Ci sono
firme dall’Università di Cambridge, quella con cui Giulio Regeni stava
conducendo la sua ricerca sui sindacati indipendenti egiziani; dall’Università
di Liverpool, che appena due mesi fa al Cairo siglava un memorandum d’intesa
con il ministero egiziano dell’Educazione. E poi da Leeds, dalla London School
of Economics, da Glasgow, Leicester.
In tutto sono oltre 200 le firme di accademici
britannici in calce a una lettera pubblicata sul Guardian:
criticano con durezza le partnership che il governo di Londra mantiene e amplia
con le autorità egiziane. Rapporti
consolidati nel tempo e che hanno condotto numerosi atenei a progettare
l’apertura di campus in Egitto.
«Sembra che
i funzionari del governo e i manager delle università – si legge nella lettera
– abbiano dimenticato che solo due anni fa Giulio Regeni, dottorando di
Cambridge, veniva rapito, torturato e ucciso mentre conduceva una ricerca al
Cairo. Giulio era uno dei tanti studenti e accademici arrestati, torturati,
imprigionati e uccisi negli ultimi anni in Egitto, nell’ambito di una più vasta
campagna di repressione contro opposizione politica, sindacati, società civile,
media indipendenti».
Qui sta il
cuore della denuncia: basta stringere mani e accordi con un regime repressivo
come quello inaugurato nel luglio 2013 dal generale golpista al-Sisi. Il sospetto, concludono i firmatari, «è
che si tratti di un mero e cinico atto commerciale: vendere diplomi con
l’imprimatur di un’università del Regno unito, mentre si resta in silenzio di
fronte alla scomparsa di accademici critici e agli attacchi al diritto degli
studenti egiziani di studiare senza paura».
Il barbaro
omicidio di Giulio non è un’eccezione. Soprattutto
dal 2013, quando i campus sono diventati tra i principali luoghi di opposizione
ad al-Sisi. Il regime ha risposto con compagnie di sicurezza private a
pattugliare gli atenei, l’esplusione di centinaia di studenti dissidenti (di
diverse estrazioni politiche, dai Fratelli musulmani ai Socialisti
rivoluzionari), i processi di fronte a corti militari, la repressione delle
manifestazioni.Mezzi che hanno fatto crollare il numero di proteste
(dalle 1.677 dell’anno accademico 2013/2014 alle poche decine di oggi) e
impennare quello di giovani universitari tuttora prigionieri politici.
La lettera giunge a seguito della visita di undici
atenei britannici, a fine giugno, al Cairo con la supervisione del governo di
Londra. L’obiettivo era la firma di accordi di collaborazione, programmi di
scambio e apertura di campus in Egitto. Il paese nordafricano è il quinto al mondo per
presenza accademica britannica, con 19.800 egiziani registrati in programmi
britannici. Durante la visita, l’Università di Liverpool ha siglato un’intesa
con il primo ministro Madbouly e il ministro dell’Educazione Ghaffar per
«sviluppare una partnership strategica attraverso ricerca congiunta e attività
di innovazione, scambio e formazione di accademici e studenti».
Ma il
discorso è più ampio: come riporta il British Council, le università britanniche puntano a
inserirsi nel progetto Vision 2030, piano di sviluppo economico e ricerca
innovativa di cui ancora si sa poco (il sito ufficiale è pressoché vuoto). Già
a gennaio Ghaffar aveva firmato con il ministro britannico all’Università
Gyimah un accordo bilaterale per l’espansione transnazionale degli atenei del
Regno Unito attraverso filiali in Egitto.
A scorrere
l’elenco degli atenei presenti al Cairo, si capisce qualcosa in più: come
spiega al manifesto una professoressa
della londinese Soas, la maggior parte (la Queen Margaret di Edinburgo,
Portsmouth, la Edinburgh Napier University, Cardiff, la Canterbury Christ
Church University) sono atenei piccoli, preoccupati dalla fuga di studenti
europei a causa della Brexit: per i cittadini Ue le tasse universitarie
raddoppieranno dalla già elevata quota attuale di 9mila sterline. Sono alla
caccia di matricole extra-europee, come già accade con il «mercato» asiatico, e
di finanziamenti da fondazioni e governi.
Il tutto rientra in un processo di privatizzazione
dei campus, paragonabili oggi a imprese il cui obiettivo è il profitto a
scapito dell’aspetto educativo e del reinvestimento del surplus. A reggerle
corporazioni, manager e consigli di amministrazione e, come spiega Stefan Collini
in un articolo del 2013 sul London Review of Books,
dalle tasse studentesche (e i conseguenti prestiti bancari) che hanno
largamente sostituito i fondi pubblici.
Lo studente
non è che un mero consumatore. E quando le politiche migratorie impediscono
l’arrivo di extra-europei, è il campus a spostarsi: negli ultimi anni, aggiunge
Collini, filiali delle università britanniche sono spuntate come funghi in
tutto il mondo. E ora mirano all’Egitto.
da qui
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