mercoledì 11 ottobre 2023

Draghi e l’Unione Europea, affondati dalla guerra - Claudio Conti, Guido Salerno Aletta

 


O Mario Draghi ha perso i suoi superpoteri oppure non li aveva mai avuti, ma l’avevano disegnato così…

A leggere la tremenda tranvata riservatagli da Milano Finanza non c’è atto, svolta, “successo”, “invenzione” di SuperMario che non abbia prodotto disastri. E da un punto di vista esclusivamente capitalistico, sia ben chiaro.

A scrivere è ancora una volta Guido Salerno Aletta, che citiamo spesso perché non è un “analista da centro studi”, ma l’ex vicesegretario generale di Palazzo Chigi e tante altre cose; ossia persona che ha visto (e cogestito) incontri e scontri internazionali, trattative, misurando interessi nazionali e/o aziendali differenti o addirittura contrapposti. Un “uomo del fare”, insomma, sul versante istituzionale.

La critica esplicita a Mario Draghi, dopo la sua recente sortita sull’Economist di cui abbiamo già parlato, è insomma la traduzione quasi “divulgativa” di una insofferenza ormai generale verso un certo tipo di governance che ha prodotto la situazione attuale.

È anche, in modo indiretto, un ripudio della stagione neoliberista, della svalutazione del ruolo dello Stato a totale vantaggio delle imprese (e delle multinazionali, in specie finanziarie), del “mercantilismo” che ha dominato per quasi 40 anni in Europa e che ha sagomato – squilibrandoli oltre ogni limite – i rapporti di forza tra i vari paesi.

Di fatto, dunque, una demolizione del mito “positivo” della stessa Unione Europea, che di quella stagione è stata l’infrastruttura semi-statuale.

Più che una critica di Draghi, insomma, il certificato di morte per un ciclo giunto vicino al termine ormai quasi quattro anni fa (con la pandemia a fare da obbligatorio richiamo in vita della “centralità degli Stati e dell’interesse pubblico”), ma definitivamente seppellito con l’inizio della guerra in Ucraina e la prevalenza “istituzionale” assoluta degli interessi statunitensi su quelli “europei”.

Stati Uniti e Ue, infatti, non si somigliano affatto, al contrario di quanto dipinge la “narrazione” ultratrentennale che ancora una volta Draghi ripropone, nel classico schema per cui ad ogni “crisi” dell’Unione si può rispondere con una maggiore sviluppo-accentramento dei poteri e delle “sovranità”.

E non si somigliano per ragioni storiche, istituzionali, linguistiche. Gli “stati” d’oltreoceano hanno competenze limitate, fin dalla fondazione sono subordinati alla Federazione (per capirlo in modo “popolare” basta guardarsi un film in cui i poliziotti locali debbono confrontarsi con l’arrivo dei “federali”).

Sono insomma “regioni”, senza alcuna proiezione “nazionalistica”, se non nel tifo sportivo o nelle chiacchiere da bar.

In Europa è un’altra storia. I rapporti tra interessi consolidati – produttivi, di classe, finanziari, ecc – mantengono una loro dimensione “nazional-statuale” anche quando mascherata da anni di omaggi alla “costruzione europea”.

Non è un segreto per nessuno, ad esempio, che certe “regole” sono state adottate soltanto quando disegnate in modo da proteggere e corrispondere ai prevalenti interessi di Germania e Francia. Anche a costo – o allo scopo – di invalidare gli interessi di altri paesi membri.

Ma la rottura dell’equilibrio chiamato “globalizzazione” e l’irrompere della guerra hanno messo in moto forze prima dormienti o imbavagliate a forza. E dunque…

Sono appaiate, ancora una volta, Germania e Francia. Se la guerra in Ucraina ha abbattuto il potenziale strategico della prima, i colpi di Stato nelle ex-colonie francesi stanno demolendo quello della seconda: il gas russo a basso costo ha mandato avanti l’economia tedesca come l’uranio nigerino ha trainato quella francese.

Ma è assai improbabile che, in queste condizioni di comune difficoltà, Berlino e Parigi deleghino a Bruxelles anche un briciolo di potere in più: in un’epoca in cui la guerra si è riaffacciata violenta sul suolo europeo, l’idea kantiana della pace universale raggiungibile mediante sempre più strette reti di accordi tra Stati torna utopica.

L’Unione serve loro come sede di negoziazione, per combinare i rispettivi obiettivi: ora, per ottenere quante più deroghe possibili per gli aiuti alle imprese da una parte, in cambio di concessioni sempre più generose e a lungo termine a favore dell’energia nucleare dall’altra.

Un’intesa la troveranno anche stavolta, Francia e Germania: hanno entrambe bisogno di autonomia, di nuove strategie, di spazio. Non hanno alcun interesse a portarsi dietro il baraccone burocratico di Bruxelles, né le sue millanta defatiganti trattative: ognun per sé.

Le alternative, per riprendere il vecchio cammino interrotto dell’integrazione/centralizzazione nelle istituzioni di Bruxelles, sono al momento quasi fantascientifiche:

a) fine immediata della guerra, riapertura-ricostruzione dei gasdotti con Mosca, ripresa del controllo francese-europeo sul Sahel e le sue risorse, sganciamento forte dall’egemonia finanziario-militare Usa, intensificazione dei rapporti con la Cina, ecc.

b) vittoria rapida dell’Ucraina e dissoluzione della Russia.

Tante condizioni, insomma, ognuna delle quali è potenzialmente fonte di conflitti ancora più allargati.

SuperMario, insomma, è stato dipinto come un genio, ma era solo l’uomo giusto al posto giusto di una certa fase, il “volto pubblico” di interessi più “riservati” (fin dall’operazione di svendita del patrimonio pubblico italiano imbastita sul Britannia).

Anche basta, insomma…

* * * *

Draghi sbaglia: Francia e Germania faranno a meno della Ue

di Guido Salerno Aletta – Milano Finanza

Forse che sì, forse che no. Nel suo recente intervento pubblicato sull’Economist online, Mario Draghi ha constatato che le nuove sfide che l’Europa si trova ad affrontare, per via degli ingenti investimenti che sono necessari in tempi brevi nei settori della difesa, della transizione energetica e della digitalizzazione, trovano un duplice limite.

Per un verso, l’Europa non dispone di una strategia federale per finanziarli; per l’altro, le politiche nazionali non possono essere attivate in quanto le norme europee in materia di bilancio e di aiuti di Stato limitano la capacità dei Paesi di agire in modo indipendente.

Ma, invece di concludere che è finalmente arrivato il momento di rimuovere questi vincoli, dimostratisi non solo assolutamente inutili ma soprattutto distorsivi e patogeni in quanto hanno colpevolizzato gli Stati focalizzando l’attenzione sui loro bilanci mentre hanno lasciato sbracare i conti internazionali, commerciali e finanziari, Draghi si è lasciato andare alla consueta narrazione: servono nuove regole e più sovranità condivisa.

 

Potenziare l’Ue

L’Unione europea deve avere maggiori poteri: il richiamo alla recente legislazione federale statunitense, al Chips Act e all’Inflation Reduction Act, sarebbe la prova provata della necessità di procedere a interventi massicci, di respiro continentale: i singoli Stati americani, così come quelli europei, non hanno né le dimensioni, né le capacità di affrontare queste sfide.

Invertendo il rapporto tra strumenti e fini, si ripropone il paradigma secondo cui in Europa le crisi sarebbero benefiche in quanto possono essere superate solo attraverso un ampliamento dei poteri della Unione europea: ex malo bonum.

Gli esempi non mancherebbero: nello scorso decennio, la crisi finanziaria che a partire dal 2010 ne ha colpito i Paesi periferici, Irlanda, Grecia, Portogallo, Spagna e Italia, avrebbe avuto come positive conseguenze il pieno controllo sui bilanci pubblici da parte di Bruxelles attraverso il Fiscal Compact che imponeva il pareggio strutturale e la riduzione al ritmo di 1/20 l’anno del debito eccedente il rapporto del 60% tra debito e pil; l’accentramento presso la Bce dei poteri di vigilanza precauzionale sulle banche di rilevanza sistemica; il rafforzamento dei poteri di coordinamento dell’Eba in materie che venivano prima concordate a livello internazionale direttamente tra le Banche centrali nazionali, a Basilea, presso la Bri.

Peccato che una così dura politica fiscale e bancaria, adottata senza distinzioni di sorta in tutto il Continente, abbia avuto conseguenze catastrofiche: non solo l’abbattimento della crescita, ma la tendenza alla deflazione dei prezzi, un pericolo tremendo per le imprese e i debitori, contro cui dalla presidenza del Board della Bce lo stesso Draghi ha dovuto lottare strenuamente e senza molto successo, pur portando i tassi dei rifinanziamenti bancari a zero e addirittura fissandoli a un livello negativo per le detenzioni eccedenti la riserva obbligatoria, erogando prestiti a lungo termine senza limiti predeterminati al sistema bancario (Ltro) e attivando per la prima volta un Qe in euro senza concedersi soste.

I tassi nominali negativi sui titoli pubblici che ne sono conseguiti hanno devastato i conti di investitori e banche.

 

Il ruolo dell’Europa

L’abbattimento della domanda aggregata in Europa ha comportato la necessità di rivolgersi ai mercati esteri: è da allora che la Germania ha puntato sulla Cina, divenuta il suo primo partner commerciale e industriale.

E a chi altri avrebbero dovuto vendere le imprese italiane, se non all’estero, dopo la spaventosa recessione determinata dalla ennesima batosta fiscale decisa dal governo Monti nel 2012, che insieme tagliava strutturalmente la domanda di importazioni e il costo del lavoro?

Un intero Continente, quello europeo, era stato minato per anni dagli squilibri dei conti bancari e finanziari verso l’estero, da quelli dell’Irlanda a quelli della Grecia, a quelli della Spagna, fino all’Italia che ha invece subìto le conseguenze del ritiro immotivato e spaventoso del credito internazionale, motivato dalla necessità di coprire le perdite determinate dai default di altri.

Dopo il biennio di emergenza sanitaria, che è servito a riquotare gli Stati, per attribuire loro un ruolo pastorale e addirittura oblativo verso il popolo, la narrazione corrente individua modelli di crescita sostenibili per il Pianeta deificato, proclamando la necessità della transizione energetica verso fonti rinnovabili e la sostituzione anche del lavoro intellettuale dell’uomo con quello delle macchine informatiche: il post-umanesimo e il trans-umanesimo finalmente convergono.

Ma, pur avendo fatto dell’Europa la terra promessa del sottoproletariato globale, con salari sempre più miseri e le imprese che non hanno alcun motivo per investire, si scopre che neppure gli Stati possono sostenere questo processo: arriverà dunque, salvifica, l’Europa.

 

L’asse Francia-Germania

Ma un sistema di spese derivate non è attuabile quando la leva della finanza si è azzerata, vanificando gli strumenti di compensazione dei vantaggi tra centro e periferia che erano stati elaborati in passato, come i sinking fund: il debito statunitense ha tassi di interesse pressoché appaiati a quelli italiani, mentre i titoli emessi dalla Unione europea servono solo a tenere in piedi l’Esm.

Assai più banalmente, si dovrebbe riconoscere che l’impianto europeo è nato ed è cresciuto finora solo per il convergente interesse di Francia e Germania a determinare un assetto di potere a loro più conveniente: da Maastricht all’espansione a nord-est per incorporare i Paesi ex-comunisti fino alle solitarie passeggiate di Nicolas Sarkozy e Angela Merkel che a Deauville disegnavano i destini del Continente per cercare di riparare i pasticci dell’euro.

Sono appaiate, ancora una volta, Germania e Francia. Se la guerra in Ucraina ha abbattuto il potenziale strategico della prima, i colpi di Stato nelle ex-colonie francesi stanno demolendo quello della seconda: il gas russo a basso costo ha mandato avanti l’economia tedesca come l’uranio nigerino ha trainato quella francese.

Ma è assai improbabile che, in queste condizioni di comune difficoltà, Berlino e Parigi deleghino a Bruxelles anche un briciolo di potere in più: in un’epoca in cui la guerra si è riaffacciata violenta sul suolo europeo, l’idea kantiana della pace universale raggiungibile mediante sempre più strette reti di accordi tra Stati torna utopica.

L’Unione serve loro come sede di negoziazione, per combinare i rispettivi obiettivi: ora, per ottenere quante più deroghe possibili per gli aiuti alle imprese da una parte, in cambio di concessioni sempre più generose e a lungo termine a favore dell’energia nucleare dall’altra.

Un’intesa la troveranno anche stavolta, Francia e Germania: hanno entrambe bisogno di autonomia, di nuove strategie, di spazio. Non hanno alcun interesse a portarsi dietro il baraccone burocratico di Bruxelles, né le sue millanta defatiganti trattative: ognun per sé.

da qui

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