lunedì 20 giugno 2022

Olocausto e memorie anticoloniali - Enzo Traverso

Comprendere un genocidio significa anche desacralizzarlo e confrontarlo con altre forme di violenza di massa. Per contestualizzare il nazismo bisogna coglierne l'eredità materiale e culturale col colonialismo

Una nuova «disputa tra storici» (Historikerstreit) sull’Olocausto sta scuotendo la Germania. La prima si era svolta oltre trentacinque anni fa, durante la Guerra fredda, quando il paese era ancora diviso e molti avevano un’esperienza diretta del nazismo e della Seconda guerra mondiale. Contro lo storico neoconservatore Ernst Nolte, che deplorava il fatto che la Germania rimanesse prigioniera di «un passato che non passa», Jürgen Habermas voleva fare la memoria dell’Olocausto un pilastro della coscienza storica tedesca.

L’interpretazione apologetica di Auschwitz come semplice «copia» del Gulag – secondo Nolte i crimini bolscevichi erano il «prius logico e fattuale» del totalitarismo moderno e quelli nazisti la reazione di un paese minacciato – aveva indubbiamente un significato politico durante la Guerra fredda. Nel ventunesimo secolo, però, è diventata largamente superflua anche per i neoconservatori. La Germania appartiene all’Occidente non più come avamposto geopolitico di un mondo bipolare, ma come uno dei suoi attori chiave, soprattutto come motore dell’Unione europea.

Nato dopo un lungo, complesso e tormentato processo di «elaborazione del passato», il Memoriale dell’Olocausto che sorge oggi nel cuore di Berlino offre una prova tangibile di come il nazismo sia diventato parte integrante dell’autorappresentazione storica tedesca. Tuttavia, serve anche ad altri scopi. A conclusione di un lungo processo di «superamento del passato» (Vergangenheitsbewältigung), la Germania è finalmente attrezzata per assumere la guida dell’Ue: al di là della sua egemonia economica, ha le carte in regola anche dal punto di vista dei diritti umani. La memoria dell’Olocausto non rappresenta più, come forse accadeva ai tempi di Nolte, l’incessante e impossibile elaborazione del lutto da parte di un paese che affronta un passato doloroso. Oggi è diventata il segno distintivo di una nuova normatività politica: società di mercato, democrazia liberale e difesa (selettiva) dei diritti umani.

Il nuovo Historikerstreit mette in discussione questo paesaggio culturale e politico. In un’era globale, questa seconda «disputa tra storici» trascende i confini tedeschi. Il suo iniziatore,Dirk Moses, è uno studioso australiano che ha acquisito fama internazionale nella germanistica e negli studi postcoloniali, in particolare affrontando la storia e la teoria del genocidio. Professore di una prestigiosa istituzione accademica statunitense, l’Università del North Carolina, Moses non può essere ignorato, come di solito accade con gli studiosi del Sud del mondo. Egli non esita a parlare di un nuovo «catechismo tedesco» basato sul dogma dell’«unicità» dell’Olocausto. Una volta sacralizzato, l’Olocausto sfugge a ogni comparazione e il suo confronto con i genocidi coloniali diventa una forma insidiosa di antisemitismo (così banalizzando i genocidi coloniali come «ordinari», genocidi di seconda classe). Ironia della sorte, il Frankfurter Allgemeine Zeitung – il quotidiano che negli anni Ottanta difendeva le posizioni di Nolte – è diventato oggi uno dei più tenaci denigratori di Moses e dei critici del “catechismo tedesco”, descritti come «revisionisti» e negazionisti della singolarità dell’Olocausto.

Il tempo della colpa è finito; il lutto è stato sostituito dalla caccia ossessiva alle cospirazioni antisemite. Le fatwa di questo nuovo conformismo tedesco hanno colpito molte figure, da filosofi come Judith Butler e Achille Mbembe (uno studioso del Sudafrica che ha osato paragonare Gaza e la Cisgiordania palestinese all’apartheid), a storici come Michael Rothberg e Jürgen Zimmerer. Non risparmiano nemmeno i dirigenti di grandi istituzioni pubbliche, come il direttore del Museo ebraico di Berlino, costretto a dimettersi per aver invitato personalità che osavano criticare la politica israeliana. Il fulcro del dibattito, ancora una volta, è il comparativismo storico e i suoi usi politici.

Sui confronti storici

Il comparativismo è una pratica consueta per gli storici. Ma gli studiosi non confrontano idee, eventi ed esperienze per stabilire omologie; piuttosto, rilevano somiglianze e analogie, che alla fine ci aiutano a riconoscere le peculiarità storiche. Come le guerre e le rivoluzioni, i genocidi si ripetono e allo stesso tempo innovano, unendo tendenze prevedibili a risultati inaspettati. Ogni genocidio possiede una sua «unicità» che il lavoro di comparazione aiuta a riconoscere. In breve, il comparativismo è una dimensione epistemologica necessaria della ricerca storica; il suo scopo è la comprensione critica.

Il comparativismo storico, tuttavia, non è un procedimento intellettuale «neutrale» e innocente, in quanto partecipa alla costruzione di memorie collettive. Dire che Auschwitz sia una «copia» del Gulag (fatta eccezione per une procedura «tecnica» come l’uso del gas, secondo Nolte) suggerisce ovviamente che i «cattivi» della storia siano i bolscevichi. In base a questa narrazione, i nazisti diventano semplici epigoni: sono stati corrotti dagli originali e autentici inventori del male totalitario.

Agli italiani piace l’idea dell’«unicità» dei crimini nazisti: questo significa che il fascismo non era poi così male, e l’Italia preferisce chiaramente commemorare le vittime dell’Olocausto anziché quelle del proprio genocidio in Etiopia. Per ucraini e tutsi, paragonare l’Holodomor ad Auschwitz e parlare di un «nazismo tropicale» non significa sminuire l’Olocausto, ma riconoscere le proprie vittime. Gli spagnoli che hanno riesumato i cadaveri dei loro antenati repubblicani oggi parlano di un olocausto franchista, mentre i neoconservatori e gli studiosi «revisionisti» preferiscono descrivere la Repubblica come un «cavallo di Troia» del bolscevismo e Franco come un patriota che, pur disprezzando la democrazia, alla fine salvò la Spagna dal totalitarismo.

La conquista francese dell’Algeria è tuttora oggetto di un conflitto diplomatico-memoriale tra i due paesi. Nel 2005, il parlamento francese ha promulgato due leggi “dichiarative”: la prima riconosce il genocidio degli armeni perpetrato dall’impero ottomano durante la Prima guerra mondiale, la seconda gli «effetti benefici» (bienfaits) della colonizzazione francese in Africa, in Asia e nelle Antille. Anche l’osservatore più ingenuo non potrebbe negare la dimensione politica della memoria, che può gravare come un fardello la coscienza storica di una nazione o alleviare una comunità ferita: gli stati sono responsabili del proprio passato. Per fare due esempi ben noti, l’atto simbolico di Willy Brandt in ginocchio davanti al memoriale del ghetto di Varsavia e l’ammissione da parte di Jacques Chirac della colpevolezza della Francia nella deportazione degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale hanno fortemente contribuito a creare una nuova responsabilità politica nella rappresentazione del passato.

Molto spesso, il comparativismo rivela complessi intrecci storici. Questo vale per molti eventi sincronici: i crimini di Stalin non giustificano o banalizzano i crimini di Hitler, e viceversa, ma senza dubbio stalinismo e nazismo hanno profondamente interagito e si sono influenzati a vicenda, creando una spirale di radicalizzazione che ha portato allo scontro apocalittico della Seconda guerra mondiale. Un simile intreccio, anche se non sincronico, lega la violenza nazista alla storia del colonialismo europeo e tedesco. Gli studi sull’Olocausto hanno tendenzialmente ignorato questo nesso genetico: il colonialismo è praticamente inesistente nelle opere sul nazismo di storici di spicco come George L. Mosse, Raul Hilberg, Hans Mommsen, Martin Broszat o Saul Friedländer, o anche in quelli di una generazione successiva incarnati da illustri studiosi come Götz Aly, Omer Bartov, Christian Gerlach e Peter Longerich. Per la maggior parte di loro, il colonialismo è una «metafora» (Friedländer) apparsa di sfuggita nel 1940, prima dell’Olocausto, quando, dopo la capitolazione della Francia, i nazisti discussero brevemente del piano di deportazione degli ebrei europei in Madagascar.

Eppure, l’intreccio tra nazismo e colonialismo è stato studiato da diversi storici contemporanei, da Arno J. Mayer a Mark Mazower, che hanno sottolineato la dimensione imperiale della politica nazista. Questo nesso era già stato suggerito da vari studiosi. Scrivendo nel 1942, Karl Korsch osservava che la Germania di Hitler aveva «esteso ai popoli europei civilizzati i metodi fino ad allora riservati ai ‘nativi’ o ai ‘selvaggi’ che vivevano al di fuori della cosiddetta civiltà». In Le origini del totalitarismo (1951), Hannah Arendt ha colto una premessa del nazismo nei «massacri amministrativi» messi in atto dai governanti britannici in Africa e in India. Una volta sperimentato nel mondo coloniale questo fatidico legame tra violenza di stato e razionalità manageriale, ha sottolineato Arendt, «il palcoscenico sembrava essere pronto per tutti i possibili orrori».

Durante la guerra, Franz Neumann, un politologo ebreo tedesco esiliato negli Stati uniti, e Raphael Lemkin, il giurusta ebreo polacco che ha forgiato il concetto di genocidio, hanno sottolineato le affinità tra l’antisemitismo moderno e il razzismo coloniale. Il razzismo coloniale aveva ispirato Wilhelm Marr, il saggista che coniò il lemma «antisemitismo» alla fine degli anni Settanta dell’Ottocento. Diversi storici mettono l’accento sull’ammirazione di Hitler per l’Impero britannico e, più recentemente, lo studioso di diritto di Yale James Q. Whitman ha analizzato attentamente l’influenza del razzismo americano sull’ideologia e sulla politica nazista. Le leggi segregazioniste nel sud americano dopo la guerra civile hanno ispirato le leggi di Norimberga del 1935 nella definizione dei concetti di razza e cittadinanza; nella distinzione tra cittadini di «razza pura» (bianchi, ariani), gruppi razzialmente inferiori (neri) e «bastardi» (Mischlinge); e nell’interdizione e punizione dei rapporti sessuali tra individui di razza diversa. I nazisti deploravano che le leggi di Jim Crow non fossero estese agli ebrei, ma ciò non diminuiva la loro ammirazione per gli Stati uniti, la cui ostilità verso la Germania nazista essi spiegavano grazie all’influenza dannosa delle élite ebraiche sull’amministrazione di Roosevelt. Apprezzavano la flessibilità del sistema giuridico statunitense, che era in grado di fondere due tendenze contraddittorie: un ordine suprematista bianco e un ordine trasformativo egualitario; il «realismo» delle leggi segregazioniste e il «formalismo» dell’uguaglianza costituzionale. Per i nazisti, ciò significava che le gerarchie razziali dovevano essere combinate con «l’uguaglianza» all’interno della Volksgemeinschaft tedesca.

Radici coloniali

La violenza nazista è incomprensibile senza l’eredità materiale e culturale del colonialismo. Le guerre coloniali del diciannovesimo secolo furono concepite come guerre di conquista e di sterminio, condotte non contro degli stati sovrani ma contro le stesse popolazioni. Il nazismo ha largamente fatto propria la biopolitica del colonialismo, che usava le carestie come strumenti di controllo e sottomissione delle popolazioni indigene (in particolare in India, come sottolineato da Mike Davis in Olocausti tardovittoriani). Anche un’analisi superficiale del lessico nazista ne rivela la filiazione coloniale: «spazio vitale» (Lebensraum), popoli «in declino» e «moribondi» (untergehendersterbender Völker), «sub-umanità» (Untermenschentum), «razza padrona» ( Herren Rasse), e infine «annientamento» (Vernichtung). Queste erano le parole del colonialismo tedesco.

Come suggerisce Mayer in Soluzione finale. Lo sterminio degli ebrei nella storia europea (1988), la visione del mondo nazista era sincretica e si concentrava su tre obiettivi indissociabili: anticomunismo, colonialismo e antisemitismo. Il primo era ideologico e filosofico: il marxismo, la forma più radicale di illuminismo, doveva essere distrutto. Il secondo era geopolitico: la conquista dello «spazio vitale» tedesco era una variante del pangermanesimo ereditato dal nazionalismo völkisch. Dopo la perdita delle colonie africane sancita dal trattato di Versailles, Hitler localizzava il lebensraum tedesco nell’Europa orientale, un mondo slavo organizzato come uno stato comunista. Il terzo era culturale: annientare gli ebrei come nemici interni della germanità e «cervello» dell’Urss.

Durante la guerra, queste tre dimensioni del nazismo si fusero dando vita a un unico processo: la distruzione dell’Urss, la colonizzazione dell’Europa centrale e orientale e lo sterminio degli ebrei divennero obiettivi inseparabili. Per l’ideologia nazista, l’Urss riuniva due forme di alterità che avevano plasmato la storia occidentale per due secoli: l’ebreo e il suddito coloniale. La politica di Hitler sintetizzava queste dicotomie culturali, geopolitiche e ideologiche: tedeschi contro ebrei; Europa contro «Asia» (Russia); e nazismo contro bolscevismo.

Nel concepire e attuare questa politica di conquista e sterminio, i nazisti non solo guardarono al colonialismo britannico ed europeo come paradigmi edificanti, ma anche alla stessa storia tedesca. Nel 1904, la repressione della rivolta degli Herero in Namibia, allora colonia tedesca, si trasformò in genocidio. Il generale Lothar von Trotha emise un ordine di annientamento (Vernichtungsbefehl) e la propaganda tedesca presentò questa campagna di sterminio come una guerra razziale. Dopo la Prima guerra mondiale, la Germania perse le sue colonie e trasferì le sue ambizioni espansionistiche dalla Mittelafrika alla Mitteleuropa. Diversi leader nazisti sono venuti da questa esperienza africana.

Secondo lo storico Timothy Snyder, l’Olocausto divenne una sorta di surrogato delle fallite ambizioni coloniali della Germania nazista. Nell’estate del 1941, i nazisti avevano «quattro utopie: una vittoria lampo che avrebbe distrutto l’Unione sovietica in poche settimane; una carestia pianificata che avrebbe fatto morire di fame trenta milioni di persone in pochi mesi; una soluzione finale che avrebbe portato all’estinzione gli ebrei europei dopo la guerra; e un Generalplan Ost che avrebbe fatto dell’Unione sovietica occidentale una colonia tedesca. Sei mesi dopo il lancio dell’operazione Barbarossa, Hitler aveva riformulato gli obiettivi della guerra in modo tale che lo sterminio fisico degli ebrei diventasse la priorità». Essendo impossibile la loro deportazione fuori dall’Europa, gli ebrei furono annientati.

Aimé Césaire e Frantz Fanon non erano storici, ma la loro visione dei crimini nazisti come un «contraccolpo» (choc en retour) era un avvertimento utile e giustificato in un periodo di amnesia collettiva. Per Césaire, il nazismo «applicava all’Europa procedure colonialiste che fino ad allora erano state riservate esclusivamente agli arabi d’Algeria, ai coolie dell’India e ai neri d’Africa». Secondo Frantz Fanon, che scrisse I dannati della terra (1961) durante la guerra d’Algeria, il fascismo non poteva essere dissociato dal colonialismo: «Cos’è il fascismo se non il colonialismo messo in atto in un paese tradizionalmente colonialista?». Il loro approccio, che rischia di equiparare grossolanamente l’Olocausto al colonialismo, è discutibile, ma contiene un’intuizione fruttuosa. Il loro ammonimento è stato purtroppo ignorato dalla maggior parte degli storici, che non hanno colto il cruciale legame genetico tra i crimini nazisti e il passato imperiale dell’Europa.

Sebbene dimostrino la sua genealogia imperiale e coloniale, queste caratteristiche dell’Olocausto non fissano alcuna equivalenza. La violenza di massa non è una categoria monolitica in cui esperienze tempi e spazi diversi diventano identici. Se l’Olocausto possedeva indubbiamente una dimensione coloniale, ciò non spiega la deportazione ad Auschwitz degli ebrei francesi, italiani, belgi, olandesi, ungheresi o greci. La loro eliminazione sistematica non era certo determinante per conquistare il lebensraum: era legata alla storia peculiare dell’ideologia völkisch e dell’antisemitismo.

Questo significa che l’Olocausto, a differenza di altri genocidi, è stato uno sterminio «ontologico», come sostiene George Steiner? Tutti i genocidi sono «ontologici», anche se la conquista di un continente non può essere pianificata come la distruzione di una minoranza. Altrimenti, si dovrebbe concludere che la colonizzazione spagnola dell’America fu un genocidio minore perché i conquistadores non ne sterminarono l’intera popolazione. Gli ebrei annientati dai nazisti – è penoso dover ripetere una tale ovvietà – meritano esattamente la stessa compassione e riconoscimento degli armeni distrutti nell’impero ottomano sull’orlo del collasso, dei cittadini sovietici morti nei gulag, dei contadini ucraini scomparsi durante l’Holodomor, dei congolesi uccisi nelle piantagioni di caucciù di Leopoldo II, degli algerini bruciati nei loro villaggi dagli eserciti francesi, degli etiopi gasati dagli aerei italiani, dei desaparecidos delle dittature militari argentina e cilena, e così via in un elenco interminabile di moderne atrocità.

La violenza di massa è una raccolta di eventi correlati, simili, comparabili, ma anche singolari. Ciò non implica alcuna gerarchia delle vittime, ma queste differenze sono rilevanti per la comprensione critica. Tutti i genocidi sono «cesure di civiltà» (Zivilisationsbruch), anche quando derivano da circostanze storiche molto diverse, talvolta dalle potenzialità distruttive della civiltà stessa, e di conseguenza la loro percezione e il loro lascito non possono essere gli stessi ovunque.

C’è un’assoluta unicità dei genocidi – tra questi l’Olocausto – che è incarnata dalle loro vittime. Nessuno sforzo di empatia o intuizione può cogliere completamente la loro sofferenza. Gli storici dovrebbero rispettare la singolarità di questa esperienza vissuta non trasmissibile, ma non possono farsene i custodi o gli avvocati. Questa unicità è soggettiva e la comprensione storica consiste nel contestualizzarla e trascenderla, anche attraverso il suo confronto con altre forme di violenza, non nel sacralizzarla.

La memoria dei sopravvissuti – ecco cosa intendeva Primo Levi parlando della non esistenza di un «testimone integrale» – non è che un frammento di un evento con una grande varietà di forme e cause. L’Olocausto aveva almeno quattro dimensioni fenomenologiche principali: i ghetti, le esecuzioni di massa, i campi di sterminio e le marce della morte tra la fine del 1944 e l’inizio del 1945. I ricordi individuali non possono abbracciare una tale complessità; la storia è fatta di singolarità relative, né assolute né incomparabili.

Ma torniamo al nuovo Historikestreit. Moses sostiene che la chiave per comprendere il genocidio sta nell’ossessione degli stati moderni per la «sicurezza permanente», un nuovo concetto che sfida il consueto primato dei criteri etnici e razziali, e rifiuta di distinguere l’Olocausto e i genocidi coloniali. Il dibattito storiografico suscitato da questo concetto è ovviamente legittimo. Altrettanto legittima è l’interpretazione della genealogia della nozione di genocidio, considerando il passato sionista (recentemente scoperto) di Raphael Lemkin, il suo inventore. Il concetto di genocidio, sostiene Moses, non fu il risultato di un processo cumulativo di ricerca e conoscenza sulla storia della violenza di massa. Fu piuttosto un prodotto di circostanze «contingenti» durante la Seconda guerra mondiale. Nell’ambito di una cultura giudiziaria abituata a valutare i crimini contro le nazioni (cioè le comunità riconosciute dal diritto internazionale), questo nuovo concetto focalizzato sul genos (la razza e il ceppo etnico) era utile per riconoscere lo sterminio degli ebrei. Qualunque siano le sue origini, questo concetto ha informato decenni di studi e ricerche storiche. Moses, inoltre, non è il primo studioso a sollevare dubbi sulla pertinenza di questa categoria giuridica per l’analisi storica, il cui scopo non è definire colpa e innocenza, carnefici e vittime, ma contestualizzare e spiegare.

Questo dibattito è di per sé politico oltre che puramente storiografico. Il concetto di «unicità» dell’Olocausto è brandito come uno slogan da studiosi diversi come Götz Aly, autore di vari lavori tesi a dimostrare la razionalità economica dello sterminio degli ebrei, e Yehuda Bauer, secondo il quale l’Olocausto differisce da qualsiasi altro genocidio nella storia proprio per la sua mancanza di motivazioni economiche.

Dietro le argomentazioni storiche, tuttavia, entra in gioco la memoria: la tesi dell’«unicità» riunisce una generazione di studiosi tedeschi che alcuni decenni fa ha cercato di «fare i conti con il passato» e intellettuali sionisti che da tempo difendono una visione ebreo-centrica della storia. È il caso di Omer Bartov, che accomuna Nolte e Moses come rappresentanti di forme simmetriche di «revisionismo» storico: il primo scagionando i tedeschi come vittime del bolscevismo, equiparate così agli ebrei, il secondo riconoscendo lo status di vittime ai popoli colonizzati, posti quindi accanto agli ebrei. Entrambi metterebbero in discussione il carattere esclusivamente ebraico dello statuto di vittime.

Per alcuni aspetti, questa definizione di «unicità» – la gerarchizzazione delle vittime – è diventata la posizione ufficiale dello stato tedesco. Negoziando le scuse con la Namibia, senza riconoscere le associazioni delle minoranze Nama ed Herero di quel paese, la Germania banalizza il suo passato coloniale (e le sue vittime) facendone oggetto della ragion di Stato, non della memoria collettiva. L’Olocausto è «unico» e merita di essere espiato; lo sterminio degli Herero e dei Nama è un genocidio coloniale «ordinario» per il quale bastano le scuse e un risarcimento onnicomprensivo, negoziato con la Namibia senza ascoltare i rappresentanti delle vittime.

Memoria anticoloniale

Per quasi tre decenni dopo il 1945, periodo in cui i governi non creavano musei e memoriali dell’Olocausto, in cui sia i sopravvissuti che i loro persecutori erano ancora numerosi e attivi, le commemorazioni dello sterminio degli ebrei europei non ne sottolineavano l’«unicità». L’Olocausto era quasi indistinguibile dal ricordo della Resistenza e alimentò potentemente l’anticolonialismo. La conoscenza storica dell’Olocausto era ancora incompleta e approssimativa – gli storici non distinguevano ancora tra campi di concentramento e campi di sterminio – ma la sua eredità e il significato politico erano evidenti, in particolare per la sinistra.

In Francia, durante la guerra d’Algeria, molti ex partigiani, tra cui numerosi ebrei, vedevano nel loro sostegno al Fronte di Liberazione Nazionale (Fln) un proseguimento dell’impegno antifascista. Certamente non si sarebbero opposti all’assimilazione del nazismo al colonialismo da parte di Césaire e Fanon. Jakob Moneta – un ebreo tedesco che aveva vissuto i pogrom in Polonia da bambino, alla fine della Prima guerra mondiale, ed era sopravvissuto all’Olocausto emigrando in Palestina – ha svolto un ruolo significativo, beneficiando della sua immunità diplomatica come funzionario dell’ambasciata tedesca a Parigi, nel fornire sostegno materiale e finanziario al Fln.

La continuità tra l’antifascismo, la lotta contro l’antisemitismo e l’anticolonialismo era altrettanto evidente per Wolfgang Abendroth, Günther Anders, Lelio Basso, Simone de Beauvoir, Isaac Deutscher, Jean-Paul Sartre, Ralph Schoenman, Gisèle Halimi e altri intellettuali che parteciparono al Tribunale Russell contro la guerra del Vietnam. Dopo il massacro di My Lai, Anders, ebreo tedesco, raccomandò di tenere una seduta del tribunale ad Auschwitz, proprio per sottolineare la continuità tra i crimini nazisti e quelli statunitensi in Vietnam, entrambi ascritti all’imperialismo. Nel 1967, Jean Améry (Hans Mayer), un sopravvissuto ad Auschwitz, raccolse diversi testi dedicati all’Olocausto in At the Mind’s Limits, un capitolo nel quale si concentra sulla tortura. Prima di essere deportato perché ebreo, Améry era stato torturato come combattente della Resistenza in Belgio. Dopo aver trascorso un anno accanto alle camere a gas di Auschwitz, egli descriveva la tortura non come una «qualità accidentale del Terzo Reich» ma piuttosto come la sua «essenza». Secondo Améry, la tortura era «l’apoteosi del nazionalsocialismo»: «Fu proprio nella tortura che il Terzo Reich si materializzò in tutta la densità del suo essere».

Come spiegare questa paradossale valutazione di un reduce di Auschwitz? La tortura è stata universalmente usata da tutti i regimi politici, dalle dittature militari alle democrazie (si pensi ad Abu Ghraib), mentre l’Olocausto è un genocidio. Il testo di Améry è solitamente interpretato come una meditazione intempestiva sulla violenza, ma dovrebbe essere inserito nel dibattito francese sulla tortura durante la guerra d’Algeria, suscitato da La Question di Henri Alleg nel 1958. Améry rivisitava l’Olocausto attraverso il prisma del colonialismo. L’ermeneutica storica mostrata nel suo testo è discutibile, ma il suo obiettivo politico era perfettamente chiaro. Améry non cercava di erigere un monumento alla memoria dei sopravvissuti, ma di attivarne la forza critica.

Per Améry era chiaro che testimoniare l’Olocausto significava lottare contro l’oppressione nel presente, non circondare un trauma vissuto con un’aura mistica di sacralità. Non era ingenuo. Sentiva che la tendenza della Nuova Sinistra tedesca a parlare di fascismo piuttosto che di nazismo (in un’epoca in cui così tanti ex nazisti non solo erano ancora vivi ma significativamente inseriti negli apparati amministrativi della Germania occidentale) era sospetta, così come la sua insistenza nel parlare dell’antisionismo ignorando l’antisemitismo. Per la Nuova Sinistra tedesca, l’Olocausto fu rimosso più che assimilato o trasceso. Améry scrisse un articolo per konkret, la rivista culturale più importante della Nuova Sinistra, per sottolineare queste ambiguità. Quando l’Olocausto arrivò al centro della scena negli anni Ottanta, prima con una serie televisiva americana piuttosto mediocre, Holocaust, poi con l’Historikerstreit, la Nuova Sinistra rimase completamente emarginata e molte figure di spicco l’abbandonarono. Quello che Moses chiama il «catechismo tedesco», con la sua ossessione per l’unicità, il suo rifiuto del comparativismo, il suo sionismo ostentato e la sua propensione a considerare gli studi postcoloniali come una forma di antisemitismo, potrebbe essere visto come una sorta di contraccolpo: questa attenzione iperbolica all’«unicità» dell’Olocausto è il rovesciamento simmetrico e la compensazione tardiva di una lunga repressione, ora vista come un silenzio colpevole.

Religione civile

Per certi aspetti, quello che Moses chiama il «catechismo tedesco» è la forma perversa di una religione civile. L’Olocausto come «religione civile» possiede incontestabilmente le sue virtù, sacralizzando valori come democrazia, libertà, pluralismo, tolleranza e rispetto per l’alterità razziale, etnica o sessuale attraverso commemorazioni ritualizzate. Il «catechismo tedesco», tuttavia, sacralizza sia lo statuto ebraico delle vittime che la colpa tedesca separandoli dalla storia del nazionalismo, del razzismo, del fascismo e del colonialismo. Invece di considerare l’Olocausto come un monito contro le attuali forme di razzismo e xenofobia, celebra l’alleanza indistruttibile tra la Germania e Israele.

In tempi di crescente islamofobia e rifiuto xenofobo di immigrati e rifugiati, questa memoria settaria e miope può facilmente diventare un comodo alibi per il postfascismo. Da Matteo Salvini a Marine Le Pen, da Éric Zemmour a Viktor Orbán, tutti i leader populisti di destra europei sfoggiano ottimi rapporti con Israele per dimostrare la loro irreprensibilità in materia di diritti umani. Un paio di anni fa Salvini organizzò, nella stessa settimana, un raid anti-immigrati nella periferia romana e, al Senato italiano, un simposio sull’Olocausto con la partecipazione dell’ambasciatore israeliano. In Germania, sottolinea Moses, il «catechismo» federa un ampio spettro politico che va dagli Antideutsche (una sinistra radicale patologicamente germanofoba e ipersionista) a un partito postfascista come Alternative für Deutschland, dai più intransigenti detrattori della colpa tedesca agli epigoni nostalgici della nazionalismo tedesco.

La maggior parte dei neoconservatori contemporanei ha abbandonato l’antisemitismo. Considerare gli ebrei estranei all’Europa – dicono – è stato l’errore fatale dei loro antenati, i seguaci del nazionalismo völkisch. La Germania ha chiarito questo imperdonabile malinteso e si è pentita dei suoi crimini offrendo una dimora agli ebrei, finalmente riconosciuti come parte costitutiva della civiltà occidentale. Ora gli ebrei sono stati accettati e l’Europa deve proteggersi dai suoi veri nemici: l’Islam e il terrorismo islamico. Immigrati e rifugiati, a differenza degli ebrei, incarnano una cultura, una religione e uno stile di vita sostanzialmente incompatibili con l’Occidente (e la civiltà ebraico-cristiana); sono un vettore privilegiato del fondamentalismo islamico e del terrorismo.

Il filo-semitismo neoconservatore e il sostegno a Israele vanno di pari passo con l’islamofobia, spesso esibita sotto la bandiera dei diritti umani (la difesa dei valori occidentali contro l’oscurantismo islamico). La caratteristica comune di tutte queste correnti neoconservatrici e postfasciste che hanno abbandonato l’antisemitismo è il loro odio per gli immigrati e il loro rifiuto dell’Islam. I politici della Repubblica federale tedesca che difendono il dogma dell’«unicità» dell’Olocausto non si preoccupano di tutto questo.

Per certi aspetti, il «catechismo tedesco» mostra le ambiguità della vigorosa battaglia politico-memoriale che Habermas combatté all’epoca del primo Historikerstreit. Difendendo l’idea di un’identità tedesca post-nazionale – Hitler aveva irrimediabilmente screditato l’intera tradizione del nazionalismo tedesco – Habermas sottolineava il carattere redentore della memoria dell’Olocausto: è solo «dopo e attraverso (nach und durch) Auschwitz», scriveva, che la Germania si era finalmente «unita all’Occidente».

Le implicazioni di questo orientamento andavano al di là dell’affermazione di un «patriottismo costituzionale» chiaramente radicato nella tradizione liberale e occidentalista. Da un lato, Habermas ammetteva la colpa con una voce alta et forte come nessun tedesco aveva mai fatto in precedenza (ad eccezione di Karl Jaspers, rapidamente isolato nel 1946). Dall’altro, offuscava completamente ogni vincolo genetivo tra l’Olocausto e il colonialismo. In questo modo, l’Olocausto è diventato la deviazione patologica da un percorso occidentale lineare; certamente non, in quanto colonialismo, un prodotto della stessa civiltà occidentale. Trentacinque anni dopo l’Historikerstreit, lo Stato tedesco ha sostituito l’antisemitismo «redentore» nazista (Friedländer) con una sorta di filo-semitismo «redentore», che significa non la lotta contro il razzismo, ma la sicurezza israeliana iscritta nella legge.

Nel 2015, al culmine della crisi dei rifugiati, Angela Merkel dichiarò solennemente che, visto il suo passato, la Germania non poteva sottrarsi al dovere morale di accoglierli. Ora, una nuova ondata di nazionalismo tedesco considera i rifugiati e gli immigrati non europei (spesso opposti ai rifugiati ucraini) come dei barbari. Per molti aspetti, Moses ha ragione nel sottolineare che la Germania è ancora ossessionata dalla «questione ebraica». Nel diciannovesimo secolo, l’antisemitismo era un «codice culturale» nel processo di costruzione della nazione all’epoca del Kaiserreich. In mancanza di miti positivi – la Riforma sfociò nelle guerre di religione e il liberalismo fallì nel 1848 – la Germania forgiò negativamente la propria autorappresentazione attraverso l’antisemitismo: essere tedeschi significava soprattutto non essere ebrei; la germanità era l’antitesi dell’ebraicità. Oggi il filo-semitismo è diventato il «codice culturale» di una Germania riunificata, post-nazionale, che considera gli ebrei come amici speciali e la difesa di Israele come un dovere morale. Stigmatizzati (in passato) o sacralizzati (oggi), gli ebrei rimangono un indicatore simbolico attraverso il quale una comunità nazionale cerca di definire sé stessa, le sue virtù e la sua identità.

Nonostante le ambiguità sopra menzionate, l’impegno di Habermas durante l’Historikerstreit ha avuto indubbie conseguenze fruttuose. La sua battaglia per fare dell’Olocausto un pilastro della coscienza storica tedesca sfociò, un decennio e mezzo dopo, in una nuova legge sulla cittadinanza che istituisce lo jus soli accanto allo jus sanguinis. Essere cittadino tedesco non significa più appartenere a un gruppo etnico di Stammgenosse («fratelli dello stesso ceppo»), ma essere membro di una comunità politica, condividendo gli stessi doveri e diritti di tutti gli altri membri, senza riguardo per le origini etniche di ciascuno. Questo è stato un riconoscimento postumo per milioni di ebrei tedeschi che, per decenni, erano stati visti come estranei nel loro stesso paese.

Oggi la Germania è diventata una nazione multietnica, multiconfessionale e multiculturale, con un numero significativo di giovani cittadini di origine postcoloniale. Durante la Coppa del Mondo, milioni di tedeschi si identificano con orgoglio nei calciatori che portano cognomi polacchi, turchi, africani o latini. Questo è il segno di un cambiamento culturale enorme e positivo. Certamente, i cittadini tedeschi di origine postcoloniale non dovrebbero ignorare che l’Olocausto appartiene alla storia del loro paese, ma incarnano anche altre memorie che legittimamente chiedono di essere riconosciute. Il colonialismo è una parte costitutiva della storia europea e tedesca tanto quanto l’antisemitismo; la loro memoria dovrebbe far parte della memoria collettiva tedesca, non semplicemente della memoria delle sue minoranze. Questa verità, tuttavia, è semplicemente incompatibile con il dogma dell’unicità dell’Olocausto e della difesa di Israele. I cittadini tedeschi di origine palestinese dovrebbero considerare la sicurezza di Israele come un proprio dovere politico e morale?

Dirk Moses osserva che, secondo diverse inchieste, molti alunni delle scuole tedesche non bianche che hanno visitato Auschwitz non si sono sentiti in colpa per i crimini tedeschi, ma si sono identificati spontaneamente con gli ebrei. Una parte significativa della società tedesca non può riconoscersi in una religione civile del ricordo che rifiuta le identità postcoloniali come antisemite. Una società multiculturale dovrebbe preservare la sua diversità, come regno di una «memoria multidirezionale» (Michael Rothberg), in cui il ricordo dell’Olocausto e quello del colonialismo potrebbero non solo coesistere, ma anche rafforzare la democrazia e il pluralismo.

Nell’era della globalizzazione, la coscienza storica e una pedagogia del pluralismo e della democrazia non possono fondarsi esclusivamente sulla memoria dell’Olocausto, per quanto importante sia e per quanto essenziale essa sia stata per consentire alla Germania e all’Europa di «elaborare il passato». Purtroppo, i «catechisti» tedeschi non sono inclini al dialogo; sono l’opposto della nobile tradizione dell’universalismo ebraico, che aveva trovato in Germania tanti grandi rappresentanti.

*Enzo Traverso insegna alla Cornell University. Il suo libro più recente è Rivoluzione (Feltrinelli, 2022). Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione


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