venerdì 4 novembre 2016

Apple – Sfruttamento in cambio di profitti - Aditya Chakrabortty

(The Guardian, Regno Unito, traduzione a cura di Internazionale)

Gli operai cinesi che fabbricano l’iPhone fanno turni massacranti e ricevono salari bassi. Ma la Apple non vuole usare i suoi soldi per migliorare la condizione dei lavoratori
Molto presto leggeremo i primi necrologi del libero scambio, della globalizzazione e della società aperta. Quando si chiederanno perché alcuni paesi ricchi si sono fatti sedurre da politici come Donald Trump e Nigel Farage, i giornalisti dovranno dedicare un ampio capitolo alla Apple, dal momento che la più ricca azienda del mondo è un manuale vivente di come le promesse fatte dopo la caduta del muro di Berlino siano diventate una barzelletta.
Qualunque siano le meraviglie incluse nel nuovo iPhone 7, questo telefono allargherà il fossato tra i super ricchi e tutti gli altri, priverà i paesi di entrate scali legittime e allo stesso tempo opprimerà lavoratori cinesi e sottrarrà agli statunitensi posti di lavoro pagati bene. Arrogante verso i suoi detrattori e i governi, piena di soldi nono- stante sia chiaramente a corto di idee, la Apple è il simbolo elegante di un sistema economico in preda agli eccessi.
Non era previsto che pensassimo niente di tutto questo della Apple. A settembre, presentando il nuovo iPhone, il responsabile del marketing dell’azienda californiana, Phil Schiller, spiegava perché questo modello non ha una presa per gli auricolari: “La risposta è tutta in una parola: coraggio. Il coraggio di andare avanti, di fare qualcosa di nuovo e che ci migliora tutti”. Una simile idiozia da ghetti californiani è stata applaudita da una folla di settemila persone e blandamente presa in giro dalla stampa, ma serve anche a nascondere alcuni degli aspetti meno accettabili della produzione dell’iPhone, in particolare le condizioni in cui questo telefono viene fabbricato.
Se avete un iPhone, sappiate che è stato assemblato dai lavoratori di una di queste tre aziende in Cina: la Foxconn, la Wistron e la Pegatron. La più grande e nota delle tre, la Foxconn, è salita agli onori delle cronache internazionali nel 2010, quando 18 dipendenti cercarono di uccidersi. In quell’occasione morirono almeno 14 operai.
La risposta dell’azienda fu installare delle reti per fermare le persone che cercavano di uccidersi gettandosi nel vuoto. Quell’anno il personale della fabbrica della Foxconn a Longhua produsse 137mila iPhone al giorno, circa novanta al minuto.
Una di questi aspiranti suicidi, Tian Yu, una ragazza che all’epoca aveva 17 anni, si lanciò dal quarto piano del dormitorio di uno stabilimento e finì paralizzata dalla vita in giù. In seguito descrisse le sue con- dizioni di lavoro a dei ricercatori universitari. La sua è una testimonianza notevole: era sostanzialmente una gallina da batteria umana che lavorava dodici ore al giorno per sei giorni alla settimana, alternava i turni diurni a quelli notturni e dormiva in una stanza-dormitorio con altre sette persone.
Dopo gli scandali del 2010 la Apple ha promesso di migliorare le condizioni dei suoi lavoratori in Cina. Da allora ha pubblicato svariati opuscoli patinati in cui illustra gli impegni presi nei loro confronti. Eppure non ci sono prove che l’azienda californiana abbia restituito un solo centesimo dei suoi enormi profitti per garantire un miglior trattamento delle persone che fabbricano i suoi prodotti negli stabilimenti che lavorano per lei.
Nel corso dell’ultimo anno l’ong statunitense China labor watch ha pubblicato una serie d’indagini sulla Pegatron, un’altra azienda che assembla l’iPhone. Un ricercatore dell’ong si è fatto assumere alla catena di montaggio e così ha potuto parlare con decine di dipendenti della Pegatron e analizzare centinaia di buste paga. In questo modo ha scoperto che il personale continua a lavorare dodici ore al giorno per sei giorni alla settimana, e almeno un’ora e mezza alla settimana non è pagata. I lavoratori sono inoltre costretti a fare gli straordinari e ricevono una formazione per la sicurezza decisamente inferiore a quella prevista dalle leggi locali.
Nella catena di montaggio il ricercatore doveva installare una scheda madre dell’iPhone ogni 3,75 secondi e restava in piedi per l’intero turno di dieci ore e mezza. Questo è il ritmo di lavoro che si è costretti a sostenere nelle aziende appaltatrici della Apple per guadagnare un salario decente. Nell’ultimo anno le autorità di Shanghai hanno alzato il salario minimo. La Pegatron ha risposto tagliando i suoi contributi per servizi come l’assicurazione sanitaria, in modo che il costo del lavoro restasse invariato.
Quando le è stato chiesto di rispondere a tutte queste accuse, l’azienda ha di uso un comunicato in cui sostiene di “lavorare duro per fare sì che ogni struttura della Pegatron fornisca un ambiente di lavoro sano. Le insinuazioni che sostengono il contrario sono semplicemente false. Abbiamo preso misure concrete per fare in modo che i di- pendenti non lavorino più di sessanta ore alla settimana e sei giorni su sette”.
Nel 2015 un’ong per i diritti umani danese, la Danwatch, ha fornito prove schiaccianti di studenti trattati come lavoratori forzati alla Wistron, un’altra delle principali ditte appaltatrici della Apple. Alcuni ragazzi iscritti a corsi di contabilità e gestione aziendale sono stati spediti per mesi in una catena di montaggio dell’azienda. Si tratta di una grave violazione della convenzione dell’Organizzazione internazionale del lavoro. I ricercatori della Danwatch hanno dimostrato che migliaia di studenti svolgevano le stesse mansioni e con gli stessi duri orari di lavoro degli adulti, ma a un salario più basso. I ragazzi hanno rivelato all’ong che stavano lavorando contro la loro volontà. “Siamo tutti depressi”, ha detto una ragazza di 19 anni. “Ma non abbiamo avuto scelta, perché la scuola ci ha detto che se avessimo rifiutato non ci saremmo diplomati”. Nonostante le richieste di commentare le accuse, la Wistron non ha risposto.
L’inchiesta non riguardava una fabbrica di iPhone, ma la Apple ha confermato che la Wistron e la Pegatron erano due dei suoi principali assemblatori cinesi. L’azienda californiana non ha voluto prendere una posizione u ciale sulla vicenda, ma il suo addetto stampa mi ha parlato delle ispezioni disposte presso gli impianti dei fornitori. In realtà, per motivi d’opportunità, questi controlli sono quasi sempre super ciali.
Basta guardare al rapporto sulla Foxconn che la Apple ha commissionato nel 2012, dopo i tentativi di suicidio. La Foxconn è il principale datore di lavoro privato cinese, con circa quattrocentomila dipendenti nella sola fabbrica di Longhua. Eppure il rapporto per la Apple, complementare a un’inchiesta già portata avanti dalla Fair labor association, ammette di aver osservato solo tre di queste fabbriche, ognuna per tre giorni. Jenny Chan, una delle principali esperte di abusi sul lavoro in Cina e coautrice del libro di prossima uscita Dying for an iPhone (Morire per un iPhone), la definisce “un’ispezione- paracadute, un modo di fare sì che gli affari vadano avanti come prima”. Un modo molto redditizio, a quanto pare. Mentre chi assembla iPhone per la Pegatron ha visto la sua paga scendere ad appena 1,60 dollari l’ora, la Apple è rimasta l’azienda statunitense che fa più profitti, con 47 miliardi di dollari guadagnati nel 2015.
La filantropia di Cook
Cosa significa tutto questo? Con 231 miliardi di dollari la Apple ha delle riserve di liquidità maggiori di quelle del governo statunitense, ma non ne spende neanche una minima parte per migliorare la condizione di chi effivamente le permette di guadagnare quei soldi. Inoltre la Apple continuerà a non produrre gli iPhone negli Stati Uniti, cosa che le permetterebbe di creare posti di lavoro e continuare comunque a vendere lo smartphone più redditizio del mondo. L’azienda invece accumulerà profitti maggiori, che andranno a chi possiede le sue azioni. Come il capo dell’azienda, Tim Cook, la cui scorta di azioni Apple vale 785 milioni di dollari. Gli amici di Cook parlano della sua filantropia, ma se è vero che è felice di spendere denaro per alcuni progetti mirati, si rifiuta di pagare tasse per 13 miliardi di euro nell’Unione europea, annunciando allo stesso tempo che non riporterà i miliardi della Apple negli Stati Uniti “ finché non ci saranno condizioni eque”. Quest’oligarca tecnologico pensa di sapere meglio di trecento milioni di statunitensi quale tassazione il loro governo regolarmente eletto dovrebbe applicare.
Quando gli storici si chiederanno perché è morta la globalizzazione, scopriranno che buona parte della risposta va cercata in aziende come la Apple. Costretti a scegliere tra un modello economico che ha premiato smisuratamente pochi e un populismo che offre promesse smodate a molti, tra Cook da una parte e Farage dall’altra, gli elettori hanno scelto quello che almeno non parlava continuamente di “coraggio”.
da qui

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