martedì 4 settembre 2018

Turchia: una crisi annunciata - Francesco Gesualdi




La crisi turca non è un fulmine a ciel sereno e benché sembri una crisi valutaria, in realtà è una crisi debitoria. La Turchia è una vittima predestinata del cosiddetto quantitative easing, la manovra intrapresa a partire dal 2008 dalle principali banche centrali occidentali con l’obiettivo di rianimare il sistema economico, e soprattutto il sistema bancario, mandato in tilt da una gestione scriteriata sui due lati dell’Atlantico.
Di fronte ad un’economia stagnante e a un sistema bancario al collasso, le banche centrali di Stati Uniti, Unione Europea, Gran Bretagna, Giappone, decisero di rivitalizzare la macchina inondandola di nuova moneta tramite l’acquisto sul mercato di titoli pubblici e privati. Complessivamente, dal 2008 al 2018, le 4 banche centrali  hanno fatto un pieno di nuovi titoli per un valore di 11.000 miliardi di dollari. Il ragionamento era che la nuova iniezione di denaro avrebbe permesso alle banche ordinarie di concedere più prestiti alle imprese, stimolando, di conseguenza, investimenti, Pil e occupazione. In realtà, l’effetto sull’economia reale fu molto scarso e a beneficiare della manovra furono soprattutto gli operatori finanziari che utilizzarono l’enorme massa di denaro messa a disposizione dalle banche per operazioni speculative nei paesi emergenti. Il fatto è che il quantitative easing non rendeva più appetibili i titoli occidentali perché gli acquisti assicurati da parte delle banche centrali aveva tirato giù tutti i tassi di interesse, non solo quelli bancari e sui debiti sovrani, ma anche quelli sui titoli obbligazionari delle imprese private.
Perciò gli speculatori guardarono al Sud del mondo affollato di governi, consumatori e imprese private che pur di ricevere prestiti erano disposti a pagare tassi interessi ben più alti di quelli in vigore nei paesi occidentali. Del resto lo strumento di guadagno non mancava. Si chiama carry trade e consiste nel chiedere alle banche occidentali denaro a basso costo per riprestarlo a soggetti del Sud del mondo a tassi più alti. Secondo le statistiche fornite dalla Banca per i pagamenti internazionali (BIS) l’ammontare di debito in valuta estera dell’ America latina è passato da 297 miliardi di dollari nel 2009 a 757 miliardi nel 2017. In Asia, invece, nello stesso periodo è passato da 253 a 637 miliardi di dollari.
Fin da subito il Fondo Monetario Internazionale lanciò un grido d’allarme, paventando una crisi prossima ventura non appena le banche centrali occidentali avessero abbandonato il quantitative easing. Quel giorno – recitava la profezia – i tassi di interesse in occidente sarebbero tornati a salire e gli operatori finanziari avrebbero abbandonato il Sud del mondo per tornare ad investire in casa propria. Che è esattamente quello che è successo in Turchia, che dal 2010 al 2017 ha visto crescere il debito complessivo di 25 punti percentuale, passando dal 190 al 215% del Pil.
La fine del quantitative easing ha ridotto l’afflusso di denaro proveniente dall’estero mettendo in difficoltà non solo il mondo dei debitori, principalmente famiglie e imprese private che di fronte a una minor liquidità si sono trovate costrette a pagare tassi di interesse più elevati con forte rischio di fallimento, ma le banche stesse che non avendo più soldi per rifinanziare il debito dei clienti morosi si sono trovate costrette a classificare gli stessi fra i debiti inesigibili mettendo a rischio la propria solidità finanziaria e a catena la propria credibilità e quindi il proprio valore di mercato. Ed ecco la posizione critica di Unicredit, che detiene il 40,9% della banca turca Yapi Kredi o della Banca spagnola BBVA, che possiede il 50% di Garanti Bank. La prima ha subito una perdita di borsa del 4,7%, la seconda del 5,2%.
Alti tassi di interessi su un debito estero difficile da pagare, sommato a un deficit commerciale alimentato dal debito stesso, non hanno fatto altro che peggiorare la situazione, perché a un ridotto afflusso di valuta estera  si è associato la vendita di lire turche per perdita di fiducia nel sistema paese.  Tant’è che la lira turca ha perso sul dollaro più del 40% dall’inizio dell’anno con uno scossone del 14% nella sola giornata di venerdì 10 agosto. Un terremoto a cui ha sicuramente contribuito il contezioso relativo al pastore statunitense Andrew Brunson detenuto in Turchia da più di due anni. In un tweet,Trump ha dichiarato che le relazioni con la Turchia non sono buone oggi ed ha annunciato di avere autorizzato il raddoppio delle tariffe doganali su acciaio e alluminio, rispettivamente al 50 e al 20%. Per tutta risposta il presidente turco Erdogan ha mandato a dire che “se loro hanno il loro dollaro, noi abbiamo il nostro Allah”. Ma prima di scomodare Dio, sarebbe meglio che risolvessimo i nostri problemi terreni con maggior buon senso, preveggenza e rispetto.


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