mercoledì 23 novembre 2016

Cari abitanti di Gorino ecco chi avete cercato di cacciare via con la vostra cieca rabbia - Giovanni Maria Bellu

Abidemi in Nigeria faceva la maestra elementare. Ha dovuto smettere quando i terroristi islamici del Boko Haram – quelli che nel 2014 hanno sequestrato più di duecento studentesse, buona parte della quali sono ancora tenute in ostaggio – hanno cominciato a uccidere in modo sistematico i cristiani della sua regione. Le è stato suggerito di scomparire, possibilmente di raggiungere l’Europa. Come la maggior parte delle sue connazionali che intraprendono questo lunghissimo viaggio, ha raggiunto la Libia. Dopo l’arrivo ha creduto di trovare – nella casa di una donna - un rifugio provvisorio per il tempo dell’attesa di un posto su barcone.  Ma, appena accettata l’ospitalità, ha scoperto d’essersi consegnata agli aguzzini.  Le è stato ordinato di prostituirsi. Ha tentato di ribellarsi.

Scritto sulla pelle

Per spiegare quel che le è successo, Abidemi  non ha bisogno di parole. Le basta abbassare il collo del maglione  di lana e scoprire la spalla sinistra. E’ come se la pelle fosse coperta dalla carne di un altro corpo. Una poltiglia scura, gonfia, indurita. Sono le cicatrici delle ustioni causate dall’acqua bollente. Le torture sono andate avanti per giorni: acqua bollente e poi sale sulle piaghe. Finché, grazie all’aiuto di due donne che si sono impietosite e le hanno aperto la porta della prigione, è riuscita a fuggire. Il viaggio sul barcone è cominciato il 19 ottobre dalla costa libica e si  è concluso dopo tre giorni, il 22, in Calabria. A bordo c’erano complessivamente duecento persone, e anche dodici ragazze con storie simili alla sua. Una di loro, Joy, era incinta di sette mesi.

L'odio all'arrivo in Italia

Abidemi ha raccontato la sua storia  al quotidiano “l’Avvenire” che l’ha pubblicata con grande rilievo benché, in fondo, non sia poi storia straordinaria. E’ la stessa di ragazze che fuggono dalla Nigeria e vengono ridotte in schiavitù dai trafficanti. Non è nemmeno una storia nuova. Per trovarne altre, molto simili, è sufficiente andare in una biblioteca ben fornita e chiedere, per esempio, di consultare “Le ragazze di Benin City”, un saggio di Laura Maragnani, Isoke Aikpitanyi pubblicato da Melampo nel 2007. O anche “Il mio nome non è Wendy”, di Paola Monzini e Wendy Uba, uscito lo stesso anno per Laterza. La novità non è la storia della fuga e delle ragioni che l’hanno determinata. La novità è quel che è successo all’arrivo. Abidemi e Joy, infatti, sono due delle dodici donne che il la notte del 24 ottobre (cioè due giorni dopo essere approdate in Italia) furono respinte con le barricate dalla  popolazione di Gorino, il piccolo centro in provincia di Ferrara a cui erano state destinate dalla prefettura. Adesso otto di loro vivono a Ferrara, ospiti di un’associazione cattolica, la Viale K, altre quattro a Codigoro, un altro comune della provincia, e sono seguite dalla cooperativa, la “Airone”. “L’Avvenire” le ha  raggiunte e ha raccolto le loro storia  per offrile ai suoi lettori. E anche agli abitanti di Gorino.

Diritto d'asilo "contro" diritti dei cittadini

Il “pregio”, chiamiamolo così, di questa vicenda è che pone, in modo radicale, il problema del diritto d’asilo  e dell’atteggiamento dei cittadini italiani. Abidemi certamente non è un “migrante economico”. Non è una delle persone che “vengono a rubarci il lavoro”. E’ stata costretta a fuggire per via della sua religione e nel corso del viaggio è stata vittima di torture. Una biografia che impedisce di addurre – per spiegare l’atto ostile del quale è rimasta vittima – i principali tra gli argomenti anti-accoglienza. E che obbliga a rispondere a una domanda semplice e dolorosa: i fondamentali principi umanitari – quelli scritti nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e nella Costituzione – sono condivisi da tutti? L’Italia ha un sistema di accoglienza che ne garantisce l’applicazione?

"Perché proprio da noi?"

Il problema è infatti di sistema. E’ immaginabile che anche quanti hanno issato le barricate – pare essere proprio questa la scommessa dell’Avvenire, quotidiano di ispirazione cattolica – si porranno qualche problema nel sapere che hanno cacciato via persone realmente bisognose di aiuto. E, probabilmente, lo risolveranno domandando: “Sì, vabbene. Ma perché proprio da noi?”. Una domanda che sarà legittima fino a quando non si arriverà a una distribuzione equa dell’impegno umanitario. D’altra parte esistono già, nel sistema Sprar – la rete dei comuni italiani che hanno dato disponibilità a ospitare i richiedenti asilo – dei criteri che consentono di individuare, per esempio, il numero di rifugiati adeguato alla dimensione della città o del paese ospitante. Il problema è che a questa rete aderisce solo il dieci per cento dei comuni italiani. E che, quindi, manca la “base di calcolo” che consenta di arrivare a una distribuzione equa. E’, in scala nazionale, lo stesso problema che si pone a livello europeo. E che non si è riusciti ancora a risolvere.

Spiegare le cose ai cittadini

Il fatto è che il problema dell’equa ripartizione dell’impegno a sostegno dei rifugiati non può essere risolto attraverso atti di imperio, come appunto dimostrano il caso di Gorino a altre analoghe vicende avvenute un po’ in tutte le parti d’Italia. E’ anche necessario far conoscere ai cittadini l’antefatto. Spiegare bene che i richiedenti asilo sono persone che hanno realmente bisogno di aiuto e che sono arrivate da noi perché l’unica alternativa era rischiare di essere uccisi o incarcerati. Chiarire con i fatti (quindi con la buona amministrazione e con il welfare) che l’atto di ospitare non toglie nulla, ma eventualmente può dare qualcosa. E, in definitiva, consentire ai cittadini di affrontare l’incontro con gli ospiti in modo sereno, senza avvertirli come concorrenti o come invasori. E’ anche necessario, ovviamente, rassicurarli sul fatto che esistono filtri e controlli che consentono di individuare gli impostori.

Basta con le giustificazioni

E’ un processo molto lungo. E mai si arriverà all’individuazione di criteri perfetti. Per questa ragione il carattere sistemico del problema non può essere un alibi per giustificare il rifiuto aprioristico, spesso alimentato da organizzazioni politiche che lucrano voti sull'odio, dell’accoglienza. Storie come quella di Abidemi sono segnate dall'emergenza e dall'urgenza. Bisogna trovare subito una sistemazione. E può accadere di non individuare il luogo adatto. Cioè un comune dove la cittadinanza sia preparata e informata. Quando avviene è ogni singolo cittadino, facendo i conti con la sua coscienza, a dover decidere su come regolarsi. Se fare le barricate o se, invece, affrontare la situazione con un atteggiamento responsabile.  Abidemi in fondo obbliga quanti l’hanno cacciata a mettere in relazione il loro disagio personale con la più grave sciagura umanitaria del nostro tempo.



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