Il portfolio delle competenze acquisite da ogni docente sarà infatti
valutato sulla base di alcuni standard destinati a configurare la professione
docente, e che avranno valore di vincolo giuridico: un dispositivo concepito
per sorvegliare e punire il libero lavoro dei docenti: formazione obbligatoria,
nessuna possibile libera scelta in ambito metodologico e didattico, falsa
collegialità, ovvero asservimento della collegialità a decisioni prese da un
gruppo ristretto autoproclamatosi esperto di didattica. Manca però ancora un
passo, definitivo. La scuola non è facile da addomesticare. Anche il fascismo
non ci riuscì del tutto. Nulla di meglio allora che concepire un «Patto
professionale», un vero e proprio contratto con valore giuridico, la cui
sottoscrizione si vorrebbe obbligatoria al momento dell’immissione in ruolo e a
seguito dei cambiamenti strutturali, ovvero un trasferimento, magari causato da
motivi di dimensionamento. Un patto che obbligherà il docente a insegnare
esclusivamente secondo i criteri previsti dai corsi di formazione permanente;
l’obbligo assoluto, dunque, a praticare la didattica per competenze e a
superare la didattica disciplinare. Il tono ricorda quello dei testi di epoca
controriformista; se non fosse per la sostituzione della terza persona
singolare con la prima, si tratta di un atto di fede e di sottomissione non diverso
da quello indicato nella Profissio fidei tridentina. In ogni caso, siamo
lontanissimi dalla “libertà d’insegnamento” garantita dalla Costituzione e, se
tale trasformazione dovesse attuarsi, bisognerà ricorrere a contenziosi
giuridici per difendere non solo la scuola e la libertà d’insegnamento, ma la
stessa natura democratica della società italiana.
Pubblichiamo la seconda e ultima parte del commento a un recente documento
pubblicato dal MIUR, intitolato Sviluppo professionale e qualità della
formazione in servizio.
«Sorvegliare e punire»
Il
documento auspica che le competenze rivestano un ruolo importante nella
progressività della carriera dei docenti. Il portfolio delle competenze
acquisite da ogni docente sarà infatti valutato sulla base di alcuni standard destinati
a configurare la professione docente, e che avranno valore di vincolo
giuridico, come esplicitato nel documento stesso[1].
Il lettore può facilmente immaginare quali siano i contenuti di questi standard destinati
a costituire i parametri di giudizio “oggettivi” per la carriera. E’
interessante che tali standard non siano stati proposti dagli
estensori del documento ai docenti, e con loro discussi, bensì a non meglio
identificati «decisori politico amministrativi»[2].
Un altro aspetto che risulta inquietante, è la volontà di legittimare
l’obbligo di tale trasformazione professionale con motivazioni di ordine
morale; per cui la riconfigurazione del docente in «operatore» sarebbe
addirittura una questione «deontologica»[3].
La deontologia non si traduce tanto nel rapporto docente-studente, quanto nella
volontà ferrea da parte del docente di soddisfare le richieste che a lui
vengono rivolte nell’ambito della formazione obbligatoria. Il percorso
auspicato, che è dovere di ogni docente rispettare, si configurerebbe nel
seguente modo, che sarebbe poi alla base dei tre livelli professionali
suggeriti, e gerarchicamente disposti: 1) una «competenza di
base», rispetto alla quale il docente dovrà essere «in progressione verso
gli standard attesi»; da chi «attesi» non viene precisato; ma è chiaro che la
questione della legittimità di una simile imposizione per la progressione
carriera sta tutta nei principi non fondati su cui si regge l’intero sistema. 2. Le
«competenze di base, cioè padronanza sicura, consolidata, consapevole (ad es.
il docente che ispira i propri comportamenti professionali agli standard
attesi)». Particolarmente significativa la frase tra parentesi, che identifica
la possibilità di progressione di carriera con la condivisione acritica e
servile di standard decisi da altri. 3. La
« competenza “esperta”, quindi padronanza matura e accreditata del sapere
professionale (ad es. un docente, che sa mettere a disposizione dei colleghi e
dell’organizzazione cui appartiene le proprie competenze, svolgendo funzioni di
“mentor”)»[4],
laddove è chiara la funzione di controllo e di direzione nei confronti degli
altri colleghi, affinché si adeguino alla prassi richiesta dall’alto.
Ovviamente, tali «comportamenti attesi» coincidono con gli standard presentati
nel documento. Vediamone alcuni: la «cura del proprio sé professionale»[5] che,
come abbiamo visto, corrisponde all’avvenuta sottomissione del docente, ormai
operatore e non più padrone delle sue decisioni didattiche; «costruire il
proprio diario di apprendimento (o portfolio digitale) come strumento per
l’autovalutazione e la metacognizione»[6];
e un altro, a nostro parere particolarmente rivelativo, ovvero la disponibilità
« a incorporare idee e metodi sviluppati da altri professionisti del mondo
dell’educazione, per supportare i loro obiettivi didattici e il miglioramento
delle loro pratiche, acquisendo competenze utili all’organizzazione scolastica»[7];
il trionfo corporativo dei pedagogisti, ormai padroni della scuola, ad onta dei
fallimenti continui delle loro teorie e anche delle forti critiche cui il loro
lavoro è sottoposto.
Il patto formativo: un giuramento di
fedeltà
Non voglio stancare ulteriormente chi sta leggendo. Il documento risulta
inutilmente ripetitivo, e tali affermazioni preoccupanti, spesso comunicate con
un tono eufemistico volto a stravolgere il significato autoritario in una
apparenza libertaria, proseguono sugli stessi toni. Penso sia chiaro come
il dispositivo sia stato concepito per sorvegliare e punire il
libero lavoro dei docenti: formazione obbligatoria, nessuna possibile libera
scelta in ambito metodologico e didattico, falsa collegialità, ovvero
asservimento della collegialità a decisioni prese da un gruppo ristretto
autoproclamatosi esperto di didattica. Pubblicazione di questi documenti
organizzati e loro valutazione sulla base di standard, in modo da
rendere pubblica la posizione gerarchica dei diversi docenti.
Manca però ancora un passo, definitivo. Ammettiamo infatti che tale disegno
distopico si realizzi. La scuola è un’istituzione importante, fondata sul
pluralismo, la libertà della parola e del confronto dialogico. Non è facile da
addomesticare. Anche il fascismo non ci riuscì del tutto. E le recenti analisi
di alcuni sostenitori della didattica per competenze confermano
questo quadro. Tenace rimane la volontà dei docenti di persistere in metodi
d’insegnamento fondati sulla valorizzazione della cultura, per stimolare un
vero sapere critico negli alunni, obiettivo formativo la cui importanza sempre
più viene riconosciuta dalle stesse famiglie, le quali constatano come la
destrutturazione della scuola verificatasi in questo anni abbia spesso
impoverito spesso il potenziale intellettuale dei loro giovani. Famiglie
disposte a riconoscere con onestà l’importanza del lavoro docente, e la
maggiore rilevanza di questo rispetto ad ogni formalizzazione metodologica. È
merito di molti docenti, in questi anni, avere convinto le famiglie su quali
siano le prospettive d’insegnamento più rilevanti per i loro figli[8].
Nulla di meglio allora che concepire un «Patto professionale», un
vero e proprio contratto con valore giuridico, che obbligherà il docente a
insegnare esclusivamente secondo i criteri previsti dai corsi di formazione
permanente. Tali patti formativi indicheranno «i passaggi
formativi che il docente dovrà praticare per poter assolvere al meglio quanto
dichiarato nel patto professionale» e, guarda caso, «scandiscono le modalità
attraverso le quali il docente sviluppa le proprie competenze in relazione alla
propria attività “in situazione”»[9];
l’obbligo assoluto, dunque, a praticare la didattica per competenze e
a superare la didattica disciplinare. Come accadeva in altri documenti del
MIUR, l’intento impositivo, qui esplicitato dal verbo «deve», diventa sempre
più chiaro e non mascherato mano a mano che si procede nella lettura, al di là
di alcune affermazioni retoriche in senso contrario nella parte iniziale[10].
Riporto il testo integrale, che dovrebbe riassumere i contenuti del Patto,
la cui sottoscrizione si vorrebbe obbligatoria al momento dell’immissione in
ruolo e a seguito dei cambiamenti strutturali, ovvero un trasferimento, magari
causato da motivi di dimensionamento. Una politica concepita per liberare la
scuola da quei docenti “contrastivi” che non si rassegnano a tale
involuzione autoritaria dell’insegnamento in Italia. Il tono ricorda quello dei
testi di epoca controriformista; se non fosse per la sostituzione della terza
persona singolare con la prima, si tratta di un atto di fede e di sottomissione
non diverso da quello indicato nella Profissio fidei tridentina. In
ogni caso, siamo lontanissimi dalla “libertà d’insegnamento” garantita dalla
Costituzione e, se tale trasformazione dovesse attuarsi, bisognerà ricorrere a
contenziosi giuridici per difendere non solo la scuola e la libertà
d’insegnamento, ma la stessa natura democratica della società italiana.
Il docente riconosce gli obiettivi formativi della scuola e cerca di
corrispondere ai bisogni condivisi, completando ed arricchendo il proprio
bagaglio di competenze. Il dirigente mette a disposizione strumenti, risorse ed
opportunità affinché il docente possa soddisfare le aspettative del patto. Il
docente descrive i compiti che intende privilegiare insieme alle modalità
operative che intende utilizzare per raggiungere gli obiettivi formativi della
scuola e per migliorare nel contempo la propria professionalità. Il documento
costituisce, quindi, per il docente, un impegno nei confronti della scuola,
della comunità professionale e sociale. Il patto professionale può riportare i
compiti del docente e della scuola declinati in più dimensioni intorno a
differenti categorie e correlabili con l’impegno e con le specifiche
responsabilità. Per esempio: 1. impegno sulla didattica (guarda all’impegno del
docente su specifici aspetti dell’insegnamento, sulla capacità di intraprendere
percorsi di innovazione, sulla propensione a sperimentare nuove strategie in
modo metodico); 2. investimento di tempo con gli studenti (l’impegno del
docente viene visto come un investimento di tempo dedicato al contatto con gli
studenti rispetto a quello previsto dall’orario scolastico), con un occhio
attento alle loro esigenze personali e di studio; 4. Ricaduta sulla comunità
professionale (l’impegno alla diffusione di conoscenze, attitudini, valori e
comportamenti); 5. Sviluppo di comunità di pratiche (l’impegno ad essere
proattivi nel definire e orientare il proprio sviluppo professionale, a
condividere, imparare e mettere alla prova i propri saperi nella comunità); 6.
Attenzione alla comunità scolastica (il docente sa che la responsabilità di
educatore va oltre le mura della classe; si impegna a coinvolgere i diversi
attori cui la scuola fa da interlocutore)[11].
[1] Ibid., pag.15: «A conclusione del
documento il gruppo ha prefigurato eventuali ipotesi per esigere e riconoscere
sul piano giuridico un più ricco e impegnativo profilo professionale del
docente, così come risultante dagli standard».
[2] Null’altro viene precisato nel testo. Se ne
ricava una strana impressione: da una parte si è rimandati a chissà quale
autorevolezza di un’immaginaria élite scientifica, dall’altra il tono sembra
quasi intimidatorio nei confronti del docente sprovveduto, non informato sugli
ultimi progressi della scienza cognitivista.
[3] Cfr. Ibid., pag.11: «Il gruppo
ritiene opportuno considerare l’area “valoriale” (i comportamenti, le scelte
deontologiche, i codici professionali, i “valori in gioco”) come una dimensione
da trattare in modo diverso dalle precedenti dimensioni (per le quali si andrà
ad una specifica individuazione di standard attesi e di indicatori descrittivi)».
[4] Ibid., pag.12.
[5] Ibid., pag.22.
[6] Ibid.
[7] Ibid.
[8] Questa presa di distanza da parte delle famiglie,
che avrebbero dovuto rimanere attratte dalla promessa di più inglese e più
didattica digitale, è stata riconosciuta significativamente anche nel testo
della Fondazione Agnelli. Ovviamente, secondo l’interpretazione che ne viene
data, l’ostilità dei docenti sarebbe dovuta a «contestazioni ideologiche […]
ragioni emotive […] pregiudizio nostalgico», quella dei genitori «a
disinformazione e fraintendimento». Cfr. Fondazione Agnelli, Le
competenze, cit., pag.162.
[9] Ibid., pag.39.
[10] Una retorica che si trova in tutti i documenti
del MIUR, non ultimo il recente Sillabo dedicato alla
filosofia.
[11] Ibid., pag.39.
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