Per il giorno del 15° compleanno di Arkan
Muzhir, il 20 agosto, suo padre Taher aveva programmato di comprargli un
telefonino . Il Muzhir più anziano usa la parola ebraica per telefono
cellulare, pelefon.
Ma quattro settimane prima del compleanno di
suo figlio, durante un raid nel campo rifugiati di Deheisheh prima dell’alba,
lunedì 23 luglio, un soldato israeliano ha sparato ad Arkan. Lo ha colpito
“esattamente all’angolo destro del cuore”, ha detto Muzhir, indicando una
fotografia di suo figlio morto, con la sua T-shirt piegata e che mostra il
petto di un bambino.
“Abbiamo 180 fotografie di Arkan; mostratemene
una in cui non sta sorridendo“, ha detto Muzhir all’inizio della settimana,
sedendo nel diwan – la sala per gli ospiti del quartiere – in uno stretto
vicolo dove è situata anche la casa di famiglia.
I tre giorni ufficiali di lutto erano passati,
ma gli uomini al campo continuavano a venire al diwan per esprimere le loro
condoglianze, seduti sulle sedie nella stanza, ascoltando Muzhir che raccontava
di come il suo ragazzo se ne era andato, e aggiungendo i loro stessi ricordi. E
di certo muovendosi verso una conversazione politica.
“Il ragazzo si era iscritto ad una scuola per
il prossimo anno scolastico“, ha detto Muzhir. “Voleva studiare ingegneria
elettrica per le macchine o meccanica per le macchine. Tutti – i suoi amici, i
suoi insegnanti, le sue sorelle – dicono come era piacevole, benvoluto, pronto
ad aiutare“.
Circa un anno e mezzo fa il ragazzo si era
spostato a dormire nella stanza di sua nonna Nadhmieh, che non stava bene, per
essere vicino a lei se avesse avuto bisogno di aiuto durante la notte. Nel
Ramadan aveva riempito delle bottiglie con succo di carrube e limonata, ne
aveva vendute 25 e date via altre 25. Negli ultimi cinque mesi aveva passato
molto tempo con il suo parente Hassan Muzhir, 17 anni, che era paralizzato dopo
che un proiettile sparatogli da un soldato israeliano gli aveva leso la spina
dorsale.
Arkan aveva lasciato la Cisgiordania solo una
volta, quando aveva accompagnato suo padre in un viaggio ad Amman. Non aveva
mai visto il mare, la Galilea, o città come Jaffa e Acre. “E c’è qualcos’altro
che dovete sapere di Arkan“, ha detto il padre quando eravamo seduti nel
piccolo appartamento della famiglia di nove persone, ora otto.
Muzhir ha indicato il confortevole divano sul
quale era seduto con sua moglie Isfahan e la loro figlia più grande Kayan e ha
detto :”Arkan aveva costruito questo con le sue mani“. Giovane com’era,
lavorava come apprendista falegname per aiutare la sua famiglia, così suo padre
gli aveva comprato degli attrezzi e aveva affittato una stanza nel campo dove
poteva fare mobili. Il divano è stato la prima cosa che ha fatto.
Un vicino ha confermato :”Solo pochi giorni fa
aveva preso le misure nella casa di mia suocera per costruire anche per loro un
divano“.
“E c’è qualcos’altro che dovete sapere di
Arkan“, ha aggiunto suo padre. “Mi aveva comprato dei vestiti con il denaro che
aveva fatto. Gli avevo detto che non era necessario, ma lui ha insistito“.
Arkan voleva che suo padre, 45 anni, viaggiasse per lavorare a Be’er Sheva e
ritornasse con abiti freschi e in ordine.
“Arkan portava delle responsabilità maggiori
della sua età“, ha detto sua madre, 42 anni. All’inizio della conversazione i
suoi occhi erano asciutti; solo il suo naso rosso tradiva che aveva pianto.
Dopo ha singhiozzato, tolto via le lacrime e ha continuato a raccontare.
Dormiva, la notte tra domenica e lunedì del 23
luglio. “Ho visto Arkan circa alle 23, quando è ritornato da Hassan ed è andato
da sua nonna“, che vive nell’appartamento dall’altra parte della via.
“Improvvisamente alle 4 sua nonna è venuta a
bussare e ha chiesto se Arkan fosse con me“.
La madre dice che la nonna le ha detto, “Lui
mi ha detto che stava andando fuori a mangiare qualcosa e non è ritornato, e
adesso ho sentito sparare e l’esercito era fuori“.
La madre ora ferma il pianto per spiegare :”A
volte andava fuori a comprare un toast o qualcosa di notte. Qui al campo,
specialmente in estate, la gente sta sveglia fino a notte fonda“.
● L’esercito ovunque
“Dove è andato?“, la madre di Arkan ha chiesto
alla sua nonna. “E lei ha detto che lui le aveva raccontato che aveva fame, e
che erano forse le 3.30. Lei mi ha detto così e la mia testa è diventata
vertiginosa. Volevo sapere dov’era“.
“E poi hanno telefonato a mia figlia e le hanno detto che era stato ferito“, ha continuato. “Mi sono vestita di corsa e sono uscita; la strada era piena di militari . Non potevo andare vicino alla strada. Stavo bollendo dentro, ma ho aspettato con pazienza che l’esercito se ne andasse. Sono andata all’ospedale. Quello che ho saputo era che era stato ferito. Ho visto folle di gente fuori e dentro l’ospedale. Ho cominciato a correre, sono entrata in una stanza e ho visto che era stato ucciso.Il proiettile nel petto. Non potevo crederci. Ho perso conoscenza, mi sono risvegliata e mi sono ritrovata a casa. Ho voluto tornare all’ospedale per vederlo. Mi hanno fatta entrare nella cella frigorifera [la morgue] per dirgli addio. L’ho visto e l’ho baciato. Un ragazzo, cosa aveva fatto?“.
“E poi hanno telefonato a mia figlia e le hanno detto che era stato ferito“, ha continuato. “Mi sono vestita di corsa e sono uscita; la strada era piena di militari . Non potevo andare vicino alla strada. Stavo bollendo dentro, ma ho aspettato con pazienza che l’esercito se ne andasse. Sono andata all’ospedale. Quello che ho saputo era che era stato ferito. Ho visto folle di gente fuori e dentro l’ospedale. Ho cominciato a correre, sono entrata in una stanza e ho visto che era stato ucciso.Il proiettile nel petto. Non potevo crederci. Ho perso conoscenza, mi sono risvegliata e mi sono ritrovata a casa. Ho voluto tornare all’ospedale per vederlo. Mi hanno fatta entrare nella cella frigorifera [la morgue] per dirgli addio. L’ho visto e l’ho baciato. Un ragazzo, cosa aveva fatto?“.
Arkan, con alcuni altri giovani, era andato
alla via principale del campo e aveva lanciato pietre alle 10 o 15 jeep militari
che avevano appena iniziato a lasciare il campo. Testimoni che hanno parlato
con Musa Abu Hashhash del gruppo per i diritti B’Tselem stimano che Arkan fosse
da 20 a 40 metri dalle jeep. Credono che sia stato colpito da uno o due soldati
che non erano ancora entrati in una jeep.
Poche ore dopo circa 25 soldati hanno fatto un
raid nelle case del quartiere Ja’afra vicino alla strada principale. Avevano
con loro cani e scale. Dozzine di altri soldati erano rimaste tra le jeep,
sparando gas lacrimogeni e granate stordenti in ogni direzione, mentre dozzine
di giovani lanciavano loro pietre dai tetti e dai vicoli vicini. I soldati
hanno anche fatto irruzione in due drogherie e in un piccolo negozio di
giocattoli e cartoleria.
Uno dei testimoni ha detto al veterano
ricercatore sul campo di B’Tselem che mentre stava guardando i giovani che
lanciavano pietre alle jeep che se ne stavano andando, ha sentito che venivano
sparati due proiettili veri. Ha visto uno dei giovani, che stava correndo nel
mezzo della strada, mettere la sua mano al petto, correre per pochi passi prima
di cadere a terra.
Questo testimone e altri sono corsi verso il
giovane colpito, che non si muoveva. Un paramedico volontario ha tolto la
maglia del ragazzo e ha visto una ferita al petto, sebbene il sanguinamento
fosse leggero. Prendendo in prestito la macchina del proprietario di un banco
di falafel, lo hanno portato in ospedale.
Secondo il portavoce dell’esercito, come parte
di un’attività di arresto nel campo rifugiati di Deheisheh nella notte del 22
luglio, sono scoppiate violente azioni di disturbo, durante le quali i
palestinesi hanno lanciato pietre, cocktail molotov ed esplosivi alle forze. Le
forze hanno risposto usando mezzi di controllo della folla e sparando.
In seguito a ciò, ha detto il portavoce, c’è
stata l’informazione di un palestinese che era stato ucciso. L’evento sarà
sottoposto ad indagine dai comandanti, mentre anche la polizia dell’esercito ha
aperto un’investigazione. I risultati saranno dati alla procura militare.
Durante l’operazione due sospetti sono stati arrestati.
Il telefono ha svegliato il padre intorno alle
4.30, quando era a Be’er Sheva. Poche ore prima aveva parlato con suo figlio e
lo aveva visto su WhatsApp. Arkan aveva anche mandato a suo padre una
registrazione di lui e del suo fratellino di due anni Ghassan, dopo che aveva
comprato un gelato al bambino.
“Mi hanno detto che era stato ferito“, ha
detto il padre. “Sulla via di casa speravo che fosse stato soltanto ferito.Se
aveva lanciato un sasso, non potevano sparargli alla gamba?“.
● L’ultimo addio
Una ripresa video mostra il padre che prende
su suo figlio, avvolto in una bandiera palestinese e nella bandiera rossa del
Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Si può vedere il padre che
bacia la fronte e gli occhi di suo figlio, che gli pizzica il mento e che dice
“Ti amo”.
Nel diwan la scorsa domenica sera, una delle
persone in lutto ha detto al padre, “Ora tu hai 100 figli”. Muzhir ha
replicato: ”Lo so, non sono arrabbiato“.
Mi sono presa la libertà di dirgli che non ci
credevo. La risposta di Muzhir è stata questo monologo: ”Cosa state facendo
voi, soldati, qui a Deheisheh? Vedete un ragazzo quindicenne e gli sparate? Mio
figlio non era andato da voi a Tel Aviv o ad Haifa o ad Etzion. Non vi aveva messo
in una situazione di rischio. Venite mascherati, tutti armati, in nero
[mascherati o con le facce dipinte]. Le vostre vite non erano in pericolo“.
Muzhir ha continuato: ”Voi nella società
israeliana – i vostri media vi rovinano. Così non vedete la verità. Ho perso
mio figlio. La cosa più bella della mia vita. Volevo essere felice con lui,
vederlo sposato. Forse non vivrò per vedere crescere il mio figlioletto. Alla
fine avete giustiziato mio figlio a sangue freddo. Chiunque gli ha sparato ha
portato via da me tutta la mia vita.E poi l’ufficiale, il soldato, o l’uomo
dello Shin Bet [il servizio di sicurezza ] che lo ha ucciso è tornato a casa,
si è tolto l’uniforme, ha dato da mangiare a suo figlio e gli ha dato il latte
prima di andare a letto. Alla fine ognuno di voi è un soldato, un uomo della
sicurezza. Venite da Etzion, uccidete un bambino e dite che avete ucciso un
terrorista? Quello è il terrorista che avete ucciso?“
Per spiegare ciò di cui Muzhir stava parlando,
qualcuno mi ha mostrato un articolo sul website 0404 dal titolo: ”Un terrorista
è stato ucciso ed un altro ferito dopo che avevano attaccato le nostre forze
durante operazioni a Deheisheh“, di Noa Magid.
Muzhir ha continuato il suo monologo: ”Nella
società israeliana voi allevate un bambino ed un cane. Qualcuno due bambine ed
un cane. Se il cane scompare, la polizia lo cerca. Ho cresciuto dei bambini
nella mia casa. Arkan era un bambino. Voi chiamate i 22enni ‘bambini‘. Non
voglio trattare la sua uccisione come un mero incidente automobilistico“.
Questo era un riferimento al suggerimento da
parte di un ufficiale israeliano che l’uccisione di Arkan fosse trattata come
“un incidente automobilistico“. Non è chiaro chi fosse l’ufficiale – un
investigatore dello Shin Bet che interrogava un detenuto, un altro uomo dello
Shin Bet che chiamava qualcuno al telefono, o un ufficiale israeliano di
collegamento che parlava ad una controparte palestinese.
Ma i presenti nel diwan dicono che sono certi
che è stato detto, e il disprezzo della dichiarazione calza con la campagna
dell’esercito contro di loro, come riflesso nei violenti raid di routine al
campo e nelle case, il fuoco vivo e gli arresti. Dicono che il campo – casa dei
discendenti di dozzine di villaggi demoliti – è determinato e aderisce ai principi
palestinesi, così l’esercito sta cercando di sottometterlo come Gaza ed altri
campi.
Diversamente da altri campi rifugiati, le
organizzazioni politiche a Deheisheh – come Fatah e il PFLP, che mantengono
ancora qualche autorità sociale – hanno emanato regole contro il portare e
l’usare armi. “Non vogliamo dare all’esercito un pretesto per metterci in
un pericolo maggiore. Non di meno, abbiamo il diritto di resistere ai raid
e alla violenza“.
Nella sua casa, sul divano che suo figlio ha
costruito, la madre dice: ”Arkan è con il suo Creatore. Ma noi come vivremo
senza di lui? Come andrò avanti? Lui è in paradiso, e io voglio volare ovunque
lui sia. Non posso sopportarlo. Possa Dio punirli”.
da qui
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