Un recente documento pubblicato dal MIUR, intitolato Sviluppo
professionale e qualità della formazione in servizio, rappresenta
probabilmente la chiusura di un cerchio, come in modo suggestivo sembra
indicare un grafico, contenuto in un articolo che intende sostenere il
carattere progressista di questo testo. L’idea è quella di costruire
un’implacabile organizzazione gerarchica, il cui compito è trasmettere alcuni
principi non negoziabili, ricavati ed elaborati da fantomatici «scienziati
dell’educazione». Ciò che colpisce del documento in oggetto è in primo luogo il
linguaggio: una strategia argomentativa con cui si vuole giustificare un quadro
organizzativo sostanzialmente distopico e panoptico, affermando all’opposto che
sarebbe la più naturale espressione di una valorizzazione della libertà
individuale del docente. Lo scopo ultimo è obbligare i docenti ad adottare
quella discussa metodologia che è la «didattica per competenze», per cui ogni
sapere non possiede valore se non nella misura è in grado di trasformarsi in
«pratiche sociali», la cui aleatorietà è oggetto ormai di discussione da più di
due decenni. Il docente è invitato a una continua autocritica rispetto alla
propria inadeguatezza a fare proprie le metodologie proposte: «analizzare e
riflettere sui presupposti e sugli assunti sottesi al proprio agire» in
presenza di una figura esterna, il facilitatore. Non si parla più di docente ma
di «operatore»; non gli si riconosce più alcuna autonomia ma, laddove ci sia
una contrapposizione tra la propria visione della didattica e quella del
facilitatore, il docente deve mettere in discussione se stesso e collaborare.
Per concretizzare tale obiettivo, diventa necessario obbligare i docenti a
seguire tali corsi di formazione, al fine di «destrutturare le loro sinapsi
cerebrali»; è difficile trovare esempi di retorica simili se non in contesti in
cui il processo democratico è a rischio.
Un recente documento pubblicato dal MIUR, l’ultimo di una serie succedutisi
con estrema celerità negli ultimi mesi, intitolato Sviluppo
professionale e qualità della formazione in servizio[1], rappresenta probabilmente la chiusura di
un cerchio, come in modo suggestivo sembra indicare un grafico, contenuto in un
articolo[2]
che intende sostenere il carattere progressista di questo testo. Chiusura del
cerchio perché, qualora si realizzasse, renderebbe definitivo quel processo
di learnification che, anche sul portale di ROARS, abbiamo
individuato quale esigenza più avvertita da parte delle autorità ministeriali
in questa fase della politica di riforma della scuola[3].
L’idea è quella di costruire un’implacabile organizzazione gerarchica, il cui
compito è trasmettere alcuni principi non negoziabili, ricavati ed elaborati da
fantomatici «scienziati dell’educazione»[4],
relativi alla pratica didattica: dal MIUR agli USR, per giungere agli “ambiti
territoriali” e alle “scuole polo”, e infine ai singoli istituti. In ultimo, ed
è questo l’obiettivo del documento in oggetto, creare una sorta di aristocrazia
docente, selezionata sulla base delle propria disponibilità ad assumere e a
imporre all’interno del proprio istituto (in particolare agli altri docenti che
copriranno una posizione giuridica e stipendiale meno valorizzata) tali
principi, ponendo di fatto fine alla possibilità di esercitare la libertà
d’insegnamento.
Ciò che
colpisce del documento in oggetto è in primo luogo il linguaggio; in questo
caso non faremo riferimento all’uso, abnorme e privo di qualsiasi solidità
teorica, di anglicismi, di espressioni pseudo-scientifiche e volutamente anti
intellettuali, che avrebbero l’intenzione di dimostrare la fondatezza di un
ragionamento legato a solide basi empiriche, che si contrapporrebbe a
un’ermeneutica cialtrona propria di un sapere umanistico incapace di
riconoscere la propria minorità rispetto ai temi dell’educazione e della
trasmissione di sapere. Atteggiamento che, come abbiamo più volte ribadito,
evita agli esperti del MIUR di confrontarsi con qualsiasi argomentazione
potenzialmente falsificante. Ciò che qui ci preme notare , invece, è
l’impostazione retorica, già presente negli altri documenti ma in questo caso
particolarmente esplicita, che risulta assolutamente inquietante. Si tratta di
una strategia argomentativa con cui si vuole giustificare un quadro
organizzativo sostanzialmente distopico e panoptico, affermando all’opposto che
sarebbe la più naturale espressione di una valorizzazione della libertà
individuale del docente, finalmente svincolata da un modo di intendere la
propria funzione secondo gli opposti ed errati criteri dello spontaneismo e
della burocratizzazione. Ciò che sorprende è proprio questa volontà di
mascherare la sgradevole caratteristica di un assunto presentandolo con
un significato opposto a quello reale; una strategia argomentativa non consona
a un confronto di tipo democratico, dove si nasconde l’uniformità del proprio
pensiero, ostile di fatto all’esercizio del pluralismo intellettuale,
presentandolo invece come valorizzazione del sé nel contesto comunitario,
ovviamente però eterodiretto. Siamo consapevoli che tali affermazioni
potrebbero sembrare eccessive, o troppo radicali; vedremo di corroborarle con
opportuni riferimenti.
Il
documento in oggetto rappresenta l’esito di una strategia perseguita dal MIUR
in modo molto accurato, che, diciamo così, ha proceduto dal generale al
particolare: in un primo tempo i documenti ministeriali si erano limitati a
porre le basi, in un’ottica omnicomprensiva, per i nuovi fondamenti, teorici e
pratici, sui quali ripensare la scuola pubblica. In particolare l’innovazione
digitale, un’esposizione quanto mai confusa e contraddittoria delle diverse
liste di competenze, un ripensamento per una nuova formazione dei docenti, che
prescindesse dallo specifico disciplinare. Da un po’ di tempo, però, la
politica degli “esperti” del MIUR ha preso strade più concrete, destinate,
qualora si realizzassero, a stringere il potere dei controllo sui docenti: da
una parte riducendo il campo d’azione delle singole discipline; ne sono la
prova i Sillabi a loro dedicati. E rimandiamo all’analisi già
proposta su questo portale del Sillabo di filosofia[5].
In ultimo, ed è il caso del testo in oggetto, riconfigurando radicalmente
l’organizzazione della scuola, per impedire qualsiasi margine individualistico
per aggirare le nuove imposizioni.
L’istruzione finalizzata
alla pratica (eterodiretta)
Conviene
forse partire dalla parte conclusiva del documento[6],
per stabilirne la decisa continuità con i precedenti e l’identità dei fini. Lo
scopo ultimo è obbligare i docenti ad adottare quella discussa metodologia che
è la «didattica per competenze», per cui ogni sapere non possiede valore se non
nella misura è in grado di trasformarsi in «pratiche sociali», la cui
aleatorietà è oggetto ormai di discussione da più di due decenni[7].
Nessun dubbio che le competenze rappresentino, per gli estensori del testo,
un riferimento scientifico ineludibile, secondo un collaudato schema
ideologico volto a naturalizzare quelle che rimangono semplici ipotesi
interpretative, spacciando per oggettivo un principio d’azione che possiede
un fine esclusivamente politico, ovvero quello di riconfigurare le
gerarchie dei poteri e mettere in discussione qualità professionali e diritti
acquisiti dei lavoratori che vi operano. Nel documento in esame, non ci si
sofferma particolarmente sui contenuti metodologici, ma si sottolinea
comunque la necessità di frammentare i contenuti d’istruzione, privarli della
loro coerente continuità, per farne unicamente strumenti di eventuali conquiste
cognitive. Il principio generale su cui dovrà vertere qualsiasi processo
d’insegnamento è quello di «unità formativa», della durata di circa 20 o 30 ore[8],
ovvero «un modulo formativo in senso compiuto, con obiettivi realistici e bene
individuati, con una sua coerenza interna, caratterizzato da metodologie
operative, interattive, collaborative»[9].
Ovviamente, il docente dovrà prestare particolare cura agli aspetti
organizzativi, garantendo «sperimentazione didattica documentata» e «ricaduta
su pratiche di classe – Ricerca azione e/o ricerca formazione», a cui
ovviamente seguono «forme di restituzione e di rendicontazione»[10].
Una didattica all’insegna della frammentazione, come si spiega più avanti:
«Ogni UF deve contenere un insieme di azioni individuate, per le quali si dovrà
tenere conto di adeguati indicatori di qualità che ne possano consentire la
valutazione. Per consentire la validazione delle azioni, è necessario che gli
indicatori indichino evidenze rilevabili»[11].
La finalità esclusivamente pratica dell’istruzione viene esplicitamente
affermata: si tratta infatti di «ricerca-azione […] condotta in prima persona
nel proprio contesto a partire da problemi pratici, il cui scopo è produrre un
cambiamento»[12].
Una
pratica formativa coercitiva
Lo scopo
della presente analisi non è però quello di ritornare su principi che abbiamo
più volte sottoposto ad analisi e la
cui debolezza teorica, ad onta della presunzione con cui vengono presentati in
documenti siffatti, appare con tutta evidenza; quanto descrivere il
meccanismo coercitivo con cui si intende obbligare la totalità dei docenti ad
adottare queste pratiche. Volontà che scaturisce dalla consapevolezza di quanto
essi siano invece, nella maggioranza, ostili a tale progetto, in cui riconoscono
un’umiliazione sia dello loro professionalità sia dei contenuti culturali
legati alle discipline in sé. Già nelle pagine sopra richiamate quest’idea
torna in modo ricorrente: il docente è invitato a una continua autocritica
rispetto alla propria inadeguatezza a fare proprie le metodologie proposte:
«analizzare e riflettere sui presupposti e sugli assunti sottesi al proprio
agire; interrogarsi sulla validità ed efficacia dei contenuti e delle procedure
d’azione; ideare e pianificare procedure alternative e realizzarle; monitorare
e valutare i risultati dei nuovi contenuti e azioni»[13];
ma tale autoanalisi «avviene in presenza di una figura esterna, il facilitatore»[14].
Come si vede, ritorna il principio dell’insegnante inadeguato rispetto alle
nuove metodologie didattiche, che deve quindi essere aiutato/facilitato a
conseguirle, e il cui dovere professionale consiste proprio nell’assecondare
queste pressioni provenienti dall’esterno. Non a caso, ritorna il tema, tante
volte da noi sottolineato, dell’«accompagnamento»: non sarebbe infatti
possibile per il docente monitorare se stesso, se non attraverso il
facilitatore, che ha il compito di coinvolgere i docenti e di accompagnarli
«attraverso l’esplicitazione e la ricognizione sì da permettere una saldatura
tra conoscenza ed esperienza»[15].
Che il docente diventi un mero esecutore di quanto prescrittogli dal
facilitatore, è candidamente affermato più avanti: egli «si interroga sul ruolo
del ricercatore esterno, che si impegna sia nella ricerca di nuove forme di
collaborazione, per poter dare risposte ai quesiti di natura pratica degli
operatori, sia nella ricerca di modalità di lavoro che siano emancipatorie per
gli operatori coinvolti nella riflessione sulle pratiche»[16].
Come si nota, non si parla più di docente ma di «operatore»; non gli si
riconosce più alcuna autonomia ma, laddove ci sia una contrapposizione tra la
propria visione della didattica e quella del facilitatore, il
docente deve mettere in discussione se stesso e collaborare.
Ma come potrebbe configurarsi a livello giuridico una situazione siffatta,
in così palese contrasto con il dettato costituzionale? Ovviamente, non
permettendo più corsi di formazione autonoma da parte degli stessi docenti, ma
costituendo un «organico standardizzato di formatori», i quali sono selezionati
in quanto possiedono «competenze nell’uso delle diverse e più innovative
metodologie sia nelle esperienze di formazione in presenza che a distanza»[17].
Insomma, di fronte a un dibattito scientifico che sempre più
vede nelle pratiche di “didattica innovativa” una
regressione per la scuola italiana, il documento in esame considera invece il
docente più esperto quello che in modo incondizionato accetta le nuove teorie
imposte dalle autorità politiche, senza porsi interrogativi e confrontarsi con
le ipotesi contrarie che hanno altrettanto, se non superiore, legittimità nel
dibattito scientifico-culturale. Tale organizzazione della formazione
troverà il suo punto di riferimento nella “scuola polo” e, dunque, sarà
destinato a dominare i criteri di formazione obbligatoria su un intero
territorio, senza possibilità di alternativa. L’importante è che ci sia una
«cabina di regia complessiva»[18],
e che non sia data autonomia alle singole scuole e, per carità, ai singoli
insegnanti, qualora volessero, costruirsi corsi di formazione a misura delle
vere esigenze della propria professionalità e delle proprie discipline[19].
Il documento auspica la realizzazione di un «albo di fornitori regionali»[20],
dal quale potranno attingere i diversi Istituti, in virtù dei loro bisogni; o
meglio, per trasformare il lavoro dei rispettivi docenti secondo le pratiche
iconoclastiche (nei confronti della cultura) incentrate sulle competenze.
La
costruzione di un accurato scudo ideologico
Per concretizzare tale obiettivo, diventa necessario obbligare i docenti a
seguire tali corsi di formazione, al fine di «destrutturare le loro sinapsi
cerebrali»[21].
Non vorrei insistere sulla logica che vorrebbe animare, e in parte già
caratterizza[22],
questi corsi di formazione permanente; i dati sinora forniti mi sembra siano
sufficienti. Vorrei invece –come anticipato all’inizio- mettere in evidenza la
retorica per cui questo progetto totalmente ideologico, concepito secondo una
logica culturalmente autoritaria, negatrice del pluralismo delle idee e della
stessa visione di un dibattito scientifico portato avanti da ricercatori con
pari dignità, venga spacciato per il suo opposto. Offendendo le capacità
intellettuali di chi legge e, soprattutto, generando inquietudine; perché è
difficile trovare esempi di retorica simili se non in contesti in cui il
processo democratico è a rischio.
Tale formazione, come abbiamo visto, si caratterizza per essere mono
tematica e mono metodologica; impostata per obbligare i docenti ad abbracciare
un’idea di istruzione che non è affatto condivisa dalla maggioranza dei
lavoratori della scuola. La logica sta nel sottomettere la pratica individuale
della propria professionalità a una volontà collettiva, che però non viene
elaborata dal basso, ma viene concepita da un ristretto contesto decisionale,
che fa capo al MIUR e ai suoi tecnici e collaboratori, sino ad arrivare ai diversi
Dirigenti scolastici e ai diversi Istituti. L’essere costretti ad applicare in
qualità di “operatori” (tali diventeranno i docenti, come abbiamo visto)
procedure didattiche elaborate all’esterno viene presentato in questo modo: «La
dimensione individuale dovrà dialogare necessariamente con la dimensione
collaborativa […] i docenti italiani usufruiscono di pochi momenti di
autoanalisi, confronto, verifica esterna sul proprio modo di insegnare e sulla
sua efficacia»[23].
Naturalmente, tale processo che favorirebbe l’«autovalutazione», dovrebbe
essere «accompagnato da una valutazione/validazione esterna»[24].
Non quindi una valutazione collegiale, dove si discute alla pari tra
professionisti sulle rispettive esperienze e sulle diverse proposte
metodologiche, in vista di una collaborazione reale che dovrebbe consistere
nella capacità collaborativa dei diversi saperi disciplinari di favorire la
maturazione intellettuale dell’alunno, bensì un contesto di gruppo diretto da
un esterno che, in virtù di una sua presunta superiore competenza, dovrebbe
indicare ai docenti come necessariamente modificare il loro modo di lavorare.
Il bello è che tale contesto viene presentato, con una sfacciataggine
priva di ogni credibilità, alla « collegialità ritualistica, burocratica e
standardizzata; significa investire sulle relazioni e sulle collaborazioni
disinteressate; chiamare in causa lo scopo morale ed etico della professione;
usare la rete e il digitale per favorire le relazioni ed imparare ad essere più
generosi. C’è arricchimento collettivo quando si mettono le conoscenze dei
singoli a disposizione di tutti»[25].
Ovviamente, sappiamo già che la generosità è quella del facilitatore,
il quale mette a disposizione il suo bagaglio scientifico, presumibilmente per
salvare la carriera di quei soggetti, i docenti “tradizionali”, che
evidentemente non meriterebbero più di insegnare nell’attuale scuola, e che
devono di conseguenza fare totale atto di sottomissione alle nuove pratiche[26].
Sottomissione definita invece nel testo quale «natura collaborativa del
docente», che lo porta finalmente a emanciparsi dal ruolo non più adeguato di
«solista della didattica»[27].
In realtà, basta leggere le parti successive del testo, per notare come
l’esigenza prima che vi è espressa non sia quella della collaborazione creativa
tra pari, finalmente sburocratizzata, bensì quella di esercitare un controllo
pressante e totale sul modo di lavorare dei docenti, obbligandoli a seguire
procedure condivise e collegate che, in quanto tali, non ammettono alcuna
deroga e possono essere sia evidenziate sia sanzionate. Il docente è infatti
tenuto, a «conclusione di questa autovalutazione accompagnata»[28] (sic),
a presentare un dossierprofessionale delle proprie competenze,
indispensabile – come vedremo – per la progressività della propria carriera e
del proprio stipendio. Ovviamente, la prosa scelta è di tutt’altro tenore, e
suona involontariamente ironica: «un approccio non amministrativo, ma orientato
alla valorizzazione qualitativa della biografia professionale di ciascun
docente»[29].
Subito dopo, però, il sorriso è destinato a scomparire: «Tali strumenti
permettono una documentazione dinamica della propria crescita, aiutano i
docenti ad acquisire consapevolezza dei momenti significativi delle azioni
didattiche, favoriscono la costruzione di incontri, eventi, permettono di
documentare adeguatamente le ricerche e i risultati innovativi, facilitano il
riutilizzo delle “buone pratiche”; aiutano a creare migliori rapporti con i saperi
degli studenti»[30].
Si afferma dunque che sono gli insegnanti a dover avere migliori rapporti «con
i saperi degli studenti»; non sono questi ultimi a dover approfittare di una
superiore posizione culturale, destinata ad arricchirli, bensì i docenti che
devono adeguarsi alle limitate forme di espressione linguistica, alle
esperienze di vissuto personale degli studenti[31].
In realtà, ciò che qui si descrive è proprio la destrutturazione delle sinapsi
cerebrali, l’umiliazione definitiva dei docenti, l’affermazione della loro
inutilità sociale, perché non in linea con le logiche tecnocratiche e anti
culturali, che dominano i tempi presenti e che si vogliono imporre anche alla
scuola. Le qualità dei docenti vengono giudicate potenzialmente anti adattive
proprio perché inserite in una dinamica storica che guarda alle trasformazioni
progressive e non alla mortifera celebrazione dell’esistente.
Nel prossimo contributo illustreremo i due principali strumenti concepiti
per realizzare gli obiettivi che abbiamo illustrato.
[1] Consultabile al seguente link: http://www.miur.gov.it/-/sviluppo-professionale-e-qualita-della-formazione-in-servizio-documenti-di-lavoro dal
quale è possibile scaricare i diversi documenti allegati.
[2] Fulvio Oscar Benussi, Trasformare la
scuola in un’organizzazione che apprende: la sfida della formazione,
in https://www.agendadigitale.eu/scuola-digitale/dal-pnsd-alle-novita-organizzative-per-trasformare-la-scuola-in-una-knowledge-school44616/.
[3] In diversi contributi ospitati dal presente
portale, si è insistito sull’esigenza di controllo pressante da parte
delle autorità ministeriali sul concreto lavoro dei docenti. Cfr. in proposito
i seguenti link: https://www.roars.it/online/un-lucido-attacco-alla-liberta-dinsegnamento-sul-piano-di-formazione-obbligatoria-dei-docenti-italiani/ , https://www.roars.it/online/gli-insegnanti-lultimo-ostacolo-alla-rivoluzione-digitale-della-scuola/ .
[4] Cfr. Sviluppo professionale e qualità
della formazione in servizio, cit., pag.22, dove si parla di «evidenze
della ricerca scientifica e didattica».
[5] https://www.roars.it/online/il-docente-di-filosofia-un-intellettuale-organico-della-buona-scuola/
[6] Il documento in oggetto, dopo una breve Introduzione
generale, si suddivide in tre parti, ciascuna delle quali elaborata da un
diverso gruppo di esperti, in evidente collegamento fra loro. La prima parte ha
lo scopo di definire gli standard professionali, la seconda la
costruzione del Dossier professionale del docente, la terza, in cui
si affronta il tema della valutazione della formazione, è intitolata Indicatori
di qualità e governance.
[7] All’inizio del presente anno è uscito un volume
a cura della Fondazione Agnelli Le competenze, Il Mulino, Bologna
2018. Il testo, probabilmente concepito in risposta alle numerose prese di
posizione critica nei confronti dei presupposti della nuova politica
scolastica, ha voluto fare il punto del dibattito e ribadire la validità
del concetto di competenza, su cui si fonda l’intera didattica innovativa.
Risulta interessante che nello studio si riconosca come, negli anni, si siano
proposte definizioni di “competenza” quanto mai ambigue e contraddittorie,
rispetto alle quali lo studio intende fare chiarezza. Tentativo a nostro parere
non riuscito; il fondamento scientifico definitivo che validerebbe il concetto
rispetto a qualsiasi altra alternativa non viene mostrato. Ingenuamente, in
riferimento alle competenze base europee, si ammette anzi il contrario:
«All’assenza di un robusto impianto teorico sopperisce evidentemente
l’autorevolezza dell’istituzione», in ibid., pag.38. Un
ragionamento che finalmente, forse, spiega il continuo tono autocelebrativo dei
documenti di cui ci occupiamo, che non attendono il giudizio di personalità
esterne, ma sono continuamente infarciti di autoglorificazioni, ad onta della
debolezza degli assunti. Numerosi anche nel presente documento, come quello a
pag. 27, quando si auspica una realizzazione di quanto proposto, quale
«successo di un’operazione che sarebbe di portata storica per il nostro Paese».
[8] Sviluppo professionale e qualità della
formazione in servizio, cit., p.45. Se calcoliamo il tempo indicato per le
ore curricolari, gli studenti affronterebbero solo tre quattro argomenti in un
anno, peraltro slegati fra loro e scelti unicamente in base a presunte valenze
pratiche. Si realizzerebbe quanto auspicato da A.Gavosto, Un
insegnamento più europeo passa per il lavoro di gruppo, in La Stampa, 19
dicembre 2017: «paradossalmente, un gruppo di insegnanti potrebbe affrontare in
tutto l’anno un solo argomento, ma farlo così approfonditamente da trasmettere
agli studenti un metodo di studio utile per sempre».
[9] Ibid., cit., p.44.
[10] Ibid. Cfr. Le competenze nei
sistemi educativi e formativi, in Fondazione Agnelli, Le competenze,
cit., pag. 85: «Il sistema dell’insegnamento vive, fin dalla sua nascita, la
contrapposizione tra coloro che vogliono trasmettere delle conoscenze
fini a se stessa e quelli che, pur tra visioni contraddittorie, vogliono
legarle anche a pratiche sociali». Si tratta di una citazione P.Perrenoud,
Costruire le competenze a partire dalla scuola, Anicia, Roma 2000, pag.20.
“Pratiche sociali” spesso eterodirette, ovvero non spontanee, ma attese,
volutamente prodotte da una predeterminazione dell’azione didattica, che in
questo modo condiziona la personalità dell’alunno, più che svilupparne la
potenziale creatività.
[11] Ibid. pag.46. Avevamo notata questa
volontà di parcellizzare il sapere, secondo un’impostazione decisamente anti
storicistica e decontestualizzata, incapace di produrre riflessione critica, a
proposito degli Orientamenti sull’insegnamento della filosofia nell’età
della conoscenza, laddove si parlava non di argomenti ma di «bussole», e di
sapere quale «cassetta degli attrezzi». Cfr. https://www.roars.it/online/il-docente-di-filosofia-un-intellettuale-organico-della-buona-scuola/ cit.
[12] Ibid., pag.51.
[13] Ibid.
[14] Ibid.
[15] Ibid.
[16] Ibid.
[17] Ibid., pag.52.
[18] Ibid., pag.55.
[19] In un intervento di quasi due anni fa (https://www.roars.it/online/un-lucido-attacco-alla-liberta-dinsegnamento-sul-piano-di-formazione-obbligatoria-dei-docenti-italiani/ )
proponevo alcune strategie sulla formazione: 1) far prevalere i corsi di
formazione di approfondimento disciplinare; 2) non seguire corsi on
line per poter avere un franco confronto intellettuale con il
formatore; 3) organizzare corsi d’aggiornamento all’interno del proprio
Istituto, secondo le concrete esigenze degli insegnanti. Se si realizzasse
quanto auspicato dal presente testo, tutto ciò risulterebbe impossibile.
[20] Ibid., pag.57.
[21] Sconcertante espressione, portata a conoscenza
da Rossella Latempa in un importante intervento su ROARS (https://www.roars.it/online/destrutturare-le-sinapsi-cerebrali-le-emozioni-e-il-giudizio-su-di-se-dei-docenti-ce-lo-chiede-leuropeanization-dellistruzione/ ).
E’ a mio parere impossibile comprendere lo spirito radicale di testi come
quello che andiamo commentando se non si tiene conto di tali finalità
esplicitamente dichiarate. Sta in ciò il limite di alcuni interventi pure
critici nei confronti della politica scolastica, ma che non ne colgono
l’impianto radicalmente iconoclasta. Risulta quindi scarsamente efficace
l’intervento di C. Scognamiglio su Micromega, sempre dedicato al
documento (cfr. http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-docente-costruito-a-tavolino/ )
dal titolo piuttosto significativo, ma che non trae, a nostro parere, le dovute
conseguenze sui rischi che l’attuazione di un tale piano farebbe correre
all’ordinamento democratico nel suo complesso.
[22] In realtà tutti i corsi proposti attualmente
dalle diverse “scuole polo”, dei vari “ambiti territoriali” obbediscono ai
principi auspicati da tale documento. I docenti sono ancora nella possibilità
di evitarli, per frequentarne altri che ritengono di maggiore spessore
culturale.
[23] Sviluppo professionale e qualità della
formazione in servizio, cit., pag.4
[24] Ibid., pag.5. Il bold è
nostro.
[25] Ibid.
[26] In realtà questa volontà di costrizione nei
confronti dei docenti era già un obiettivo dichiarato quando fu varata
l’autonomia scolastica. Un noto preside dell’area milanese, Domenico
Malinverno, oggi scomparso, così scriveva nel 2004: ««Agli insegnanti, in
quanto soggetti costituenti il corpo professionale […] sarebbe riconosciuto il
diritto-dovere alla libertà di pianificazione e progettazione flessibile,
multiforme ed assoggettabile a continue messe a punto. A tale dimensione
strategica […] fanno riscontro momenti attuativi (programmazione, validazione
delle azioni e verifica, controllo, valutazione dei risultati). I quali, a
differenza di quanto normalmente avviene, non possono non conformarsi nella
dimensione della pratica alle linee di strategia precedentemente definite. Ne
deriva una determinazione della libertà della funzione docente in forma di un
potere finalmente abilitato a manifestarsi come possibilità di giocarsi a
livello della proposta mentre nelle fasi di lavoro con gli allievi avrebbero
modo di esprimersi quei vincoli e regole di aderenza alle direttrici di quadro
progettato atte a coordinare i singoli comportamenti quali azioni professionali
sganciate dai condizionamenti riduttivi dell’agire soggettivistico». E più
avanti parlava della necessità di introdurre, nei confronti dei docenti, «un
più rigoroso condizionamento»; cioè «acquisire competenze in docimologia, in
sistematica curricolare, nella progettazione\programmazione e nell’adozione di
metodologie di mastery learning e di problem solving».
D.Malinverno, Nuove dimensioni della professionalità docente, Ed.
Unicopli, Milano 2000, p. 119.
[27] Sviluppo professionale e qualità della
formazione in servizio, cit., pag 24.
[28] Nel riflettere su questo testo, mi è tornato in
mente –e penso possa essere esperienza comune a tutti quelli della mia
generazione- un film visto in anni giovanili, Angi Vera del
regista ungherese Pal Gabor (1978), ambientato nell’Ungheria dell’immediato
secondo dopoguerra, finalizzato a descrivere la dimensione assolutamente
repressiva e soffocante –soprattutto sul piano intellettuale- del regime
stalinista. Il culmine drammatico del film si ha quando viene messa in scena la
«giornata di critica ed autocritica», che conduce all’umiliazione pubblica di
tanti vecchi e onesti militanti comunisti, che non comprendono la ragione di un
contesto così tanto ostile alla libera pratica comunicativa. Il soggetto
esprimeva il suo parere, che veniva immediatamente criticato e giudicato
insindacabilmente dal rappresentante ufficiale del Partito, che dava gli ordini
operativi sul comportamento futuro da tenere per essere considerati «bravi
compagni». Un classico esempio di «autovalutazione accompagnata».
[29] Ibid, pag.6.
[30] Ibid.
[31] Sul carattere antipedagogico di una didattica
che riferisce qualsiasi contenuto unicamente al vissuto degli studenti le
osservazioni critiche sono numerose, a partire dalle insuperate analisi di
Giulio Ferroni ancora vent’anni fa. Recentemente ho approfondito il tema
in Quali obiettivi formativi per una filosofia senza critica, al
seguente link https://www.sfi.it/files/download/Comunicazione%20Filosofica/cf40.pdf ,
in particolare pp. 73-74.
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