sabato 4 giugno 2022

Sull’utilità e il danno delle analogie in tempo di guerra – Deborah Ardilli

 

Da quando è cominciata l’invasione russa dell’Ucraina, sul versante occidentale la macchina dell’informazione ha sfornato le analogie più spericolate per orientare l’interpretazione degli eventi e sollecitare l’adesione a opzioni valoriali presentate come l’ultima riserva del Bene in lotta contro il Male. Va da sé che dire “macchina dell’informazione” significa poco se, contestualmente, non si individua una correlazione significativa fra gli apparati della produzione simbolica e il combustibile che li alimenta. Il coinvolgimento diretto nel settore della difesa di uno dei maggiori gruppi editoriali italiani (il gruppo GEDI, proprietario di 12 quotidiani, 8 periodici, 4 emittenti radiofoniche, 23 testate digitali) autorizza in effetti a pensare che la macchina dell’informazione si serva della guerra per remunerare gli interessi che la controllano. E per conquistare alla politica atlantista e alle scelte economiche del governo Draghi quel supplemento di legittimazione che, se i sondaggi colgono nel segno, pare non volerne sapere di mettere radici salde nella testa degli italiani e delle italiane. Moralizzare la guerra, dunque. Per giustificare i profitti di pochissimi e i sacrifici di tantissime/i.

E così fummo inondate. Dall’accostamento del liberal-populista Zelensky (appoggiato nella sua ascesa dall’oligarca Kolomoyskyi, sovvenzionatore di gruppi neonazisti) al leader socialista cileno Allende (deposto nel 1973 dal golpe militare di Pinochet, sostenuto dalla CIA e dall’amministrazione Nixon), fino all’equiparazione fra le operazioni dell’esercito ucraino (che integra nei propri ranghi unità militari neonaziste) e la resistenza italiana (convenientemente alleggerita, per l’occasione, dei suoi connotati di guerra civile e guerra di classe) o, ancora, fra l’afflusso di foreign fighters suprematisti in Ucraina (commentato con toni allarmati persino dal Washington Post) e le Brigate internazionali nella guerra civile spagnola (schierate contro le forze nazionaliste del generale Franco), da tempo non si vedeva difendere con tanto ardore la libertà di attribuire alle proiezioni più sgangherate la dignità di ragionamento storico-politico. In un batter d’occhio, come se nulla fosse, la deferenza verso gli esperti raccomandata su tutti i canali per due anni di pandemia ha ceduto il passo alla promozione degli esercizi più contorti di storiografia “selvaggia”.

Certo, per chi brucia dal desiderio di vedere decollare i bombardieri a protezione dello spazio areo ucraino, la ritrovata libertà di gridare ad alta voce la prima cosa che passa per la testa senza correre il rischio di essere sepolto dal ridicolo deve essere, in fin dei conti, una misera consolazione. Viceversa, è da credere che la libertà di sconciare la storia come meglio conviene fornisca una gradita compensazione a chi si è rassegnato a contenere la smania di vittoria nel campo della contesa ideologica. Ad ogni buon conto, sarà il tempo a stabilire se i prodotti di questo sfrenato avventurismo analogico riusciranno a sedimentarsi durevolmente all’interno del discorso politico o se, una volta esaurite le ragioni della polemica più immediata, retrocederanno al rango di materiale letterario per uno sciocchezzaio flaubertiano.

Per il momento, vale la pena interrogarsi sulle ragioni della vulnerabilità del nostro campo a scorribande teppistiche come quelle appena evocate, nel corso delle quali i simboli della sinistra vengono sventolati come trofei sottratti al nemico. È giusto domandarsi, per esempio, se decenni di retorica nazional-conciliatrice sulla Resistenza tricolore non abbiano enormemente agevolato il compito a quanti, oggi, si precipitano a convertire quella valuta in un argomento a favore del rifornimento militare dell’esercito ucraino e del prolungamento a oltranza dei combattimenti.

Come è giusto chiedersi se le eruzioni quotidiane di russofobia, l’invenzione di quinte colonne putiniane (utile anche a stornare l’attenzione da quelle vere, che siedono in Parlamento e partecipano al governo Draghi) e gli attacchi sguaiati alla dirigenza dell’ANPI rispondano alle motivazioni ufficialmente dichiarate. Anche volendolo, infatti, è impossibile non accorgersi di come il nome di Putin, in bocca allo schieramento interventista, si dilati fino ad assumere le proporzioni di uno sconfinato campo magnetico in cui vengono fatte gravitare le idee di chiunque si opponga all’escalation bellica.

Accomunate dall’accusa di capitolazione alla propaganda putiniana, si trovano così infilate in un unico sacco le posizioni più disparate: realiste, non-violente, anarchiche, cattoliche, pacifiste, antimperialiste, femministe. Al tempo stesso, riaffiora in superficie un forsennato anticomunismo: una forza a dire il vero mai sopita, alimentata da anni di terrorismo mediatico e pedagogico tutto teso a dimostrare che “comunismo” è il nome di un male metafisico, inalterabile al di là delle sue manifestazioni storiche, e che il carattere “utopistico” dei suoi obiettivi non può generare altro che esiti totalitari. Una volta accettate queste premesse, persino il bonapartismo putiniano può essere ricondotto alla metafisica del “comunismo”.

Sotto questa cappa asfissiante di conformismo, ci si può a malapena stupire di quanto poco importino alla propaganda interventista le credenziali antibolsceviche rivendicate da Putin nel discorso del 21 febbraio 2022 e, del resto, mai smentite dai fatti. Analogamente, poco importano gli elementi di continuità — profondi e preponderanti, secondo alcuni studiosi della società russa post-sovietica — fra il regime di Putin e quello di Eltsin, a suo tempo tenuto nelle grazie dell’Occidente. Poco importa che molte delle persone oggi sospettate di cripto-putinismo, vent’anni fa si trovassero per le strade di Genova a contestare il club dei G8, dove l’autocrate russo era ricevuto con tutti gli onori, accolte dalle manganellate del “mondo libero”. E poco importa, in ultima analisi, anche la marginalità di posizioni filo-putiniane e neo-campiste all’interno della sinistra di classe europea, dove finanche i partiti comunisti apertamente nostalgici dello stalinismo, come quello greco e quello portoghese, hanno condannato l’invasione russa dell’Ucraina sottolineando che il regime di Putin è alla ricerca di una «unificazione capitalistica dei paesi dell’ex Unione Sovietica».

Poco importa agli interventisti tenere in considerazione questo insieme di circostanze, perché la guerra imperialista prevede tutto, ma non l’apertura di percorsi possibili di democratizzazione dei rapporti sociali e politici. Potrebbe essere diversamente per la guerra combattuta sul fronte ideologico? Il consolidamento del mitologema liberale “i nostri valori” può rinunciare alla caccia al rosso? No. E in fondo lo sanno bene le istituzioni europee, da anni impegnate a fare da cassa da risonanza alle richieste dei settori più oltranzisti che, nell’Europa centro-orientale, esasperano le memorie nazionalistiche, perseguitano le minoranze, dimenticano le responsabilità locali per gli eventi della Seconda guerra mondiale, costruiscono per le proprie sofferenze paralleli con la Shoah, situano la Russia come potenza non-europea e, naturalmente, reclamano quell’equiparazione tra nazismo e comunismo che una risoluzione del Parlamento europeo sull’«Importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa» ha formalizzato nel settembre del 2019.

Ma torniamo alla macchina dell’informazione. Bisogna osservare, al riguardo, che ciò che si tace è altrettanto rilevante di ciò che si ripete a più non posso. Eloquente, almeno per chi lo ha avvertito, è stato per esempio il silenzio dei media su uno degli episodi finora più significativi di opposizione all’escalation bellica in Europa: lo sciopero generale in Grecia del 6 aprile, convocato dalle confederazioni sindacali del settore pubblico e privato su una piattaforma rivendicativa che, alla richiesta di aumenti salariali e misure contro il carovita, affiancava lo slogan politico “nessun coinvolgimento della Grecia nella guerra”, anche in conseguenza del rifiuto dei ferrovieri della Trainose di trasportare le attrezzature militari della NATO al di fuori del paese.

Praticamente inosservata, a dispetto della vicinanza alla popolazione ucraina proclamata ogni giorno su tutti gli organi di informazione, è stata pure l’accelerazione del processo di riforma del mercato del lavoro che ha interessato quel paese. Caldeggiata da un fondo governativo legato al Foreign Office britannico, è stata approvata a marzo dalla Verkhova Rada una legge che, secondo Open Democracy, «aumenta in modo rilevante i diritti delle imprese private e delle aziende e istituzioni di Stato, mentre riduce quelli dei lavoratori». Autodeterminazione dell’Ucraina sì, ma entro intangibili limiti di classe: lì come altrove, in guerra e in pace.

Dev’essere sempre a causa di questa interpretazione ristretta del principio di autodeterminazione che, all’accoglienza benevola riservata alla richiesta di “armi armi armi”, non hanno fatto seguito, da parte dei governi dell’alleanza euroatlantica, proposte di remissione o di riduzione del debito di un paese come l’Ucraina, che deve somme equivalenti all’80% per cento del proprio PIL al Fondo Monetario Internazionale, alla Banca Mondiale, all’Unione Europea, al Canada e ad altri creditori internazionali.

In Ukraine and the Empire of Capital. From Market Transition to Armed Conflict (Pluto Press, 2018), la studiosa ucraina Yuliya Yurchenko imputa alla combinazione di riforme di mercato, cattiva gestione dei prestiti e malversazioni da parte del blocco dominante «cleptocratico» la creazione di una «dipendenza tossica» dell’Ucraina dal debito estero, la quale è a propria volta diventata «uno strumento di manipolazione nello scontro geopolitico fra Russia e Stati Uniti/Unione Europea». La geopolitica del debito è costata all’Ucraina, secondo Yurchenko, la sua residua sovranità ed è all’origine delle tensioni che rendono possibile il conflitto armato.  Ma anche qui: quale editoriale, quale talk show, quale autorevolissima petizione a favore di sacrifici che altri dovranno sostenere, può permettersi il lusso di riaccendere l’attenzione dell’opinione pubblica su un tema — evidentemente non solo ucraino, e finito praticamente nel dimenticatoio dopo il 2015 — come quello del debito? L’impresa di moralizzazione della guerra, in tutta evidenza, non è compatibile con l’esplicitazione delle sue radici materiali.

Per oscurare quelle radici, niente di meglio dell’altra grande analogia che, dall’inizio della guerra, corre di bocca in bocca: chiamando in causa, questa volta, la vulnerabilità del femminismo alle strumentalizzazioni belliciste. Alludo all’analogia che equipara l’aggressione militare russa ai danni dell’Ucraina a un caso di stupro o, a seconda delle varianti, di femminicidio. Colpo grosso, effetto indignazione garantito, in ragione inversamente proporzionale all’attenzione riservata agli stupri e ai femminicidi in tempo di pace, per tacere di forme meno sensazionalistiche di oppressione e sfruttamento delle donne.

Come spesso accade di fronte a fenomeni di discorsività diffusa, è difficile stabilire chi sia stato il primo, o la prima, a lanciare l’idea e ad armare, con questo artificio retorico, agguerrite falangi di ripetitrici e ripetitori. Colpisce, tuttavia, che a servirsi di questa analogia abusiva siano figure di riconosciuto spessore intellettuale. In un articolo apparso sul Foglio il 12 marzo con il titolo Putin vuole uccidere l’infedele Ucraina, Adriano Sofri afferma di dovere al giornalista e militante nazionalista ucraino Vladislav Maistrouk il «pensiero folgorante» secondo cui «l’ossessione di Putin per l’Ucraina somiglia a quella di certi uomini per la ex moglie che hanno amato, al punto di ucciderla. […] Un corto circuito fra guerra e femminicidio: mai casus belli è stato più nitido».

Ci sarebbe molto da obiettare alla riduzione del femminicidio a moventi di ordine psicologico, come pure alla pretesa di elevare al rango di analisi le motivazioni che maltrattanti e femminicidi spesso adducono («l’ho uccisa perché l’amavo troppo») per le proprie azioni. In questa sede, è sufficiente limitarsi a registrare la facilità con cui l’equazione — da sempre cara a tutti i nazionalismi — fra corpo delle donne e corpo della nazione è riuscita a insediarsi nel paesaggio mentale di un intellettuale progressista schierato a difesa dell’invio di armi in Ucraina.

Una volta accettata l’equazione, si capisce, si entra in quel regno dell’indistinzione in cui vale tutto. Vale la rimozione della natura inter-imperialistica del conflitto in corso. Vale il rifiuto di distinguere fra una donna (o l’intera classe delle donne) e uno Stato (o il suo popolo). Vale, di conseguenza, la messa fra parentesi degli interessi comuni fra le donne che tagliano trasversalmente il conflitto a livello internazionale. Vale l’impiego a mezzo servizio dell’analogia in questione, dato che difficilmente i suoi fautori accetterebbero di contribuire all’armamento delle oppresse contro i loro aguzzini o di appoggiare un programma di sanzioni economiche ai danni della classe di sesso che opprime. Vale l’attribuzione esclusiva del patriarcato all’universo sociale del nemico, mentre per quanto concerne il proprio è sufficiente richiamarsi alle inevitabili “imperfezioni” della democrazia liberale. Vale l’amalgama fra una metafora impropria (la guerra come stupro o come assalto mortale alla moglie infedele) e una tragica realtà (gli stupri di guerra). Vale, travestita da accorato lamento per una presunta insufficienza femminista nella denuncia degli stupri di guerra, la riaffermazione della divisione patriarcale del lavoro politico: agli uomini la deliberazione sulla guerra e sulla pace, alle donne l’obbligo di farsi carico delle conseguenze di decisioni che non hanno preso. E se non può essere la logica a dare solidità a simili pseudo-argomenti, in effetti non resta altro che la forza di imporli.

Ma anche volendo astrarre dalla sequenza di false equivalenze messa in moto dall’equazione corpo delle donne/corpo della nazione, resta sconcertante l’indifferenza di Sofri a un’evidenza: la «folgorante» intuizione maistroukiana, lungi dall’offrire un’inedita chiave di lettura del conflitto in corso, appartiene a un repertorio già ampiamente collaudato. Si dovrebbe conoscere il peso dell’argomento “stupro del Belgio” nella propaganda dell’Intesa, e in particolar modo della Gran Bretagna, durante la Prima guerra mondiale. Fu grazie alla riproposizione martellante di quel ritornello, associata a una formidabile pressione economica, che il governo inglese riuscì a piegare parti consistenti della classe operaia britannica, coinvolgendola nello sforzo bellico.

In quegli anni, Sylvia Pankhurst ebbe modo di constatare con amarezza l’efficacia della propaganda governativa su due dirigenti della East London Federation of the Suffragettes (ELFS), persuase della necessità di accettare i sacrifici per la libertà del Belgio: «le loro menti [erano] stordite e ammaliate dai torrenti di retorica della stampa, dall’atmosfera di eccitazione e dalle dicerie che crescevano senza sosta in ogni strada». Le ragioni dell’amarezza sono presto dette. Tre giorni prima della dichiarazione di guerra della Gran Bretagna alla Germania, sulle colonne di The Woman’s Dreadnought, la leader suffragista aveva chiarito in questi termini la natura della catastrofe che si stava avvicinando, facendo tesoro delle lezioni apprese nel corso delle guerre coloniali che avevano preceduto la deflagrazione del 1914: «Ogni sorta di ragione che suona gloriosa e patriottica viene invariabilmente avanzata a sostegno di una dichiarazione di guerra; ma è praticamente certo che ogni guerra dell’epoca moderna sia stata combattuta con l’obiettivo puramente materialistico di promuovere i progetti e proteggere gli interessi di finanzieri ricchi e potenti». Non era arrivata a conclusioni molto diverse Rosa Luxemburg, un anno prima, ne L’accumulazione del capitale. Altro che sublimazione della guerra nell’immagine di mariti ossessionati da mogli infedeli.

Com’è noto, l’impatto della Grande Guerra sul movimento suffragista inglese fu drammatico. La guerra rimescolò le carte: antiche divisioni, in particolare quella fra l’ala costituzionale e l’ala militante del movimento, si ricomposero all’insegna della lealtà nazionalista. Nel corso di una riunione pubblica, ancora nel 1915, Millicent Fawcett, presidente della National Union of Women’s Suffrage Societies (NUWSS), dichiarò che parlare di pace prima della sconfitta della Germania equivaleva a macchiarsi di «tradimento». Il 12 agosto 1914 Emmeline e Christabel Pankhurst, le dirigenti della Women’s Political and Social Union (WSPU), informarono le attiviste che la campagna militante per il suffragio sarebbe stata sospesa fino al termine del conflitto e che le posizioni pacifiste erano incompatibili con l’appartenenza all’organizzazione. Più tardi venne modificata l’intestazione del giornale della WSPU, The Suffragette, che a partire dall’ottobre del 1915 iniziò ad uscire con il nome di Britannia, per sottolineare l’adesione alla politica dell’Impero.

Altre divisioni invece si approfondirono. Una parte della direzione della NUSWW abbandonò l’organizzazione, dopo essere stata sconfessata dall’ala interventista per aver contribuito a organizzare il Congresso Internazionale delle Donne dell’Aia (1915), che chiedeva una pace negoziata. All’interno della WSPU l’opposizione alla guerra non provenne dai quadri dirigenti, ma da militanti di base che la storiografia ha definito «suffragette freelance». Già prima della guerra, d’altra parte, le suffragette con inclinazioni socialiste erano uscite dalla WSPU per costituire altre organizzazioni. Al momento dell’ingresso in guerra, tutti questi gruppi (la Women’s Freedom League, le United Suffragists, la East London Federation of Suffragettes) avrebbero adottato risoluzioni critiche contro lo sforzo bellico.

Se in questa storia c’è qualcosa che merita ancora la nostra attenzione, è chiaro che non si tratta dell’analogia mistica fra corpo delle donne e della nazione. È semmai il modo in cui un pugno di donne, escluse dalla rappresentanza formale, ha provato a qualificare politicamente la propria opposizione alla guerra. In mezzo a un mare di difficoltà Sylvia Pankhurst, fiera internazionalista, fece di tutto per evitare che la propria organizzazione si trasformasse in un organismo di assistenza sociale e per formulare rivendicazioni capaci di promuovere il protagonismo delle donne contrastando la retorica dell’interesse nazionale e dei sacrifici: «If we can make employers lose instead of making profits we would bring the war to an end» («Se riuscissimo a fare in modo che i padroni perdano anziché accumulare profitti, metteremmo fine alla guerra»). L’esito non è scritto, ma è quello che dovremmo fare anche noi. Nella notte, ci guidino le stelle.

da qui

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