mercoledì 8 giugno 2022

Succede a Roma - Nino Lisi

 

Roma, un tempo  detta caput mundi, ancor’oggi conosciuta come “la città eterna” è capitale di uno Paese, il nostro,  che nella sua Costituzione si impegna a <rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana>. Ebbene,incredibile ma vero, proprio a Roma  avviene che una anziana donna  dorma (ad oggi che scrivo)  da 233 giorni al posto di guida di un furgone, per  consentire ai suoi due figli, un maschio e una femmina, ambedue adulti e con non lievi disturbi psichici, di dormire sdraiati  sul pianale del mezzo.

Solo un paio di mesi fa, questa donna si diceva   “proprio contenta”  perché, dopo essere riuscita a riportare nel furgone la figlia che in una crisi del suo male aveva girovagato dormendo in strada per diverse settimane,era riuscita a trovare un posto, sotto un ponte,  da dove <nessuno li cacciava >  e dove c’era anche  un  lampione  che le dava luce di notte.

Ora però  non ce la fa più. Con il  volante che le preme sullo stomaco. non riesce più a dormire e nel furgone con il  caldo si sta anche peggio  di quando  faceva freddo.

Si dirà che casi del genere non ci sono solo a Roma e che i “senza tetto”  ci sono  pressoché in tutte le grandi città. E’ vero. Ma  la particolarità di questo caso, come di molti altri simili che esistono a Roma, è che a ridurre questo piccolo nucleo familiare in  condizioni tanto miserevoli  non è stato un matrimonio finito male, un lutto grave, una malattia disabilitante  né la perdita del lavoro, ma   proprio l’Istituzione più prossima alla popolazione che per questo, prima e più di ogni altra, ha l’obbligo di dare attuazione al dettato dell’art, 3 della  Costituzione, appena citato.

A “buttare per strada” questa come tante altre famiglie è stato infatti  il Comune di Roma che ha sgomberato manu militari – tanto per citare  solo alcuni casi –  la Cartiera di Via Salaria (2016) i “campi nomadi”,  – ribattezzati con scarso senso dell’opportunità – “villaggi della solidarietà”, River (2018), La Monachina (2021) La Barbuta (2021)

L’aspetto paradossale di tali sgomberi è che La Cartiera di Via Salaria non era stata occupata abusivamente ma era un Centro di Accoglienza istituito dal Comune  e i suoi abitanti vi erano stati immessi dallo stesso Comune;  anche i tre “campi”  erano stati istituiti dal Comune  adattando container in “moduli abitativi”, ognuno dei quali, contrassegnato da un numero identificativo, era stato assegnato ad un nucleo familiare con tanto di “determina dirigenziale” dell’apposito Ufficio Comunale.

Si tratta dunque di una paradossale assurdità che segna il punto di arrivo di   una ininterrotta sequenza di assurdi, paradossi ed illegalità che parte da molto lontano.

A Roma i  primi “campi” furono   allestiti    negli anni ottanta dello scorso secolo, come campi di sosta per accogliere piccole immigrazioni  di Rom che fuggivano da condizioni di miseria.

A tali piccole  immigrazioni per fame  seguirono, nel ’91-’92, consistenti  ondate di profughi provenienti dalla Bosnia divenuta  teatro degli scontri etnici serbo-bosniaci e,  a partire dal  ’99, nuove ondate di profughi dalla   guerra del Kossovo.

Molti degli attuali  residenti nei campi sono dunque  profughi di guerra o loro discendenti, ai quali  si sono aggiunti a partire dal 2000 altri profughi dalla miseria che   devastava  paesi come la Romania.

La complessità e la delicatezza dei problemi nuovi posti dalla  consistente presenza di queste minoranze linguistiche non fu colta dalle nostre istituzioni. La maggiore preoccupazione delle Giunte Rutelli  (1993-2001) e Veltroni  (2001 -2006), per non dire delle    gestioni commissariali, fu  quella di spostare i “campi” fuori dal centro della città, possibilmente al di là  del raccordo anulare.

Il culmine dell’incomprensione di questo  fenomeno lo si raggiunse non a caso con il Governo Berlusoni  che nel 2008  dichiarò  l’esistenza di un’ “emergenza nomadi” ed emanò direttive ai Prefetti per fronteggiarla con misure speciali.

In ottemperanza a  tale Dichiarazione, nel 2009 a Roma la Giunta Alemanno adotta il “Piano Nomadi”.

Il Consiglio di Stato però nel 2011  dichiarò inesistente un’ emergenza nomadi ed  illegali   i provvedimenti conseguenti, compresi gli stessi “campi”.

Il Governo ricorse contro la sentenza del Consiglio di Stato, ma  la Corte di Cassazione nel 2013 dette torto al Governo e ragione al Consiglio. Nello stesso  anno  il Tribunale Civile di Roma riconobbe a un cittadino rom di essere stato vittima di  discriminazione su base etnica in occasione del foto segnalamento ed ordinò al Ministero dell’Interno di distruggere tutti i documenti contenenti  i dati sensibili di quel cittaddino, raccolti impropriamente.

Nel 2015, il 30 maggio, il Tribunale Civile di Roma afferma in sentenza  che i campi hanno carattere di “discriminazione su basi etniche” sentenziando che   «il carattere discriminatorio di natura indiretta della complessiva condotta di Roma Capitale […]si concretizza nell’assegnazione degli alloggi del villaggio attrezzato La Barbuta»  ed impone da subito al Comune di Roma di far cessare gli effetti discriminatori.

Ma nulla succede. I “campi”restano e con  il loro progressivo degrado assumono sempre più il carattere di  luoghi di segregazione. Per di più  un nuovo fenomeno  insorge  aggravando la situazione: con la dissoluzione della Jugoslavia i documenti di molti degli abitanti dei  i “campi” non hanno più valore essendosi dissolto lo Stato che li aveva emanati. I loro intestatari restano  senza cittadinanza e divengono , apolidi di fatto. Di ciò e delle conseguenze anche per i loro figli nati nei campi non si cura alcuno.

Appare assodato dunque che ad essere fuori Legge non sono i Rom, anche se a volte sono costretti a rubacchiare per sopravvivere, ma le Istituzioni.

Nal 2012 il Governo Monti prova a mettere riparo a questa incredibile situazione,  approvando la Strategia Nazionale per l’Inclusione Sociale dei Rom Sinti e Caminanti  2012 – 2020 che l’UNAR – Ufficio Nazionale  Antidiscriminazione Razziale del Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio – aveva predisposto sulla scorta di direttive della U’nione Europea. Si basa su quattro direttrici: abitare, lavoro, istruzione, salute.

Purtroppo resta  un bel libro di sogni.

Le Istituzioni di prossimità, Comuni e Regioni, che avrebbero dovuto attuarla, vengono totalmente meno al loro compito per mancanza sia  di volontà, a livello politico, sia  di competenza, a livello tecnico-amministrativo. Ai politici fa da freno l’antiziganismo di cui è pervasa l’opinione pubblica, antiziganismo che è una subdola forma di razzismo paragonabile solo all’antisemitismo. Si pensi alle persecuzioni  naziste sfociate negli abomini che gli Ebrei chiamano Shoa (6 milioni di morti) ed i Rom  Porrajmos (500mila morti su di una popolazione di poche centinaia di migiaia di persone).Si pensi che nel Parlamento Italiano, per fare  approvare la Legge sul riconoscimento delle minoranze linguistiche si dovette eliminare dal loro elenco quella dei Rom.

Quanto al livello tecnico-ammiistrativo si consideri quale   cultura e quali professionalità occorrano  per attivare percorsi che portino le migliaia di persone che abitano nei “campi” dalle attuali condizioni di apartheid,  ”in cui sono state segregate per decenni o addirittura   sono nate, al godimento dei diritti di cittadinanza dai quali sono state sinora  escluse. Perché è  questo che si intende quando si parla di inclusione sociale

La mancanza, da una parte,  di volontà politica e, dall’altra,  di cultura e di professionalità ha costituito una miscela devastante che ha portato  al travisamento  della Strategia di Inclusione Sociale: il “superamento dei campi” è stato inteso come obiettivo a sé stante invece che   effetto   dei percorsi di inclusione che,  per aver inserito nella società le minoranze,  avessero resi inutili quei luoghi di segregazione. E poiché la chiusura dei campi in vista   della scadenza elettorale era spendibile  come soluzione di problemi di ordine pubblico e di decoro urbano, il loro svuotamento  è divenuto obiettivo da raggiungersi ad ogni costo.

Per tanto gli sforzi dell’Amministrazione Comunale si sono  concentrati su uno solo dei quattro indirizzi suggeriti dalla Strategia: l’abitare. Ma non nel senso di realizzare un modello abitativo adatto alle circostanze, ma semplicemente come trasferimento dei nuclei familiari che rientrassero nelle apposite graduatorie dai “campi”ai casermoni dell’edilizia pubblica senza alcuna preparazione né dei trasferendi, né dei contesti che li avrebbero  .dovuti accogliere.

Delle  conseguenze  di questa improvvida operazione  si sono occupati ampiamente i media  ed anche diverse Stazioni dei Carabinieri che hanno dovuto raccogliere le denunce delle donne Rom minacciate con i loro bambini e malmenate da coinquilini che  non  gradivano averle come vicine.

Ma le abitazioni di proprietà pubblica disponibili non erano sufficienti ad accogliere tutte le famiglie rom  da  trasferire per  svuotare  i campi ; ed allora si è fatto ricorso ad unastuto stratagemma. Si è  chiesto alle famiglie dei campi in chiusura di sottoscrivere il Patto di Solidarietà, un atto   in cui  esse  si impegnavano a trovarsi un‘abitazione  da fittare ed  il Comune si impegnava  a pagarne i canoni mensili  dei  primi due anni.   Ma chi fitterebbe a Roma un’abitazione ad un Rom e per  giunta privo di busta paga e spesso anche di documenti? E cosa sarebbe avvenuto al terzo anno? Il tranello era  evidente: chi, firmato il Patto, non fosse riuscito a  trovare un appartamento da fittare   sarebbe risultato non più meritevole delle misure di sostegno in quanto inadempiente; così chi,  avendo capito l’inganno, non lo avesse sottoscritto, sarebbe apparso non collaborativo. In ambedue i casi sarebbe apparso che quelle famiglie Rom avrebbero  rifiutato l’alternativa abitativa offerta dal Comune e   gli sgomberi avrebbero avuto una  parvenza di legalità.

E così è stato. Alla Seconda Sezione Civile del Tribunale di Roma presso cui pendeva un ricorso contro lo sgombero  del camo La Barbuta un avvocato del Comune poté affermare che nessuno dei suoi abitanti sarebbe rimasto senza un’alternativa abitativa. Il ricorso non venne accolto e  decine di famiglie  alla data fatidica fissata per la chiusura del campo   sono state  letteralmente messe in strada, come era avvenuto  alcune settimane prima con le famiglie che ancora erano nel campo de La Monachina..

Ad alcune – le più fortunate – del Campo La Barbuta, nel mentre erano già in corso le operazioni di sgombero è stato assegnato provvisoriamente  (cioè per due) un appartamento in condizioni ininmaginabili.Per darne un’idea: 13 persone in co-housing  in tre stanze con un bagno  pressoché inutilizzabile; una mamma anziana con un figlio costretto su di una sedia a rotelle, dopo un’ odissea rimbalzata sulle pagine de il manifesto, è stata immessa in un appartamento   senza riscaldamento ed acqua calda, al 7° piano di uno stabile nel  cui ascensore la carrozzina   non entra. Altri nuclei familiari per strada.

La continuità istituzionale imporrebbe alla Giunta Gualtieri  di porre rimedio  ai disastri compiuti dalla Giunta Raggi, ma sinora non c’è chi se ne occupi,nonostante ripetute e documentabili sollecitazioni all’Assessorato alle Politiche Sociali e all’Assessorato alle Politiche Abitative che amministra i dirupati appartamenti  assegnati per due anni.

Tutto ciò accade a Roma con buona pace della Costituzione più bella del mondo che è anche assai poco attuata.

Di fronte a tutto questo c’è da chiedersi che fa l’UNAR nel suo ruolo di  punto di raccordo e coordinamento della Strategia Nazionale di Inclusione  e se, per evitare che   vicende  del genere continuino ad accadere,  non sarebbe il caso di portarle all’attenzione della Magistratura perché indaghi se nell’ac-caduto non si rilevino responsabilità da perseguire sia a livello politico che al livello   amministrativo.

Intanto l’apartheid dei Rom e dei Sinti, a Roma (e non solo) continua.

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