Ahed Tamimi,
la diciassettenne militante palestinese del villaggio di Nabi Saleh in
Cisgiordania, è un’icona di una giovane generazione ribelle di palestinesi che
ha dimostrato di non tollerare le continue violazioni israeliane dei loro
diritti e della loro libertà. Dopo
aver passato otto mesi in prigione per aver affrontato i soldati dell’occupazione
israeliana nel cortile di casa sua, Ahed è uscita ancor più forte e più
determinata a trasmettere al mondo le sofferenze e le lotte del suo popolo.
“Il potere è
del popolo ed il popolo saprà decidere il proprio destino e il proprio futuro e
lo può fare”, ha detto, rivolgendosi alla folla di sostenitori e giornalisti
dopo il suo rilascio.
La storia di Ahed ha ricevuto una sproporzionata
attenzione da parte delle agenzie di comunicazione internazionali, che invece hanno spesso ignorato il
coraggio e la sofferenza di tante ragazze e donne palestinesi che da molti anni
vivono sotto l’occupazione e l’assedio militare di Israele.
Cosciente di
questo, la madre di Ahed, Nariman, ha detto:
“Sinceramente, è stato probabilmente l’aspetto di Ahed che ha provocato questa
solidarietà internazionale, e questo è un fatto razzista, perché molti minori
palestinesi sono nella situazione di Ahed, ma non sono stati trattati allo
stesso modo.”
C’è molto di
vero in questa affermazione. Quando le donne palestinesi non sono invisibili
nell’informazione dei media occidentali, vengono dipinte come sventurate
vittime di circostanze al di là del loro controllo – l’occupazione militare
della loro terra e l’“arretratezza” della loro stessa società patriarcale.
Difficilmente vengono viste come promotrici di cambiamento; al massimo, sono
presentate come intrappolate in un “conflitto” in cui non giocano alcun ruolo
attivo.
L’invisibilità delle donne arabe e musulmane nei media occidentali ha radici in una lunga storia di colonialismo, pieno di
errate convinzioni e rappresentazioni razziste. Nel caso palestinese, queste
errate rappresentazioni pregiudicano l’urgenza politica ed umanitaria della
drammatica condizione delle donne palestinesi e del popolo palestinese nel suo
complesso.
In realtà le
donne palestinesi sono difficilmente mere spettatrici nella persecuzione e
nella resistenza dei palestinesi e, a prescindere dal loro orientamento
politico, dalla loro religione o residenza, meritano di essere rese visibili e
comprese nel più ampio contesto dell’occupazione israeliana della Palestina.
Ciò che segue sono le brevi storie di quattro forti
donne di Gaza che, nonostante la loro lotta ed il loro coraggio, rimangono
invisibili nei media. Allevano bambini, insegnano musica, partecipano alle proteste
alla barriera tra Gaza e Israele, subiscono la perdita dei loro cari e ferite e
resistono di fronte ad una dura vita sotto l’assedio.
‘Tornerò ad unirmi alla Grande Marcia del
Ritorno’ – Lamia Ahmed Hussein, 37 anni, Khan Younis
Quando il
marito di Lamia, Ghazi Abu Mustafa, il 27 luglio è stato ucciso da un cecchino
israeliano alla barriera di separazione tra Gaza e Israele, lei stava lavorando
sul campo come volontaria paramedica.
Lamia è la maggiore di nove sorelle e fratelli. La
sua famiglia, che ora risiede nella città di Khan Younis, nel sud della
Striscia di Gaza, è originaria della cittadina di B’ir Al-Saba’a nella
Palestina storica e, come milioni di palestinesi a Gaza e altrove, è ora in
esilio permanente.
La fede di
Lamia nel suo diritto a tornare nella casa della sua famiglia in Palestina è
ciò che l’ ha motivata ad unirsi alla ‘Grande Marcia del Ritorno’ il 30 marzo,
in cui ricorreva anche “il Giorno della Terra”.
La sua
decisione è stata appoggiata con forza da suo marito Ghazi, di 43 anni, che si
è unito alla Marcia proprio il primo giorno. Lamia
si è offerta come volontaria paramedica, aiutando centinaia di feriti
palestinesi ogni venerdì. Conosceva molto bene quanto importante potesse essere
il suo ruolo per quei coraggiosi dimostranti e per le loro famiglie. In
passato, suo marito è stato ferito diverse volte negli scontri coi soldati
israeliani.
Il suo primo
ferimento, che gli tolse la vista all’occhio sinistro, avvenne durante la
mobilitazione ampiamente non-violenta contro l’occupazione israeliana
(1987-1993), nota come la prima Intifada. Nella Marcia del Ritorno è stato
colpito più volte e, con Lamia al suo fianco, è ritornato alla barriera
zoppicando, per essere accanto al suo popolo.
Lamia e Ghazi hanno affrontato insieme le loro sfide,
hanno cresciuto una famiglia nella impoverita Gaza ed hanno protestato uno
accanto all’altra quando la marcia di Gaza ha coinvolto l’intera comunità, sia uomini che donne, come non era
mai avvenuto prima.
A luglio Ghazi è stato colpito a morte. È morto
mentre Lamia stava salvando la vita di un altro dimostrante gravemente ferito,
Nahid Qadeh.
Lamia era distrutta, ma non spezzata. Una vita di difficoltà e
sofferenze le ha insegnato la forza e la resilienza. “Una
barca impegnata ad aiutare gli altri non affonderà mai”, le ha detto
Ghazi un giorno mentre si univano ad una grande folla di manifestanti alla
barriera.
Madre di sei figli, rimasta vedova, ha tutte le
intenzioni di riprendere il suo lavoro alla barriera.
“Niente farà
vacillare la mia fede nel mio diritto al ritorno”, dice, una lezione che
insegna continuamente ai suoi figli.
Benché il
futuro di Gaza rimanga fosco, la determinazione di Lamia ad ottenere giustizia
– per la sua famiglia, per il suo popolo e per sé stessa – rimane
indistruttibile.
‘Non smetterò di cantare’ – Reem Anbar,
28 anni, Gaza City
Reem ha trovato la sua vocazione durante la guerra
di Israele contro Gaza nell’estate del 2014. Avrebbe portato il suo ‘oud’ [il liuto arabo,
ndtr.] ogni giorno dalla sua casa al Centro culturale Sa’id Al-Mashal, dove
avrebbe trascorso ore a suonare per gli impauriti bambini e le loro famiglie,
che vi avevano trovato rifugio dagli incessanti bombardamenti.
Per anni Reem ha tentato di lasciare Gaza in cerca
di un posto dove sviluppare la sua passione per la musica presso un autorevole
istituto artistico. Ma la sua richiesta di uscire è stata ripetutamente
respinta da Israele. Ci sono
migliaia di studenti come Reem che non hanno potuto usufruire di opportunità
educative al di fuori di Gaza per la stessa ragione.
Reem suona
l’‘oud’ da quando era piccola. Era il suo compagno, soprattutto nelle lunghe
notti dei bombardamenti israeliani. Ogni volta che le bombe cominciavano a
cadere, Reem prendeva il suo strumento ed entrava in un magico mondo in cui le
note ed i ritmi avrebbero sconfitto il caos assoluto fuori dalla sua finestra.
Quando Israele ha scatenato l’attacco del 2014
contro Gaza, Reem ha invitato altre persone nel suo mondo musicale. Ha suonato
per i bambini traumatizzati nel centro culturale, che cantavano mentre le bombe
israeliane cadevano sulle loro case. Quando la guerra è finita Reem ha continuato il
suo lavoro, aiutando i bambini feriti e resi disabili durante la guerra, nel
centro stesso ed altrove. Insieme ad altri giovani artisti ha composto pezzi
musicali per loro e ha allestito spettacoli per aiutare questi bambini a
superare il trauma e favorire la loro integrazione nella società.
Alla fine
del 2017 Reem è finalmente riuscita a lasciare Gaza per intraprendere
l’istruzione superiore in Europa. Il 9
agosto 2018 ha appreso col cuore a pezzi che Israele aveva bombardato il Centro
Culturale Sa’id Al-Mashal, che è andato completamente distrutto.
Reem intende tornare a Gaza quando avrà completato
il suo percorso educativo. Vuole ottenere una laurea magistrale in terapia della musica, per
poter contribuire a risanare una generazione di bambini segnata dalla guerra e
dall’assedio.
“Vogliono farci smettere di cantare”,
dice. “Ma accadrà il contrario. La Palestina sarà sempre un luogo di
arte, storia e ‘sumud’ – tenacia. Lo giuro, terremo
i nostri concerti nelle strade, se necessario.”
Sconfiggerò
il cancro’ – Shaima Tayseer Ibrahim al-Shamali, 19 anni, Rafah
Shaima può a stento parlare. Il suo tumore al
cervello ha colpito la sua mobilità e la sua capacità di esprimersi. Eppure è
decisa a conseguire la laurea in Educazione di base all’università aperta
Al-Quds di Rafah, nel sud della Striscia di Gaza.
La
sofferenza che affronta questa diciannovenne è straordinaria, anche per gli
standard della povera e isolata Gaza. È la maggiore di cinque figli in una
famiglia che è caduta in povertà in seguito all’assedio israeliano. Suo padre è
pensionato e la famiglia ha dovuto lottare, ma ciononostante Shaima è
determinata a poter studiare.
Doveva sposarsi dopo la laurea all’università. La speranza ha ancora modo di
insediarsi nei cuori dei palestinesi di Gaza e Shaima sperava in un futuro
migliore per sé e per la sua famiglia.
Ma il 12 marzo è cambiato tutto.
Quel giorno a Shaima è stato diagnosticato un tumore
aggressivo al cervello. Appena prima della sua prima operazione all’ospedale
Al-Makassed di Gerusalemme il 4 aprile, il suo ragazzo ha rotto il
fidanzamento.
L’operazione ha lasciato a Shaima una paralisi
parziale. Parla
e si muove con grande difficoltà. Ma vi erano notizie peggiori; ulteriori
analisi in un ospedale di Gaza hanno rilevato che il tumore non era stato del
tutto rimosso e doveva essere asportato velocemente, prima che si espandesse di
più.
A peggiorare la situazione, il 12 agosto il
ministero della Sanità di Gaza ha annunciato che non sarebbe più stato in grado
di curare i malati di cancro nell’enclave assediata da Israele.
Shaima sta ora lottando per la sua vita mentre
aspetta il permesso israeliano di passare il checkpoint di Beit Hanoun (chiamato
da Israele valico di Erez) verso la Cisgiordania, attraverso Israele, per
un’operazione urgente.
Molti
abitanti di Gaza sono morti in quel modo, nell’attesa di un pezzo di carta, un
permesso, che non è mai arrivato. Shaima comunque continua a sperare, mentre
tutta la sua famiglia prega costantemente che la loro figlia maggiore vinca la
sua battaglia contro il cancro e riprenda i suoi studi universitari.
‘Difenderò la mia famiglia e il mio
popolo’ – Dwlat Fawzi Younis, 33 anni, Beit Hanoun
Dwlat si occupa di una famiglia di 11 persone,
compresi i suoi nipoti e suo padre gravemente malato. Ha dovuto diventare
capofamiglia quando suo padre, a 55 anni, è stato colpito da insufficienza
renale ed è stato impossibilitato a lavorare.
Deve provvedere a tutta la famiglia con il denaro
che guadagna come parrucchiera. I suoi fratelli e sorelle sono tutti disoccupati. Aiuta anche loro, tutte
le volte che può.
Dwlat è una combattente; è sempre stata così. Forse
è stata la sua esperienza del 3 novembre del 2006 a rafforzare la sua
determinazione. Un soldato israeliano le ha sparato mentre stava manifestando
con un gruppo di donne contro l’attacco israeliano e la distruzione della
storica moschea Umm Al-Nasr a Beit Hanoun. Quel giorno sono state uccise due
donne. Dwlat è stata colpita da una pallottola al bacino, ma è sopravvissuta.
Dopo mesi di
cure è guarita ed ha ripreso la sua lotta quotidiana. Inoltre non ha mai perso
occasione per alzare la voce in solidarietà con il suo popolo durante le
proteste.
Il 14 maggio 2018, quando gli Stati Uniti hanno
ufficialmente trasferito la loro ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, 60 dimostranti palestinesi sono
stati uccisi e circa 3000 feriti presso la barriera tra Israele e Gaza. Dwlat è stata colpita alla coscia
destra, il proiettile ha trapassato l’osso ed ha tagliato un’arteria.
Da allora la sua salute è peggiorata velocemente ed
ora non è in grado di lavorare. Ma Israele non ha ancora approvato la sua
richiesta di essere trasferita all’ospedale Al-Makassed di Gerusalemme per
esservi curata.
Eppure Dwlat
sostiene che continuerà ad essere un membro attivo ed efficiente della comunità
di Gaza – per amore della sua famiglia e del suo popolo, anche se questo
significa andare alle proteste alla barriera di Gaza con le stampelle.
In realtà, Ahed, Lamia, Reem, Shaima e Dwlat
incarnano lo straordinario spirito e coraggio di ogni donna palestinese che
vive sotto l’occupazione e l’assedio di Israele in Cisgiordania e a Gaza. Resistono e persistono, nonostante
l’enorme prezzo che pagano, e continuano la lotta delle generazioni di
coraggiose donne palestinesi che le hanno precedute.
*
Giornalista, scrittore e fondatore di PalestineChronicle
(Fonte Zeitun, traduzione
di Cristiana Cavagna, l’articolo è uscito su Al Jazeera)
Nessun commento:
Posta un commento