Uno deve mettersi dalla parte degli
oppressi in qualsiasi circostanza, anche quando stanno sbagliando, senza
perdere di vista, nonostante ciò, che sono fatti del medesimo fango dei loro
oppressori.
Emil Cioran
Emil Cioran
Frantz Fanon
è stato un essere straordinario. Ha vissuto la sua breve vita tra quattro
paesi: nella sua Martinica natale, in Francia e in Algeria-Tunisia, dove si
impegnò nella lotta per l’indipendenza come militante del Fronte di Liberazione
Nazionale (FLN). La coerenza tra la
sua vita e la sua opera è un faro che ci deve guidare in questi momenti di
incertezza, quando affiorano notevoli rischi che mettono in pericolo
l’esistenza stessa dell’umanità de abajo.
Fanon
intervenne in una delle guerre più crudeli della storia moderna. Il FLN ha
stimato che furono assassinati un milione e 500 mila algerini tra l’inizio
della guerra nel 1954 e la proclamazione dell’indipendenza nel 1962, che
rappresenta il quindici per cento di una popolazione che non raggiungeva i 10
milioni. Storici francesi riducono questa cifra a un terzo, che è ancora una
cifra impressionante. Un analogo numero di algerini vennero torturati.
Come responsabile medico dell’ospedale psichiatrico
di Blida (nominato nel 1953), Fanon ebbe un’esperienza fenomenale: ricevette e
assistette sia francesi torturatori che algerini torturati, il che gli permise
di accedere ai meandri più nascosti dell’oppressione e dell’umiliazione
coloniale. Uno degli
aspetti meno conosciuti della sua meravigliosa vita è stato l’aver trasformato
la casa di cura-prigione in “una nuova comunità che introdusse lo sport, la
musica, il lavoro, e dove si stampava un giornale scritto dai malati”.
La sua professione di psichiatra gli permise di
comprendere atteggiamenti degli esseri umani che mai erano stati adeguatamente
spiegati dal pensiero critico. In quegli anni si era consolidata la svolta verso l’economicismo e il
materialismo volgare, che puntava tutto sullo sviluppo delle forze produttive,
una strada nella quale le idee emancipatorie tendevano a mimetizzarsi con i
postulati capitalisti.
L’interiorizzazione dell’oppressione
Noi della
generazione militante delle decadi del 1960 e del 1970, abbiamo conosciuto
Fanon attraverso I dannati della terra, la sua
opera postuma pubblicata nel 1961. È il libro/manifesto di un combattente che
afferma la necessità della violenza per affrontare e superare la
colonizzazione, perché sa che “il
colonialismo non cede se non con il coltello alla gola”.
I dannati … è un testo luminoso, pieno di idee che vanno in
direzione contraria al senso comune rivoluzionario dell’epoca, come la sua
difesa dei contadini e del lumpenproletariat [sottoproletariato]
come soggetti politici, poiché osserva che, nelle colonie, i proletari sono il
settore più “coccolato dal regime coloniale”. Critica
anche la cultura politica delle sinistre, che si dedicano ad attirare le
persone più “avanzate” – “le élite più consapevoli del proletariato delle
città”, constata Fanon – senza comprendere che nel mondo del
colonizzato, il posto centrale, e liberatorio, lo giocano la comunità e la
famiglia, non il partito o il sindacato.
La sua appassionata difesa della violenza
dell’oppresso deve essere passata al setaccio. È sempre necessario ricordare, come enfatizza
Immanuel Wallerstein, che “senza violenza non possiamo ottenere nulla”. Non è
una questione minore, perché il grosso dei partiti e dei movimenti
antisistemici sembrano averlo dimenticato nel loro tentativo di inserirsi nelle
istituzioni statali.
Ma è anche
vero, come riconosce il sociologo statunitense, che la violenza da sola non
risolve niente. Fanon va oltre
quando afferma che “la violenza disintossica”, perché “libera il colonizzato
dal suo complesso di inferiorità”. Su questa linea argomentativa,
ne I dannati della terra, conclude: “La violenza issa il
popolo all’altezza del leader”. Sappiamo
che le cose sono più complesse, come insegna mezzo secolo di lotta armata in
América Latina.
Malgrado
l’importanza che l’ultimo libro di Fanon ebbe nella nostra generazione, ritengo
che il primo, Pelle nera, maschere bianche, del
1952, è quello che ci fornisce migliori indizi sopra un secolo di fallimenti
delle rivoluzioni che hanno trionfato. Fanon fornisce una visione dalla
soggettività dell’oppresso, una cosa che come marxisti non siamo mai riusciti a
sviscerare in modo così cristallino. Ci
dice che il complesso di inferiorità del colonizzato ha due radici: quella
economica e l’interiorizzazione o “epidermizzazione” dell’inferiorità. Il
maschio nero desidera sbiancarsi la pelle e avere una ragazza bionda. La donna
nera si stira i capelli e sogna un maschio bianco. Si devono affrontare entrambi gli aspetti o la
liberazione sarà incompleta.
Fanon mette
il dito nella piaga quando afferma che “il colonizzato è un perseguitato che
sogna in modo permanente di trasformarsi in persecutore” (I dannati della terra). Di conseguenza, il colonizzato non vuole solo recuperare
la tenuta del colonizzatore, ma desidera anche il suo posto, perché quel mondo
gli suscita invidia. Guarda dritto al nucleo duro dei problemi
lasciati dalle rivoluzioni e che non possiamo continuare a eludere, alla luce
di drammi come quelli che attraversa il Nicaragua. Perché i rivoluzionari si
collocano in quel luogo, materiale e simbolico, degli oppressori e dei
capitalisti, e talvolta dei tiranni contro i quali hanno lottato? Ci lascia con
la domanda, offrendo solo degli indizi sulle possibili vie d’uscita da questo
terribile circolo vizioso che riproduce l’oppressione e il colonialismo
interno, in nome della rivoluzione. Fanon
percorre i luoghi impervi della psiche dell’oppresso, con lo stesso rigore e
coraggio con cui mette in discussione i rivoluzionari che, accecati dalla
rabbia, commettono abusi sul corpo dei colonizzatori.
Le
similitudini tra oppressi e oppressori possono fuoriuscire solamente da una
logica diversa da quella del potere, e si possono disarmare solamente se siamo
capaci di riconoscerle. I dirigenti sandinisti iniziarono occupando le
residenze di Somoza e utilizzando le sue auto per ragioni di “sicurezza”, fino
a quando il clan che governa ha finito per comportarsi come il dittatore.
La zona del non-essere
Fanon comprende sulla propria pelle che esiste una
zona delle nostre società dove l’umanità viene sistematicamente violata dalla
violenza dell’oppressore. È un luogo strutturale, che non dipende dalle qualità
delle persone. Ritiene che sia proprio in questa
zona, che chiama “zona del non-essere”,
dove può nascere la rivoluzione per la quale sta dando la sua vita, e avverte
che il mondo coloniale ha dei compartimenti i cui confini sono segnati da
caserme e stazioni di polizia. Questi due mondi hanno vita propria, regole
particolari e si relazionano in modo gerarchico. Sostengo che il periodo
attuale di accumulazione per spoliazione/quarta guerra mondiale, implica
l’attualizzazione delle relazioni coloniali. È probabile che la potente
attualità di Fanon venga di pari passo con la crescente polarizzazione tra
l’uno per cento più ricco e la metà più povera e umiliata dell’umanità,
caratteristiche proprie del periodo coloniale.
In ogni suo
lavoro, Fanon si impegnò a dimostrare che ciò che vale per una zona, non
necessariamente si può trasferire all’altra. Che i modi di fare politica nella
metropoli non possono essere gli stessi della colonia. Che le forme di
organizzazione legali e aperte delle zone dove vigono i diritti umani dei cittadini,
non possono essere copiate da quelli che vivono nei territori rasi al suolo
come le favelas, i palenques, le
comunità dei popoli originari e le baraccopoli delle periferie urbane.
Per Fanon, i
popoli oppressi non devono inseguire i partiti europei di sinistra, questione
che nel medesimo periodo veniva denunciata dal suo maestro Aimé Césaire
nella Lettre à Maurice Thorez, dove enunciava il
“paternalismo colonialista” del Partito Comunista Francese, che considerava la
lotta dei popoli contro il razzismo come “una parte di un insieme più
importante”, il cui “tutto” è la lotta operaia contro il capitalismo.
*
In América Latina esistono diversi movimenti che mostrano come gli oppressi e le oppresse stanno risolvendo a modo loro i due problemi che ho affrontato. I testi “Economia Politica I e II” del subcomandante insurgente Moisés dell’Ezln, le memorie del dirigente nasa-misak del Cauca colombiano, Lorenzo Muelas, così come le riflessioni e le analisi delle autorità mapuche, tra le molte altre che non posso citare, sono buoni esempi di pensiero critico nella zona del non-essere.
Nello stesso senso, le voci delle donne de abajo popolano il grosso volume redatto da Francesca Gargallo, Feminismos desde Abya Yala. Ideas y proposiciones de las mujeres de 607 pueblos en nuestra América. A questa molteplicità di voci bisognerebbe aggiungere altre forme non occidentali di esprimere cosmovisioni, dalla tessitura e la danza fino alla cura degli animali, delle piante e della salute.
*
In América Latina esistono diversi movimenti che mostrano come gli oppressi e le oppresse stanno risolvendo a modo loro i due problemi che ho affrontato. I testi “Economia Politica I e II” del subcomandante insurgente Moisés dell’Ezln, le memorie del dirigente nasa-misak del Cauca colombiano, Lorenzo Muelas, così come le riflessioni e le analisi delle autorità mapuche, tra le molte altre che non posso citare, sono buoni esempi di pensiero critico nella zona del non-essere.
Nello stesso senso, le voci delle donne de abajo popolano il grosso volume redatto da Francesca Gargallo, Feminismos desde Abya Yala. Ideas y proposiciones de las mujeres de 607 pueblos en nuestra América. A questa molteplicità di voci bisognerebbe aggiungere altre forme non occidentali di esprimere cosmovisioni, dalla tessitura e la danza fino alla cura degli animali, delle piante e della salute.
In secondo
luogo, quegli esempi scoprono che per
spogliarsi dall’immagine dell’oppressore non basta recuperare i mezzi di
produzione. È un passaggio necessario sul quale si deve creare
qualcosa di nuovo, ma soprattutto diverso dal mondo vecchio, un tessuto di
relazioni non gerarchiche né oppressive. La
storia delle rivoluzioni ci insegna che questo è l’aspetto più complesso e la
pietra sulla quale siamo inciampati più e più volte. Fanon ha
avvertito dei rischi che l’azione finisca per riprodurre la logica coloniale,
in un luminoso e premonitore riferimento a Nietzsche: alla fine di Pelle nera, maschere bianche avverte che c’è
sempre risentimento nella reazione. Solamente
la creazione del nuovo ci permette di superare le oppressioni, poiché l’inerzia
reattiva tende a invertirle.
Mezzo secolo
dopo, possiamo rallegrarci che molti movimenti sono impegnati, qui e adesso,
nel vivere con dignità nella zona del non-essere, evitando le gerarchie
stato-centriche e patriarcali. Immaginiamo che in queste creazioni batta il
cuore generoso di Fanon, traboccante di impegno e creatività.
Pubblicato
su La
Jornada Semanal e su Rebelión con il titolo Frantz Fanon: de la descolonización al pensamiento crítico
Traduzione
per Comune-info: Daniela Cavallo
da qui
Nessun commento:
Posta un commento