Domenica 11
marzo 2018 la storica trasmissione televisiva della Cbs 60 minuti ha
mandato in onda un’intervista della conduttrice Lesley Stahl a Betsy DeVos,
politica e attivista statunitense e dal 2017 segretario dell’istruzione degli
Stati Uniti all’interno dell’amministrazione Trump.
L’intervento
è stato giudicato da molti un vero e proprio disastro. DeVos ha fatto fatica a
rispondere a domande molto semplici, ad esempio perché le scuole del Michigan,
lo Stato in cui è nata e cresciuta, siano molto peggiorate dopo l’introduzione
delle politiche legate alla scelta scolastica in favore delle quali si è da
sempre battuta. Alla richiesta se avesse mai fatto visita a una di quelle
scuole per scoprire cosa fosse andato storto, DeVos ha orgogliosamente
rivendicato: “Non ho volutamente mai visitato le scuole che stanno ottenendo
risultati inferiori agli standard previsti”. Un’affermazione che ha generato un
coro pressoché unanime di critiche.
Il
segretario dell’istruzione non è del resto nuovo al biasimo collettivo. Ovunque
vada è attesa da manifestanti pronti a fischiarla e a rimproverarle
principalmente il fatto che, come ben raccontato dal “New York Times”1,
abbia da subito concepito il proprio mandato con un’impronta nettamente
religiosa, arrivando a definire la riforma dell’istruzione “una strada per
avanzare nel regno di Dio”.
Ricchezza e
religione, d’altra parte, hanno segnato sin dagli esordi la sua ascesa nella
destra cristiana ultraconservatrice, di cui prima di diventare segretario è
stata per anni una ricca benefattrice. Nata nel 1958 dall’industriale e
miliardario Edgar Prince, finanziatore di Family Research Council,
organizzazione non a scopo di lucro nota per le sue posizioni omofobe,
Elisabeth detta Betsy cresce a Holland (Michigan), dove riceve un’educazione
rigidamente cristiana. Sposatasi con il politico e miliardario Dick DeVos si è
dedicata alla filantropia per organizzazioni come Children First America,
American Education Reform Council e Christian Reformed Church. Un’intensa
attività benefica che condivide con gli altri membri della ricchissima
famiglia. Il suocero Richard DeVos, miliardario e ideatore di Amway (una delle
società di vendita diretta più grandi del paese), ha foraggiato dagli anni
settanta vari gruppi appartenenti alla destra religiosa. Il fratello Erik,
invece, è il fondatore di Blackwater, la controversa compagnia militare privata
divenuta tristemente nota come principale società di contractor in supporto
alle forze armate in Iraq. Il marito Dick DeVos, infine, ha creato insieme alla
consorte la Dick and Betsy DeVos Family Foundation, che oltre a sponsorizzare
l’organizzazione cristiana conservatrice Focus on The Family negli anni ha
donato al partito repubblicano oltre 200 milioni di dollari. Non sorprende
dunque che DeVos si sia attirata anche molte accuse di plutocrazia, portando
molti a suggerire che si sia letteralmente comprata la propria investitura
politica.
Il principio
di libera scelta
La principale
battaglia di DeVos è sempre stata quella in favore della privatizzazione del
sistema educativo tradizionale, da lei considerato un vero e proprio monopolio,
attraverso iniezioni di dosi di competizione. L’obbiettivo ultimo è garantire a
tutte le famiglie americane la possibilità di scegliere la scuola più adatta al
figlio, inclusi gli istituti privati, attraverso voucher (soldi
pubblici distribuiti alle famiglie per pagare le scuole private) e charter
school, scuole né pubbliche né private in cui gli studenti non devono
pagare rette esorbitanti.
Finanziate
in parte con denaro pubblico (anche se meno rispetto a quello pubbliche), in
parte con donazioni private, godono di una certa autonomia gestionale ma sono
comunque tenute a mantenere un certo standard rispetto alle scuole pubbliche.
Devono cioè realizzare i risultati minimi prefissati dai test standardizzati i
cui risultati sono usati non solo per valutare il livello di apprendimento
degli alunni, ma anche per giudicare la performance didattica dei singoli
docenti e delle scuole per intero (pena rispettivamente il licenziamento e la
chiusura totale).
A differenza
dei voucher, cui i Democratici tipicamente si oppongono, le charter hanno
goduto di un sostegno bipartisan almeno a partire dagli anni novanta. Basti
pensare che l’ex presidente Obama le ha definite “incubatori di innovazione nei
quartieri di tutto il nostro paese”. Dietro questo sostegno unanime vi è la
crescente disaffezione verso le scuole pubbliche, non solo per la scarsa
qualità della loro offerta didattica, ma anche per il razzismo strisciante che
da sempre le attraversa. Le charter sono state viste anche dai
Democratici come uno strumento per dare potere di scelta e voce nell’educazione
dei figli a tutti i genitori, inclusi quelli socio-economicamente più
svantaggiati e appartenenti a minoranze etniche. Particolarmente efficace nel
colmare il divario educativo tra studenti bianchi e di colore è stata
considerata la loro flessibilità: in virtù del loro statuto semi-autonomo
le charter possono sperimentare nuovi curricula e nuove strategie
didattiche o optare per un orario scolastico più lungo, ma anche assumere o
licenziare gli insegnanti liberamente, senza i vincoli contrattuali che si
applicano alle scuole pubbliche. Anche per via di questo sostegno le charter
vanno a gonfie vele: ce ne sono più di 6mila negli Stati Uniti, dalle 2.500
di un decennio fa, ed educano 2,3 milioni di bambini.
Dei
risultati delle charter school sul rendimento degli alunni di
discute moltissimo. Numerosi studi, per esempio quello prodotto dal Centro di
ricerca sui risultati dell’istruzione della Stanford University (Credo)2 sembrano
indicare che, per specifiche categorie di studenti, le charter abbiano
contribuito a aumentare i punteggi ai test annuali. A beneficiarne sarebbero in
particolare gli studenti delle zone urbane ed economicamente depresse del
paese. Esattamente il contrario di quanto avverrebbe nei sobborghi abitati
dalla middle class bianca, dove le charter realizzano invece
punteggi analoghi e spesso inferiori a quelli delle scuole pubbliche.
I dati
divergenti sull’efficacia delle charter in termini di
risultati ai test mettono in luce una caratteristica fondamentale di queste
scuole: esattamente come le scuole pubbliche, le charter riflettono
la composizione demografica delle aree e dei quartieri in cui vengono aperte.
Negli Stati
Uniti la segregazione abitativa ha infatti un effetto diretto sulla qualità
dell’istruzione. Il principio dello school zoning stabilisce infatti che negli
Stati Uniti ogni bambino di età compresa tra 5 e 21 anni sia assegnato a una
scuola pubblica all’interno di una zona che si basa sull’indirizzo di casa. Si
può anche presentare domanda a una scuola esterna al proprio distretto, ma non
è detto che si venga accettati e in ogni caso bisognerà pagare alte tasse
scolastiche.
Occorre
inoltre aggiungere che le scuole pubbliche sono finanziate solo per il 10 per
cento dal Governo Federale. Il resto dei soldi proviene dagli Stati e dalle
municipalità, e in particolare dalle tasse municipali sulla proprietà
immobiliare.
Comprare una
casa significa dunque anche comprare l’accesso a una buona scuola pubblica per
i figli.
Le scuole
pubbliche delle aree suburbane, che usufruiscono di tasse di proprietà
immobiliare più elevate dei quartieri urbani, sono solitamente più attrezzate,
hanno insegnanti più qualificati e producono una quantità maggiore di studenti
di successo. Spesso è vero anche il contrario: dove le scuole pubbliche sono
migliori anche il valore del mercato immobiliare tende a salire.
Nell’ultimo
decennio, ossia da quando sono stati applicati gli standard di performance, il
dibattito sul finanziamento scolastico è cresciuto. Alcuni sostengono che per
soddisfare standard più elevati le scuole abbiano necessariamente bisogno di
più soldi federali. Altri ribattono che gli aumenti della spesa non sempre si
traducono in prestazioni più elevate e che avere più fondi senza lavorare sullo
sviluppo professionale dei docenti non porti a rilevanti miglioramenti.
“Progetto
per i diritti sociali”
Al di là del
dibattito sulla loro qualità, una delle questioni più scottanti è quella degli
effetti che la combinazione di segregazione residenziale e finanziamento
scolastico ha sulla composizione etnico-razziale delle scuole. Lo ha messo in
luce il “Progetto per i diritti sociali”, pubblicato il 26 marzo del 2014 dal
dipartimento dell’istruzione all’Ucla3: la società nordamericana,
dopo più di un secolo di lotte per i diritti civili, rimane una comunità
residenziale e scolasticamente segregata: neri, bianchi e latini abitano in
quartieri notevolmente differenti e frequentano scuole segregate. E il
proliferare delle scuole charter nel Paese non ha fatto che
aumentare questo processo di segregazione.
Il “Progetto
per i diritti sociali” indica che a livello nazionale rispetto alle scuole
pubbliche le charter hanno una maggiore percentuale di studenti a
basso reddito (46% contro 41), neri e latini (27% contro 15% e 26% contro il
22%, rispettivamente). Nelle città, dove si trova la maggior parte delle charter,
il 25% delle charter è per oltre il 99% non bianco, rispetto
al 10% delle scuole tradizionali. Ma rispetto al triste passato americano, in
cui gli Stati più segregazionisti erano quelli del Sud, oggi la segregazione
scolastica si concentra negli Stati del Nord-Est. Le scuole pubbliche dello
Stato di New York sono le più segregate, e quelle appartenenti al sistema
scolastico della città di New York City hanno il tasso più alto di bambini neri
e il tasso più basso di rapporto tra studenti neri e bianchi; queste scuole
educano un terzo degli studenti neri a New York e metà degli studenti neri a
Chicago.
I
sostenitori delle charter sostengono che, nonostante
l’evidente omogeneità etnica delle charter, non si possa parlare di
segregazione razziale per un semplice motivo: per legge i genitori possono
sempre scegliere in quale charter iscrivere i figli. Per le
scuole private e per le charter non vale infatti il vincolo
geografico. In linea teorica nulla impedisce ai genitori di iscrivere i bambini
in una scuola lontana da dove vivono, per esempio in una delle periferie
frequentata in maggioranza dai bianchi. L’unico limite è il numero dei posti.
Se ci sono troppe domande la scuola seleziona gli studenti tramite un processo
di selezione casuale, una vera e propria lotteria.
Sempre il
“Progetto per i diritti sociali” mette però in dubbio l’esistenza di una vera
libera scelta: la possibilità di scegliere, ricorda, presupporrebbe un accesso
concreto alle opzioni disponibili. Al contrario, l’accesso delle famiglie al mercato
educativo è limitato da una serie di fattori, tra cui l’appartenenza a reti
sociali privilegiate, la presenza di barriere linguistiche, lo status
socioeconomico e molto più banalmente la capacità dei genitori di trasportare
ogni giorno i figli a scuola e di pagare di tasca loro il pasto.
Consideriamo
ad esempio il processo di selezione di un allievo all’interno di una scuola charter.
I genitori devono sapere quali sono le buone scuole charter ed
essere motivati abbastanza per non demordere nel farraginoso processo
burocratico. Devono in primo luogo conoscere il programma della scuola, cosa
che dipende a sua volta dal fatto che questa abbia condotto attività di
sensibilizzazione e pubblicità distribuendo materiali in più lingue. Anche
qualora sappiano della presenza di un buon istituto, devono avere a che fare
con il complicato processo di candidatura dei figli, spesso attraverso una
lotteria ma anche attraverso la somministrazione di test, la presentazione di
raccomandazioni da parte di precedenti insegnanti, e sempre più spesso da
dichiarazioni di disponibilità da parte dei genitori a partecipare attivamente
alla vita scolastica dei figli, per esempio facendo volontariato.
Agli
studenti può essere chiesto di presentare uno scritto di 15 pagine, un racconto
originale o un saggio scritto a mano su una figura storica a scelta. Ci sono
diverse interviste da superare e pagine di domande a cui i genitori devono
rispondere, tra cui: come intendi aiutare questa scuola se ammettessimo tuo
figlio o tua figlia? Qualora si venisse accettati, infine, in molti Stati il
trasporto a scuola e i pasti sono a carico della famiglia, due opzioni
chiaramente non disponibili per molti genitori in condizioni socioeconomiche
svantaggiate.
Va da sé
che, mentre nei quartieri abitati dai bianchi privilegiati si moltiplicano come
funghi charter school frequentate da bambini bianchi, i genitori a
basso reddito, pur di evitare le scuole pubbliche sotto-finanziate dei
quartieri in cui vivono, optino per la charter più vicine a
casa. Le charter tendono dunque a essere quasi esclusivamente
nere o bianche, al contrario delle scuole pubbliche, che mostrano un livello di
diversità etnica basso ma comunque superiore.
Di fatto
molte charter della ricca e bianca periferia usano come
stratagemma per selezionare i propri studenti proprio i criteri di iscrizione:
non solo lunghi moduli disponibili solo poche ore all’anno e stampati solo in
inglese, interviste e saggi compilati sia dagli aspiranti studenti che dai
genitori, ma anche cartelle cliniche, tessere della Social Security e
certificati di nascita dei ragazzi, che per legge non potrebbero essere
chiesti.
Al
contrario, molte charter che operano in quartieri difficili
come Kipp, Yes Prep, Green Dot e Success Academy, utilizzano moduli di domanda semplici
che richiedono solo alcune informazioni burocratiche. Nikole Hannah Jones, una
reporter che si è molto occupata delle forme attuali di segregazione razziale
nelle scuole statunitensi, ha affermato in un bell’articolo apparso sul “New
York Times” che gran parte della retorica contemporanea sull’importanza della
libera scelta della scuola è in realtà una declinazione degli impulsi razzisti
e segregazionisti dei genitori bianchi che cercano modi efficaci e legali per
spostare i loro figli dalle scuole pubbliche, frequentate prevalentemente da
afroamericani o da latini, in scuole private in teoria aperte a tutti ma in
pratica accessibili solo a pochi4.
Il “Progetto
per i diritti sociali” raccomandava che i governi federali e statali
spingessero verso la diversificazione razziale delle scuole charter.
L’amministrazione Obama e alcuni stati hanno ad esempio creato programmi per
promuovere la diversità razziale ed etnica nelle scuole charter fissando
alcune quote. I provvedimenti, applicati in modo non uniforme, hanno destato
non poche perplessità. Per molti infatti la vera questione dei diritti civili
non è tanto l’omogeneità etnico-razziale all’interno delle classi, quanto il
fatto che i bambini più vulnerabili siano intrappolati in scuole pubbliche che non
funzionano. Si dovrebbe negare agli studenti neri un’alternativa a meno che non
ci siano abbastanza bianchi che vogliano frequentare la stessa scuola del
centro città?
“Cari
colleghi”
Betsy DeVos
è accusata da una fetta crescente dell’opinione pubblica di non avere alcuna
chiara posizione in merito alla questione delle conseguenze che il sistema di
privatizzazione sregolata di cui è ambasciatrice ha sulle fasce di popolazione
più povere e marginalizzate, in particolare sulle minoranze. Lei stessa del resto
sembra esplicitamente non riconoscere la questione razziale come un problema
politico significativo.
In linea con
gli attuali sforzi dell’amministrazione per annullare il lavoro
dell’amministrazione Obama, DeVos ha innanzitutto incaricato il Dipartimento
dell’istruzione di rivedere l’iniziativa intrapresa da Obama per rendere
l’equità razziale una priorità assoluta all’interno della disciplina
scolastica.
Un corpus di
ricerche ormai piuttosto solido ha mostrato infatti che, in situazioni simili e
per le stesse infrazioni, gli studenti appartenenti a minoranze etniche hanno
più probabilità di essere sgridati e puniti rispetto a quelli bianchi. Gli
alunni neri, ad esempio, sono sospesi 3,8 più di quelli bianchi. Una
discrepanza statistica che ha risultati concreti: i ragazzi sospesi
tendenzialmente non riescono a diplomarsi in tempo e sono più inclini a essere
intrappolati tra le maglie del sistema giudiziario minorile per comportamenti
anomali a scuola. Un meccanismo vizioso conosciuto come “tunnel scuola-prigione”
che nel 2014, il Ministero dell’educazione e della giustizia della presidenza
Obama ha cercato di affrontare attraverso una direttiva nota come la
direttiva Cari Colleghi (Dear Colleague Letter on the
Nondiscriminatory Administration of School Discipline)5.
Vi si
affermava che la gestione della disciplina studentesca può portare a
discriminazioni razziali illecite in due modi: 1) quando uno studente è
sottoposto a trattamenti diversi in base alla sua appartenenza razziale; e, più
comunemente, 2) quando una politica è apparentemente neutra, che cioè non
menziona la razza ed è amministrata in modo imparziale ha tuttavia un “impatto
sproporzionato” sugli studenti di una particolare razza.
Cari
colleghi consigliava
alle scuole di monitorare attentamente che il personale scolastico fosse
adeguatamente formato per gestire la disciplina in modo non discriminatorio. Il
presupposto che emerge chiaramente dalla direttiva è la convinzione che vi sia
il rischio che gli studenti appartenenti alle minoranze siano maggiormente
puniti, spesso inconsapevolmente, a causa di pregiudizi culturali. Lo ha più
volte ribadito Arne Duncan, responsabile per le attività studentesche sino agli
inizi del 2016: “La verità innegabile è che l’esperienza quotidiana
dell’insegnamento viola nei confronti di numerosi allievi di colore il
principio di eguaglianza, che è al centro della promessa americana. È il
comportamento degli adulti che deve cambiare. Esso deve essere rimesso in
discussione ogni giorno”.
Valeria
Silva, dal 2009 sovrintendente delle scuole pubbliche di Saint Paul
(Minnesota), è stata una pioniera appassionata dei tentativi dal basso, portati
avanti dall’alto dell’amministrazione Obama, di favorire l’uguaglianza razziale
nella disciplina scolastica. Nel 2011 ha reso l’uguaglianza nella disciplina un
elemento centrale del suo piano programmatico: “Scuole forti, comunità forti”.
In termini
demografici le scolaresche di Saint Paul sono composte circa per il 32% da
asiatici, per il 30% da neri, per il 22% da bianchi, per il 14% da ispanici e
per il 2% da caucasici. Nel 2009 e nel 2010 il 15% degli scolari neri del
distretto erano stati sospesi 5 volte più degli scolari bianchi e circa 15
volte di più degli scolari asiatici. Silva ha sostenuto che, seguendo il
principio di uguaglianza, la popolazione scolastica nera non avrebbe dovuto
essere sospesa da scuola più di 2 volte tanto rispetto a quella di origine
asiatica (il gruppo con il tasso di sospensioni più basso). Ha quindi reclutato
un “consulente sulle diversità” per obbligare il personale della scuola di
Saint Paul, dai presidi, ai bidelli agli autisti di bus, a confrontarsi con la
loro intolleranza e a raggiungere una certa “competenza culturale” nel loro
lavoro quotidiano con gli studenti. In questo sforzo teso a ridurre l’espulsione
disciplinare dei neri e di uscire dal tunnel che porta dalla scuola alla
prigione, ha inoltre bandito le punizioni per cattiva condotta degli allievi e
adottato un nuovo protocollo di collaborazione tra scuola e polizia che
classificava le infrazioni degli allievi in 5 livelli, chiedendo alle scuole di
denunciare di loro propria iniziativa solo le infrazioni peggiori come
l’incendio doloso, le aggressioni gravi, la violenza sessuale, il possesso di
droga.
Parallelamente,
Silva ha attuato un piano di Positive Behavior Interventions and Supports
(Interventi e sostegni per un comportamento positivo), un programma di
modifiche comportamentali anti sospensione che si concentra sulla discussione e
la mediazione.
Il modello
Silva è stato aspramente criticato dai Repubblicani. Il 5 marzo il senatore
Marco Rubio, repubblicano della Florida, ha inviato a DeVos e al procuratore
generale Jeff Sessions una lettera sulla sparatoria di massa alla Marjory
Stoneman Douglas High School, a Parkland, Florida, una delle 19 verificatesi
solo dall’inizio del 2018.
Rubio ha
accusato la direttiva Cari Colleghi e il “modello Silva” di
aver contribuito a fare sì che il sospetto killer di Parkland, Nikolas Cruz,
non sia stato segnalato alla polizia. Rubio ha inoltre chiesto a DeVos, nel
frattempo messa da Trump alla guida del nuovo comitato volto a trovare
soluzioni per ridurre la violenza nelle scuola, di rivedere del tutto le
riforme del tunnel “scuola-prigione”.
DeVos non
sta solo pensando di porre fine alle politiche di Obama che hanno cercato di
riconoscere il ruolo della appartenenza razziale all’interno del sistema
scolastico americano. Durante 60 seconds si è candidamente
rifiutata di ammettere che la razza giochi un ruolo nella gestione della
disciplina scolastica. Alla domanda dell’intervistatrice di commentare i tassi
di sospensione da scuola etnicamente sproporzionati si è limitata a rispondere:
“è una questione che stiamo ancora cercando di capire. E ci stiamo impegnando
per far sì che gli studenti possano apprendere in ambienti sicuri e stimolanti.
E quando dico tutti intendo tutti”.
Senza
possibilità di scelta
La stessa
mancanza di considerazione del problema razziale aveva portato DeVos a definire
le università e i college storicamente neri (i cosiddetti Hbcu, Historically
Black Colleges and Universities), “pionieri della libertà di scelta
scolastica”, “la prova vivente che quando vengono fornite più opzioni agli
studenti, viene offerta loro anche una maggiore qualità educativa”. Una
dichiarazione che ha suscitato l’indignazione collettiva, tanto che nel 2017,
invitata a tenere il discorso di inizio dell’anno scolastico alla
Bethune-Cookman University (un’università storicamente nera), è stata sommersa
dai fischi degli studenti, che si sono alzati voltandole le spalle.
DeVos aveva
del tutto omesso il fatto che i college storicamente neri affondano le lori
radici nella segregazione razziale. Furono infatti creati dopo la Guerra di
secessione (1861-1865) in risposta al principio “uguali e separati”: ristoranti
per soli bianchi, cinema per soli neri e naturalmente scuole segregate. Non
tanto, quindi, il frutto di una libera scelta, quanto una magra alternativa al
non studiare del tutto. Se voleva ricevere un’istruzione universitaria, un nero
doveva per forza iscriversi in un ateneo per soli neri.
La
dichiarazione di DeVos sui college neri è per altro arrivata esattamente nel
momento in cui Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo per trasferire i
programmi sui college storicamente neri, che sin dal 1980 erano stati stabiliti
dal Dipartimento della pubblica istruzione, alla Casa Bianca, e in particolare
a un funzionario che farà capo a un alto consigliere del Presidente. Nonostante
durante la campagna presidenziale Trump abbia più volte fatto riferimento a un
“New Deal for Black America”, promettendo di non tagliare i fondi federali ai
college storicamente neri a fronte di un calo del 13,5% della spesa complessiva
nell’educazione, oggi molti college storicamente neri sono in gravi difficoltà
finanziarie. Il St. Paul’s College, in Virginia, è stato chiuso nel 2013. La
Fisk University ha dovuto svendere parte della sua pregiata collezione Alfred
Stieglitz per evitare la stessa sorte. I loro presidi e amministratori si sono
abituati a cercare denaro dove possono, indipendentemente da chi è seduto nello
Studio Ovale. Come ha ben sintetizzato Marybeth Gasman, professore
all’Università della Pennsylvania e studiosa dei college storicamente neri,
“parliamo di college che, giocoforza, hanno sempre lavorato con tutte le
Amministrazioni, e questo perché, al di là della retorica sulla libera scelta
che tanto entusiasma DeVos, gli afro-americani non hanno mai avuto e in fondo
continuano oggi a non avere davvero scelta”.
Note
1http://bit.ly/devos-1
2http://bit.ly/charter-2
3http://bit.ly/ucla-3
3http://bit.ly/segregate-4
4http://bit.ly/letter-5
Questo articolo è stato pubblicato sul numero 53 de “Gli asini”: acquista il
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