Tempo fa ho letto un articolo di Francesca Coin, “On Quitting. The labour of academia” (tradutto in italiano su Effimera) che cominciava
così:
“Il 3 maggio 2013, Keguro Macharia ha scritto un pezzo per ‘The New Inquiry’ intitolato On quitting. Era un pezzo coraggioso e dolorosamente bello che partiva da una diagnosi: ‘disturbo bipolare, un’oscillazione tra periodi di attività frenetica e periodi di profonda depressione’ (Macharia, 2013). Si tratta di una condizione perfettamente compatibile con il calendario accademico — aggiungeva Macharia — nel quale si alternano raffiche di produttività intellettuale, quasi indotte farmacologicamente, e stati quasi catatonici di esaurimento e ritardi prolungati. Trascorro gloriose giornate estive a letto, incapace di muovermi, incapace di mettere insieme l’energia per accendere il ventilatore, incapace di farmi una doccia, incapace di pensare. Trovo conforto in romanzetti trash e libri per bambini. La lettura tiene in piedi qualcosa, un debole tremolio di qualcosa. Può essere molto peggio di quanto non confesserò mai. E poi peggio ancora”.
Un articolo straordinario, però quasi un mese dopo mi sono accorto che mancava qualcosa: se bisognava scrivere una side story dell’Università italiana, dei suoi dolori e delle sue esistenze precarie, all’appello mancava almeno un’altra condizione, ignorata dalla classe docente specularmente a quanto fanno gli studenti: la condizione studentesca, in tutta la sua drammaticità, per certi versi molto simile. Se però esiste almeno un genere letterario (il “quit-lit”) in grado di rendere comunicabile l’oscillamento compulsivo della propria attività, tipico della classe docente, gli studenti non trovano alcuna possibilità codificata in grado di fare la stessa operazione. Ho deciso perciò di provare a inaugurare questo genere, a partire dalla mia esperienza e parlando unicamente della didattica, senza perciò voler essere esaustivo in tutti i mille altri ambiti che ci costringono a precarietà e sofferenza.
Sono uno studente di magistrale a Bologna, frequento il corso di Sociologia e servizio sociale, non ho avuto un’ottima carriera accademica e mi sono laureato con 98. Nell’ultimo anno della triennale, per cercare di laurearmi in fretta (ti veniva dato un bonus velocità di un punto sul voto di laurea), ho dato quattro esami del primo semestre in una settimana in modo da avere quello successivo più libero.
Una delle cose che ricordo più dolorosamente sono gli esami che ho dato in triennale: praticamente solo scritti, la maggior parte a crocette, qualcuno a risposta medio-lunga, ma sempre sotto forma di domandine. Si trattava cioè di una pratica di valutazione spersonalizzante, disumanizzante, in cui non c’era spazio per te stesso, per le conoscenze che avevi maturato anche fuori da quei manuali. Il trionfo di una coscienza squisitamente tecnica, asettica, spogliata di ogni possibile panorama: una storia ordinaria di morte valutativa. In quella valutazione ho trovato le prime ragioni di un disprezzo di un certo sapere accademico, io che fino ad allora avevo cercato in tutti i modi di sobillare quello strano rapporto formale-informale tipico delle superiori in cui il paternalismo segna la differenza tra te e loro che stanno alla cattedra. Ho scoperto invece che un mostro peggiore del paternalismo è la lucida indifferenza dell’autorità universitaria, una distanza che si costruisce per tenerti saldamente dominato.
Difatti mi rimaneva una sola lezione da frequentare e la tesi da scrivere. Ad aprile comincio a scriverla (sì, forse era un po’ tardi), a giugno quello che ero riuscito a produrre era purtroppo una trentina scarsa di pagine di materiale grezzo e inutile, perciò dopo aver dato l’ultima materia mi lascio convincere dal mio relatore e mi laureo a settembre invece che a luglio. Perdo un punto, ma faccio la cosa più soddisfacente della mia intera carriera accademica: finisco la mia tesi, studiando le cose che amo, una sessantina di pagine su “Anvur e razionalità neoliberale”; capisco finalmente cosa voglio fare nella vita.
Vorrei fare ricerca, occuparmi di Valutazione della Ricerca, Università e Sociologia del lavoro. Purtroppo so bene come funziona questo mondo, ma decido di andare avanti. Quello che volevo fare l’ho deciso non certo per le materie della mia triennale, ma per due motivi assolutamente distanti ma contingenti nel tempo. Il primo è che negli ultimi due anni ho fatto parte del sindacato studentesco, ho trovato un gruppo che è diventato la mia casa e la mia famiglia. Mi sono occupato principalmente di Anvur e ricerca, sono venuto a contatto con la comunità di Roars, ho scoperto il mondo dei docenti, dei ricercatori, dei precari della ricerca. Il secondo motivo è che ho trovato un buon professore, che ha colmato molte delle lacune che avevo su società ed economia, e che in qualche modo mi ha dato la speranza che si possa fare questo lavoro senza uscire pazzi. La mia laurea triennale è servita a introdurmi in questa comunità accademica, farmi capire le cose che mi piacciono e le cose che non mi piacciono, a incontrare ogni tanto qualche professore illuminato, e tendenzialmente una conoscenza diffusa di quello che mi serviva. Non il massimo, né quello che mi aspettavo, ma accettabile.
Il vero dramma è stato alla magistrale. Lo dico in premessa, non voglio sconsigliare a nessuno di fare questa specifica laurea magistrale, questo è frutto del modello 3+2 e dell’impoverimento generale delle nostre università: insomma, non c’è scampo, ma certo si possono trovare altre soluzioni.
La magistrale in Sociologia e servizio sociale altro non è che la triennale di Scienze politiche dello stesso dipartimento in forma concentrata: esami con gli stessi programmi (giustificati come livellamento per la composizione eterogenea della classe), a volte anche le stesse slide, pochissima libertà di studio, esperimenti di applicazioni concrete alquanto goffe (se non a volte ridicole oltre l’inverosimile). Non sono mai stato un fan dei lavori di gruppo, ma c’è un limite alle cose che mi puoi far fare spacciandole per innovazione. La differenza con la triennale stava però soprattutto nella mia capacità di sopportazione, non più in grado di reggere cose che non mi interessavano, che non mi sarebbero servite, senza parlare del peggio della formazione di destra, neoclassica e neoliberale delle scienze sociali. E non parlo solo di quella tipa che difendeva la riforma Fornero, ma proprio dell’espulsione dai programmi di tutto ciò che poteva sembrare vagamente non mainstream e prodotto dopo gli anni 2000, tra cui il mio libro di testo di metodologia delle scienze sociali, scritto nel 1984, con le matrici in ascii e “i nastri magnetici”. Se dovessi parlare poi del fatto che in questa Università sembra che l’unica cosa che fanno i sociologi siano survey e analisi quantitativa, non ne uscirebbe bene nessuno.
Ho provato in tutti i modi a trovare alternative, era troppo tardi per cambiare corso e non potevo darmi materie che non fossero nel mio programma didattico (quindi eventualmente per prepararmi a un trasferimento di corso l’anno successivo), ho anche provato a presentare un programma di studio individualizzato. Niente, non c’è stato niente da fare, non era previsto nel regolamento didattico del corso perché l’Ateneo aveva dato indicazione di non farlo inserire nei corsi umanistici e sociali, così mi è stato detto almeno (è presente invece in alcuni corsi scientifici e previsto dal regolamento didattico di Ateneo).
Primo semestre, zero lezioni, zero esami, in compenso una vertenza vinta sulle tasse universitarie, a testimonianza del fatto che non è che non ho fatto niente, anzi è stato uno degli anni più intensi di sempre, solo che era come stare dentro l’università ma contemporaneamente fuori. Ed è qui che arriva il secondo semestre, in cui non solo si ripete il copione, ma non riesco proprio a fare a meno di litigare con tutti i professori e di passare ben presto davanti agli occhi della mia classe per un alienato sociopatico-pieno di sé che chissà cosa voleva dall’Università.
Ecco, chissà cosa voleva. Io non ne avevo la più pallida idea di cosa volessi, avrei voluto certamente un posto per discutere, un posto per fare dei ragionamenti, un posto dove poter in qualche modo dire la mia. Avrei voluto da questa Università strumenti critici di conoscenza ma soprattutto strumenti di democrazia e partecipazione: volevo decidere dei miei studi, del mio futuro, del futuro dell’istituzione a cui appartenevo. Così non è stato, e un giorno, un mercoledì di febbraio, dopo aver litigato con l’ennesimo professore, decido che avrei smesso di frequentare. Avevo bisogno di una laurea magistrale, ma ero stanco di tanta insoddisfazione quotidiana, di quel sentimento continuo di frustrazione, per cui decisi che mi sarei astenuto dalle lezioni universitarie in attesa di trovare qualcosa di interessante, che mi sorprendesse.
Quello stesso giorno, mentre stavo andando a Padova, sbaglio treno. Scendo a Borgo Panigale (vittoria del nulla cosmico sulla pienezza metropolitana), torno indietro a Bologna e, una volta sceso, sento dagli altoparlanti “Treno InterCity 610”.
Sei uno zero, seiunozero.
Col morale sotto i piedi, finisco di scrivere questa riflessione. Questa è una delle tante sconfitte del sistema universitario, certo non una delle più eclatanti, sicuramente una di quelle che comunemente affligge più studenti in assoluto. L’istituzione università fa poco e nulla per provare a capire realmente che cosa vogliono i suoi studenti, cosa si aspettano, cosa può davvero cambiare le loro vite. Le procedure introdotte per cercare di avere un feedback da noi si sono risolte in qualche formalità, un sondaggio obbligatorio di Anvur che non restituisce né i problemi né la complessità della nostra condizione. Nessuno ci ascolta, e quando proviamo a farci sentire il risultato è una chiusura totale, eppure se fino a qualche anno fa si poteva dire di star facendo due viaggi diversi adesso la nave si sta per schiantare contro un iceberg fatto di tagli, burocrazia all’inverosimile, classifiche un po’ strane che segnano la vita e la morte della ricerca. In sintesi, molto lontano dall’idea che abbiamo del valore della ricerca e della didattica, della sua centralità nell’affrontare le sfide dei prossimi anni.
Credo che questa immagine, e il processo che ci ha portato a questo, sia sintetizzato da un famoso monologo di Gaber che si potrebbe parafrasare così: qualcuno faceva l’università perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo, perché era disposto a cambiare ogni giorno, perché sentiva la necessità di una morale diversa, perché forse era solo una forza, un volo, un sogno, era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita.
Qualcuno faceva l’università perché con accanto questo slancio ognuno era come più di se stesso, era come due persone in una. Da una parte la personale fatica quotidiana e dall’altra il senso di appartenenza a una razza che voleva spiccare il volo per cambiare veramente la vita.
No, niente rimpianti. Forse anche allora molti avevano aperto le ali senza essere capaci di volare, come dei gabbiani ipotetici.
E ora? Anche ora ci si sente come in due: da una parte l’uomo inserito che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana e dall’altra il gabbiano, senza più neanche l’intenzione del volo, perché ormai il sogno si è rattrappito. Due miserie in un corpo solo. (G. Gaberščik detto Gaber, 1992, Qualcuno era comunista)
da qui
“Il 3 maggio 2013, Keguro Macharia ha scritto un pezzo per ‘The New Inquiry’ intitolato On quitting. Era un pezzo coraggioso e dolorosamente bello che partiva da una diagnosi: ‘disturbo bipolare, un’oscillazione tra periodi di attività frenetica e periodi di profonda depressione’ (Macharia, 2013). Si tratta di una condizione perfettamente compatibile con il calendario accademico — aggiungeva Macharia — nel quale si alternano raffiche di produttività intellettuale, quasi indotte farmacologicamente, e stati quasi catatonici di esaurimento e ritardi prolungati. Trascorro gloriose giornate estive a letto, incapace di muovermi, incapace di mettere insieme l’energia per accendere il ventilatore, incapace di farmi una doccia, incapace di pensare. Trovo conforto in romanzetti trash e libri per bambini. La lettura tiene in piedi qualcosa, un debole tremolio di qualcosa. Può essere molto peggio di quanto non confesserò mai. E poi peggio ancora”.
Un articolo straordinario, però quasi un mese dopo mi sono accorto che mancava qualcosa: se bisognava scrivere una side story dell’Università italiana, dei suoi dolori e delle sue esistenze precarie, all’appello mancava almeno un’altra condizione, ignorata dalla classe docente specularmente a quanto fanno gli studenti: la condizione studentesca, in tutta la sua drammaticità, per certi versi molto simile. Se però esiste almeno un genere letterario (il “quit-lit”) in grado di rendere comunicabile l’oscillamento compulsivo della propria attività, tipico della classe docente, gli studenti non trovano alcuna possibilità codificata in grado di fare la stessa operazione. Ho deciso perciò di provare a inaugurare questo genere, a partire dalla mia esperienza e parlando unicamente della didattica, senza perciò voler essere esaustivo in tutti i mille altri ambiti che ci costringono a precarietà e sofferenza.
Sono uno studente di magistrale a Bologna, frequento il corso di Sociologia e servizio sociale, non ho avuto un’ottima carriera accademica e mi sono laureato con 98. Nell’ultimo anno della triennale, per cercare di laurearmi in fretta (ti veniva dato un bonus velocità di un punto sul voto di laurea), ho dato quattro esami del primo semestre in una settimana in modo da avere quello successivo più libero.
Una delle cose che ricordo più dolorosamente sono gli esami che ho dato in triennale: praticamente solo scritti, la maggior parte a crocette, qualcuno a risposta medio-lunga, ma sempre sotto forma di domandine. Si trattava cioè di una pratica di valutazione spersonalizzante, disumanizzante, in cui non c’era spazio per te stesso, per le conoscenze che avevi maturato anche fuori da quei manuali. Il trionfo di una coscienza squisitamente tecnica, asettica, spogliata di ogni possibile panorama: una storia ordinaria di morte valutativa. In quella valutazione ho trovato le prime ragioni di un disprezzo di un certo sapere accademico, io che fino ad allora avevo cercato in tutti i modi di sobillare quello strano rapporto formale-informale tipico delle superiori in cui il paternalismo segna la differenza tra te e loro che stanno alla cattedra. Ho scoperto invece che un mostro peggiore del paternalismo è la lucida indifferenza dell’autorità universitaria, una distanza che si costruisce per tenerti saldamente dominato.
Difatti mi rimaneva una sola lezione da frequentare e la tesi da scrivere. Ad aprile comincio a scriverla (sì, forse era un po’ tardi), a giugno quello che ero riuscito a produrre era purtroppo una trentina scarsa di pagine di materiale grezzo e inutile, perciò dopo aver dato l’ultima materia mi lascio convincere dal mio relatore e mi laureo a settembre invece che a luglio. Perdo un punto, ma faccio la cosa più soddisfacente della mia intera carriera accademica: finisco la mia tesi, studiando le cose che amo, una sessantina di pagine su “Anvur e razionalità neoliberale”; capisco finalmente cosa voglio fare nella vita.
Vorrei fare ricerca, occuparmi di Valutazione della Ricerca, Università e Sociologia del lavoro. Purtroppo so bene come funziona questo mondo, ma decido di andare avanti. Quello che volevo fare l’ho deciso non certo per le materie della mia triennale, ma per due motivi assolutamente distanti ma contingenti nel tempo. Il primo è che negli ultimi due anni ho fatto parte del sindacato studentesco, ho trovato un gruppo che è diventato la mia casa e la mia famiglia. Mi sono occupato principalmente di Anvur e ricerca, sono venuto a contatto con la comunità di Roars, ho scoperto il mondo dei docenti, dei ricercatori, dei precari della ricerca. Il secondo motivo è che ho trovato un buon professore, che ha colmato molte delle lacune che avevo su società ed economia, e che in qualche modo mi ha dato la speranza che si possa fare questo lavoro senza uscire pazzi. La mia laurea triennale è servita a introdurmi in questa comunità accademica, farmi capire le cose che mi piacciono e le cose che non mi piacciono, a incontrare ogni tanto qualche professore illuminato, e tendenzialmente una conoscenza diffusa di quello che mi serviva. Non il massimo, né quello che mi aspettavo, ma accettabile.
Il vero dramma è stato alla magistrale. Lo dico in premessa, non voglio sconsigliare a nessuno di fare questa specifica laurea magistrale, questo è frutto del modello 3+2 e dell’impoverimento generale delle nostre università: insomma, non c’è scampo, ma certo si possono trovare altre soluzioni.
La magistrale in Sociologia e servizio sociale altro non è che la triennale di Scienze politiche dello stesso dipartimento in forma concentrata: esami con gli stessi programmi (giustificati come livellamento per la composizione eterogenea della classe), a volte anche le stesse slide, pochissima libertà di studio, esperimenti di applicazioni concrete alquanto goffe (se non a volte ridicole oltre l’inverosimile). Non sono mai stato un fan dei lavori di gruppo, ma c’è un limite alle cose che mi puoi far fare spacciandole per innovazione. La differenza con la triennale stava però soprattutto nella mia capacità di sopportazione, non più in grado di reggere cose che non mi interessavano, che non mi sarebbero servite, senza parlare del peggio della formazione di destra, neoclassica e neoliberale delle scienze sociali. E non parlo solo di quella tipa che difendeva la riforma Fornero, ma proprio dell’espulsione dai programmi di tutto ciò che poteva sembrare vagamente non mainstream e prodotto dopo gli anni 2000, tra cui il mio libro di testo di metodologia delle scienze sociali, scritto nel 1984, con le matrici in ascii e “i nastri magnetici”. Se dovessi parlare poi del fatto che in questa Università sembra che l’unica cosa che fanno i sociologi siano survey e analisi quantitativa, non ne uscirebbe bene nessuno.
Ho provato in tutti i modi a trovare alternative, era troppo tardi per cambiare corso e non potevo darmi materie che non fossero nel mio programma didattico (quindi eventualmente per prepararmi a un trasferimento di corso l’anno successivo), ho anche provato a presentare un programma di studio individualizzato. Niente, non c’è stato niente da fare, non era previsto nel regolamento didattico del corso perché l’Ateneo aveva dato indicazione di non farlo inserire nei corsi umanistici e sociali, così mi è stato detto almeno (è presente invece in alcuni corsi scientifici e previsto dal regolamento didattico di Ateneo).
Primo semestre, zero lezioni, zero esami, in compenso una vertenza vinta sulle tasse universitarie, a testimonianza del fatto che non è che non ho fatto niente, anzi è stato uno degli anni più intensi di sempre, solo che era come stare dentro l’università ma contemporaneamente fuori. Ed è qui che arriva il secondo semestre, in cui non solo si ripete il copione, ma non riesco proprio a fare a meno di litigare con tutti i professori e di passare ben presto davanti agli occhi della mia classe per un alienato sociopatico-pieno di sé che chissà cosa voleva dall’Università.
Ecco, chissà cosa voleva. Io non ne avevo la più pallida idea di cosa volessi, avrei voluto certamente un posto per discutere, un posto per fare dei ragionamenti, un posto dove poter in qualche modo dire la mia. Avrei voluto da questa Università strumenti critici di conoscenza ma soprattutto strumenti di democrazia e partecipazione: volevo decidere dei miei studi, del mio futuro, del futuro dell’istituzione a cui appartenevo. Così non è stato, e un giorno, un mercoledì di febbraio, dopo aver litigato con l’ennesimo professore, decido che avrei smesso di frequentare. Avevo bisogno di una laurea magistrale, ma ero stanco di tanta insoddisfazione quotidiana, di quel sentimento continuo di frustrazione, per cui decisi che mi sarei astenuto dalle lezioni universitarie in attesa di trovare qualcosa di interessante, che mi sorprendesse.
Quello stesso giorno, mentre stavo andando a Padova, sbaglio treno. Scendo a Borgo Panigale (vittoria del nulla cosmico sulla pienezza metropolitana), torno indietro a Bologna e, una volta sceso, sento dagli altoparlanti “Treno InterCity 610”.
Sei uno zero, seiunozero.
Col morale sotto i piedi, finisco di scrivere questa riflessione. Questa è una delle tante sconfitte del sistema universitario, certo non una delle più eclatanti, sicuramente una di quelle che comunemente affligge più studenti in assoluto. L’istituzione università fa poco e nulla per provare a capire realmente che cosa vogliono i suoi studenti, cosa si aspettano, cosa può davvero cambiare le loro vite. Le procedure introdotte per cercare di avere un feedback da noi si sono risolte in qualche formalità, un sondaggio obbligatorio di Anvur che non restituisce né i problemi né la complessità della nostra condizione. Nessuno ci ascolta, e quando proviamo a farci sentire il risultato è una chiusura totale, eppure se fino a qualche anno fa si poteva dire di star facendo due viaggi diversi adesso la nave si sta per schiantare contro un iceberg fatto di tagli, burocrazia all’inverosimile, classifiche un po’ strane che segnano la vita e la morte della ricerca. In sintesi, molto lontano dall’idea che abbiamo del valore della ricerca e della didattica, della sua centralità nell’affrontare le sfide dei prossimi anni.
Credo che questa immagine, e il processo che ci ha portato a questo, sia sintetizzato da un famoso monologo di Gaber che si potrebbe parafrasare così: qualcuno faceva l’università perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo, perché era disposto a cambiare ogni giorno, perché sentiva la necessità di una morale diversa, perché forse era solo una forza, un volo, un sogno, era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita.
Qualcuno faceva l’università perché con accanto questo slancio ognuno era come più di se stesso, era come due persone in una. Da una parte la personale fatica quotidiana e dall’altra il senso di appartenenza a una razza che voleva spiccare il volo per cambiare veramente la vita.
No, niente rimpianti. Forse anche allora molti avevano aperto le ali senza essere capaci di volare, come dei gabbiani ipotetici.
E ora? Anche ora ci si sente come in due: da una parte l’uomo inserito che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana e dall’altra il gabbiano, senza più neanche l’intenzione del volo, perché ormai il sogno si è rattrappito. Due miserie in un corpo solo. (G. Gaberščik detto Gaber, 1992, Qualcuno era comunista)
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