontale,
verticale o diagonale?”
“Quello”, disse la
bambina e nel suo quaderno tracciò lo schema del “tris”, il gioco della mia
infanzia che, avendolo giocato qualche volta, sapevo senza vincitore...
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