domenica 4 novembre 2012

Ettore Mo, da Haiti


È un sollievo poter confermare che la violenza con cui l'uragano Sandy ha investito nei giorni scorsi (24 e 25 ottobre) l'isola di Haiti è stata meno devastante di quanto annunciato nelle previsioni: resta tuttavia il fatto che l'epidemia di colera scatenata dall'immane terremoto nei Caraibi del gennaio 2010 continua ad imperversare. Oltre 7.000 le vittime entro il febbraio di quest'anno. Un bilancio che rimane approssimativo. I fiumi hanno sfondato gli argini, travolgendo con ondate di fango città e villaggi, dozzine di ponti distrutti, strade interrotte e impraticabili che hanno provocato l'isolamento di intere comunità, specie nella fascia Sud occidentale dell'isola. Particolarmente colpite, dopo la capitale, le città di Les Cayes, Léogâne e Jacmel. Si ritiene che almeno 200.000 persone siano state evacuate e abbiano trovato rifugio e sistemazione provvisoria nei vari centri d'accoglienza, già super affollati.
 Decine di ponti sono crollati e ciò ha reso ancora più ardua la possibilità di muoversi e spostarsi per raggiungere le zone maggiormente colpite e tentare una valutazione dell'entità dei danni. Ormai superano il mezzo milione i casi di epidemia del colera, dovuti in gran parte al fatto che il 31% della popolazione non ha accesso ad una fonte garantita di acqua potabile e vive in condizioni anti igieniche, che favoriscono la diffusione del male. Poiché il batterio del colera si trova nelle feci umane, la scarsità dei bagni chimici nei campi dove vivono migliaia di sfollati costituisce un elemento totalmente negativo. Oxfam, confederazione internazionale, specializzata in progetti di sviluppo e aiuto umanitario, è tra le organizzazioni non governative che ha avvertito la necessità di latrine decenti.
Suo il progetto, già realizzato, di costruirne 2 mila in cima ad una collina dove il fiume La Digue, uscito dagli argini, aveva allagato un villaggio sommergendolo: l'altro fatto positivo è di aver coinvolto la popolazione nei lavori. Raccontando succintamente la vicenda, il sindaco ha assicurato che la gente «avrà cura delle proprie latrine». A Port-au-Prince visito Camp Marassa, dove sono accampate 453 famiglie per un totale di 3.500 persone. Una tendopoli ben ordinata, coi tetti delle tende che luccicano nel sole. Il capo del villaggio è un uomo di 48 anni, sposato con 6 figli, il quale ammette che, nonostante qualche aiuto sporadico (250 dollari, recentemente), la sua gente soffre, perché «non c'è abbastanza per mangiare» e recentemente «due persone sono morte di fame». Tragedia che non sembra coinvolgere per nulla un ragazzino che indossa una maglietta su cui è scritto: Kiss me, I'm half Irish , baciami sono metà irlandese. Un'atmosfera quasi incredibile di normalità se non di allegria cui contribuisce Natasha, 13 anni e fiocchi bianchi nelle treccine nere, che sta pompando acqua nei secchielli da portare a tutti i nonni e nonne del campo. Ci fa da guida Poleg Charls, che ci accompagna a visitare un minuscolo asilo-nido e un piccolo locale dove, due volte a settimana, un medico fa le consultazioni e i controlli, ma i pazienti sono pochi...

2 commenti:

  1. Grazie, finalmente qualcuno che si ricorda che le catastrofi non colpiscono solo New York.

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  2. dice Stanisław J. Lec:

    "La nostra ignoranza raggiunge mondi sempre più lontani"

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