C’era una volta l’idea di una scuola pubblica, universalista,
gratuita, rivolta a tutti i ceti sociali, nelle cui classi potevano sedere
nello stesso banco il figlio dell’avvocato e quello dell’operaio o del
contadino. Si voleva con essa dare corpo al grande sogno illuministico:
l’elevazione dell’umanità e il riscatto delle classi sociali più svantaggiate
attraverso la cultura, la possibilità di un loro progresso con lo studio,
l’opportunità di sfuggire al destino segnato dalla nascita grazie alla dura
fatica e all’impegno dello studio. E se di fatto percentualmente erano ancora
pochi i figli delle classi subalterne che accedevano alle scuole più
prestigiose (come i licei), non era perché queste erano loro precluse da
qualche barriera formale, ma per le condizioni sociali e culturali di
provenienza.
Sembrava che verso questa idea di scuola ci si stesse avviando con quella
ereditata nel dopoguerra; essa aveva sì i suoi percorsi di eccellenza –
disegnati nel recente passato dittatoriale, ma da un illuminato filosofo –
incarnati nei licei (scientifico e specialmente classico, l’unico che fino al
1968 permetteva l’accesso a tutte le facoltà universitarie), ma essi si
erano via via aperti a tutte le classi sociali, a seguito del generale
rivolgimento della società italiana, del miglioramento delle condizioni
economiche della gente sino allora emarginata e subalterna e del convincimento,
ancora diffuso e politicamente praticato, che una buona istruzione di massa
potesse essere di giovamento per il paese: l’obbligo scolastico viene così
progressivamente esteso negli anni, sino ad arrivare alla scuola media unificata
nel 1963 (con le sue luci ed ombre). Nei licei – si diceva – viene preparata la
classe dirigente; ma questa classe dirigente ora poteva venire da ceti sociali
che prima ne erano rigorosamente esclusi: negli anni ’60 e ’70 pareva proprio
che tale idea di scuola potesse diventare uno straordinario veicolo di mobilità
sociale. Avvocato poteva ora diventare il figlio del bottegaio, o
dell’ambulante; medico chirurgo il figlio del pescivendolo, o del commesso.
Le famiglie lo avevano capito: sapevano che a scuola si poteva
decidere il destino dei loro figli e ci tenevano a mandarli nelle scuole
migliori. Si ambiva addirittura a fare loro frequentare il liceo classico (o almeno
lo scientifico), solo che avessero dimostrato di avere qualità e voglia di
studiare. Che sono equamente divise, per fortuna, e non solo appannaggio dei
ceti abbienti. E così, con grande rispetto e deferenza verso una
cultura che ritenevano una conquista e un prezioso bene, cercavano di mandare i
loro figli nelle migliori scuole, si assicuravano che venissero iscritti nelle
sezioni più di qualità, si informavano dove fossero i docenti più bravi: non
quelli più lassisti o dalla sufficienza facile, non le sezioni dove si
promuoveva più facilmente, non le scuole dove si studiasse meno. E così
questi “figli del popolo” potevano competere con quelli degli avvocati e dei
professionisti, dei benestanti e dei redditieri che, pur partendo da condizioni
economiche e culturali di vantaggio, non potevano essere più sicuri di aver
riservati solo per i loro pargoli i posti migliori: ormai dovevano sgomitare
per affermarsi, in concorrenza col figlio del pizzicagnolo. Sembrava che fosse
sul punto di attuarsi l’ideale illuminista e della “società aperta”: una scuola
che selezionava in base al merito su una platea vasta di discenti e così
forniva una più vasta coorte dalla quale sarebbe naturalmente derivata una
classe dirigente migliore e più qualificata.
Ma i ceti privilegiati e abbienti, che sino a quel momento avevano tenuto
le redini del potere e avevano potuto trasmettere alla propria prole il
privilegio acquisito, senza eccessiva concorrenza, si sono accorti del
pericolo che stavano correndo e hanno preso le contromisure. Ovviamente
non si poteva dire che si voleva ridurre il diritto all’istruzione, ma che si
volevano assicurare i vantaggi delle private anche a chi non se le poteva
permettere; e non si potevano chiudere le scuole e i licei: bastava
riformarli, seppellendoli progressivamente in sempre nuove incombenze
burocratiche e amministrative; bastava “migliorare la loro offerta
formativa”, distraendoli dalla loro missione educativa di base, mediante una
miriade di “progetti”, PON, POR e iniziative collaterali; era sufficiente
demotivarne il ceto insegnante e formarlo sempre peggio attraverso curricula
universitari via via più scadenti, affidati ai crediti e a massicce dosi di
didattica in assenza di contenuti disciplinari; era indispensabile mettere in
secondo piano il fine educativo e la funzione pedagogica per trasformarle in
“aziende” in cui il vecchio Preside è trasformato in “dirigente scolastico”,
comprandone con un cospicuo aumento stipendiale la complicità e il consenso.
Era anche necessario eliminare i percorsi di eccellenza col fare rientrare i
licei in un’unica istituzione polivalente dove quelli che prima erano i
classici, con una propria identità e specificità anche ambientale, venivano
progressivamente ridotti a percorsi o curricula, spesso depotenziati e
imbastarditi nel tentativo di “modernizzarli” un po’ a caso, per renderli
meglio “appetibili” ai possibili “clienti”. Così, infine – come ha già
sinteticamente ed efficacemente sottolineato lo storico Alessandro
Barbero, in un articolo
pubblicato su ROARS– «quando han cominciato ad andarci anche i figli
degli operai si è cominciato a dire “ma appunto, in fondo in fondo
siamo sicuri che tutto questo serve?” […] E si è arrivati adesso
all’assurdità che si è tornati a dire ai ragazzi, come ai loro nonni
analfabeti: “anche se avete soltanto sedici o diciassette anni o
diciott’anni, però, un po’ di lavoro lo dovete fare. Che è questo lusso di
passare quegli anni solo a studiare a scuola? No, no: alternanza scuola
lavoro!”».
Sì è in tal modo avviato quel processo che in altri paesi, presi in Italia
a modello, è già andato assai avanti: scuole pubbliche sempre più
impoverite e prive di prestigio, frequentate solo da chi non si può permettere
le ricche rette di istituzioni private, le quali ultime diventano via via il
salotto pregiato della nuova e vecchia borghesia ricca, che non vuol vedere
i propri rampolli mischiarsi a ceti popolari involgariti e ormai aventi in non
cale, o addirittura disprezzano, cultura ed istruzione. In queste nuove, linde,
eleganti scuole private si studiano tre lingue (o anche quattro!), si godono
insegnanti educati e compiacenti, ci si assicura comunque una promozione perché
si è “clienti”, e senza il pericolo di imbattersi in qualche docente riottoso o
eterodosso dalle strane e sovversive idee; alla fine si può accedere in qualche
prestigiosa università, anche essa privata e magari estera o in lingua inglese,
che così completerà l’hortus conclusus di classi sociali benestanti
e benpensanti che si autoriproducono in regime di imbreeding.
Il sogno illuministico e laico di una scuola concepita come ascensore
sociale, come riscatto dei ceti popolari, come premiazione del merito
indipendentemente dalla professione o dalla provenienza sociale dei genitori, si
sta così estinguendo senza che nessuno ne abbia dichiarato esplicitamente
l’obsolescenza o ne abbia firmato il certificato di morte. Paradossalmente – ma non
a caso – ciò accade in un susseguirsi di riforme, regolamenti, programmazioni,
valutazioni Anvur e Invalsi, tutte misure implementate allo scopo di migliorare
la didattica, la qualità, la professionalizzazione, la “soddisfazione dei
clienti” e così via. Perché si può ammazzare anche per troppe cure, per
intossicazione farmacologica, esibendo le migliori intenzioni. E così la scuola
italiana (e l’università, che l’ha seguita in questa terapia d’urto cominciata
con il proto-riformatore Berlinguer e poi proseguita con la Gelmini e i
corollari conseguenti) sta progressivamente allontanandosi da quell’idea che
sembrava averne governato per una lunga fase l’evoluzione e via via scivolando
sempre più verso il basso in un’orgia di riforme e di interventi tutti
volti a migliorarne la qualità.
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