La crisi turca non è un fulmine a ciel sereno e benché sembri una crisi valutaria, in realtà è una crisi debitoria. La Turchia è una vittima predestinata del cosiddetto quantitative easing, la manovra intrapresa a partire dal 2008 dalle principali banche centrali occidentali con l’obiettivo di rianimare il sistema economico, e soprattutto il sistema bancario, mandato in tilt da una gestione scriteriata sui due lati dell’Atlantico.
Di fronte ad un’economia stagnante e a un
sistema bancario al collasso, le banche centrali di Stati Uniti, Unione
Europea, Gran Bretagna, Giappone, decisero di rivitalizzare la macchina
inondandola di nuova moneta tramite l’acquisto sul mercato di titoli pubblici e
privati. Complessivamente, dal 2008 al 2018, le 4 banche centrali hanno
fatto un pieno di nuovi titoli per un valore di 11.000 miliardi di dollari. Il
ragionamento era che la nuova iniezione di denaro avrebbe permesso alle banche
ordinarie di concedere più prestiti alle imprese, stimolando, di conseguenza,
investimenti, Pil e occupazione. In realtà, l’effetto sull’economia reale fu
molto scarso e a beneficiare della manovra furono soprattutto gli operatori
finanziari che utilizzarono l’enorme massa di denaro messa a disposizione dalle
banche per operazioni speculative nei paesi emergenti. Il fatto è che il quantitative easing non rendeva
più appetibili i titoli occidentali perché gli acquisti assicurati da parte
delle banche centrali aveva tirato giù tutti i tassi di interesse, non
solo quelli bancari e sui debiti sovrani, ma anche quelli sui titoli
obbligazionari delle imprese private.
Perciò gli speculatori guardarono al Sud
del mondo affollato di governi, consumatori e imprese private che pur di
ricevere prestiti erano disposti a pagare tassi interessi ben più alti di
quelli in vigore nei paesi occidentali. Del resto lo strumento di guadagno non
mancava. Si chiama carry trade e consiste nel
chiedere alle banche occidentali denaro a basso costo per riprestarlo a
soggetti del Sud del mondo a tassi più alti. Secondo le statistiche
fornite dalla Banca per i pagamenti internazionali (BIS) l’ammontare di debito
in valuta estera dell’ America latina è passato da 297 miliardi di dollari nel
2009 a 757 miliardi nel 2017. In Asia, invece, nello stesso periodo è passato
da 253 a 637 miliardi di dollari.
Fin da subito il Fondo Monetario
Internazionale lanciò un grido d’allarme, paventando una crisi prossima ventura
non appena le banche centrali occidentali avessero abbandonato il quantitative easing. Quel giorno – recitava la profezia
– i tassi di interesse in occidente sarebbero tornati a salire e gli operatori
finanziari avrebbero abbandonato il Sud del mondo per tornare ad investire in
casa propria. Che è esattamente quello che è successo in Turchia, che dal 2010
al 2017 ha visto crescere il debito complessivo di 25 punti percentuale, passando
dal 190 al 215% del Pil.
La fine del quantitative easing ha
ridotto l’afflusso di denaro proveniente dall’estero mettendo in difficoltà non
solo il mondo dei debitori, principalmente famiglie e imprese private che di
fronte a una minor liquidità si sono trovate costrette a pagare tassi di
interesse più elevati con forte rischio di fallimento, ma le banche stesse che non avendo più soldi per
rifinanziare il debito dei clienti morosi si sono trovate costrette a
classificare gli stessi fra i debiti inesigibili mettendo a rischio la propria
solidità finanziaria e a catena la propria credibilità e quindi il proprio
valore di mercato. Ed ecco la posizione critica di Unicredit, che detiene il
40,9% della banca turca Yapi Kredi o della Banca spagnola BBVA, che possiede il
50% di Garanti Bank. La prima ha subito una perdita di borsa del 4,7%, la
seconda del 5,2%.
Alti tassi di interessi su un debito
estero difficile da pagare, sommato a un deficit commerciale alimentato dal
debito stesso, non hanno fatto altro che peggiorare la situazione, perché a un
ridotto afflusso di valuta estera si è associato la vendita di lire
turche per perdita di fiducia nel sistema paese. Tant’è che la lira turca ha perso sul dollaro
più del 40% dall’inizio dell’anno con uno scossone del 14% nella sola giornata
di venerdì 10 agosto. Un terremoto a cui ha sicuramente contribuito il
contezioso relativo al pastore statunitense Andrew Brunson detenuto in Turchia
da più di due anni. In un tweet,Trump ha
dichiarato che le relazioni con la Turchia non sono buone oggi ed ha annunciato
di avere autorizzato il raddoppio delle tariffe doganali su acciaio e
alluminio, rispettivamente al 50 e al 20%. Per tutta risposta il presidente
turco Erdogan ha mandato a dire che “se loro hanno il loro dollaro, noi abbiamo
il nostro Allah”. Ma prima di scomodare Dio, sarebbe meglio che risolvessimo i
nostri problemi terreni con maggior buon senso, preveggenza e rispetto.
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