venerdì 10 febbraio 2023

ricordo di Pio d'Emilia

C’era una volta il Giappone

L’impero distopico (suo malgrado).

PIO D'EMILIA

Dovrebbe essere l’anno del Giappone, questo. G-7 a Hiroshima, riconquista di un seggio come membro non permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (il meno votato, tuttavia, tra i neo-eletti Mozambico, Ecuador, Svizzera e Malta), adesione più o meno convinta alle varie iniziative di “contenimento” strategico anticinese dell’Indo-Pacifico: Quad, AUKUS. Persino uno storico invito al vertice della Nato, in cambio di una – vedremo quanto credibile – promessa di raddoppiare il bilancio militare, portandolo al due per cento del PIL, come “suggerito” dagli USA ai suoi alleati europei.

 Ma il fatto che sentiremo parlare un po’ di più del Giappone, e che nei prossimi mesi (ma non molto più a lungo) vedremo un po’ più spesso il suo opaco premier Fumio Kishida in giro per il mondo, a fianco dei “grandi”, non significa che Tokyo sia riuscita a emergere dal lungo letargo in cui si è nascosta negli ultimi vent’anni (almeno) e che si appresti a rivendicare il ruolo al quale avrebbe avuto da tempo diritto e che la comunità internazionale avrebbe potuto/dovuto riconoscerle. Non è successo quando il Giappone era in corsia di sorpasso, dal dopoguerra agli anni Ottanta, figuriamoci oggi che è desolatamente fermo ai box, avvitato in una crisi economica, sociale, culturale senza precedenti e senza apparente soluzione e di fatto precipitato in una situazione di irrilevanza internazionale.

Quando sono arrivato qui in Giappone, oramai più di quarant’anni fa, mi sembrava di essere atterrato su un altro pianeta. Il Giappone era già diventata la seconda economia del mondo, e molti erano convinti che sarebbe presto diventata la prima. Esattamente come ora il mondo si aspetta che succeda con la Cina. Mi sentivo un privilegiato, uno che aveva avuto la fortuna di trovarsi nel posto giusto al momento giusto. E così è stato, in effetti, per i primi anni. Il Giappone era il modello da seguire, e noi giornalisti avevamo il compito di decifrarlo e raccontarlo. 

 

Ma poi la corsa del Giappone si è interrotta bruscamente, e nonostante tutti i tentativi – ivi compresa la famosa e decisamente sopravvalutata (in patria e all’estero) Abenomics – non è mai ripartita. Negli anni Ottanta i giapponesi erano più ricchi degli americani, oggi sono più poveri degli inglesi e probabilmente anche di noi italiani: il reddito pro-capite, che negli anni Ottanta era arrivato a essere il secondo del mondo, ora è sceso al 26mo posto. Il debito pubblico sfiora il trecento per cento, il doppio del nostro. Lo Shinkansen, il “treno proiettile” che negli anni Settanta stupì il mondo per la sua linea, velocità, puntualità e sicurezza c’è ancora, ma è uno dei tanti, oramai, che sfrecciano in giro per il mondo, e ha conservato come primati – non che sia poco, intendiamoci – solo quelli della puntualità e della sicurezza. Per il resto, quanto a prestazioni, è stato superato dai treni europei e cinesi, e non riesce più da tempo ad assicurarsi nuove commesse all’estero. Per realizzare l’alta velocità il Vietnam, nonostante le tensioni politiche, si è infatti rivolto alla Cina, dopo aver interrotto una lunga trattativa con il Giappone. Dove l’alta velocità è ferma. Lo Shinkansen è stato il primo treno al mondo a superare i duecento chilometri orari, ora a fatica arriva, e solo in certe tratte, a trecento chilometri orari. Il MAGLEV, il treno a lievitazione magnetica, ha appena realizzato il nuovo record mondiale di velocità, a 603 chilometri orari. Ma è ancora a livello di prototipo. In Cina i MAGLEV sono già in funzione da alcuni anni ed entro il 2025 dovrebbe partire una nuova tratta, con velocità superiore ai seicento chilometri orari. Ma il dato più indicativo del “rallentamento” è lo sviluppo della rete: tra i primi a realizzarla, assieme all’Italia, il Giappone è il paese dove si è meno sviluppata: in entrambi i nostri paesi è praticamente ferma a trent’anni fa. Circa tremila chilometri per il Giappone, meno di mille per l’Italia. In Cina sono oltre quarantamila, e hanno cominciato appena una ventina di anni fa.

Certo, il Giappone continua a essere la terza potenza economica del mondo: un paese politicamente stabile, direi immobile (che in questo caso forse costituisce un problema, non un valore aggiunto), “sicuro”, con il tasso di criminalità più basso del mondo industrializzato. Ma è fermo, immobile. Niente e nessuno sembra in grado di farlo ripartire. Altro che riarmo. Il Giappone che conoscevamo, che ammiravamo e in un certo senso temevamo, è scomparso. Non c’è più. E nel frattempo i giapponesi stanno sempre peggio. Vivono più a lungo, ma in condizioni sempre più difficili. Ecco perché non fanno figli. Ecco perché mai come in questi ultimi anni scappano via. L’anno scorso ha lasciato il paese oltre mezzo milione di persone, nel 2010 meno della metà, mentre fino al 2000 il numero era irrisorio, meno di cinquantamila. Ed ecco perché il problema demografico, che il Giappone condivide con molti altri paesi, primo fra tutti l’Italia qui è più grave. Alla di fatto già avvenuta “scomparsa” geopolitica potrebbe corrispondere quella fisica. Non è uno scherzo.

Se il saldo negativo della “bilancia demografica” dovesse continuare al ritmo attuale, il Giappone vedrebbe ridotta la sua popolazione, entro il 2050, dagli attuali 123 milioni a novanta. Un paese sovrappopolato come il Giappone, con zone ad altissima intensità abitativa, può anche permettersi di sopravvivere con venti milioni di abitanti in meno. Ma non con venti milioni di giovani in meno e dieci milioni di anziani in più. Persino l’opaco Kishida se ne sta rendendo conto, e ha deciso di partire da questa emergenza nel suo discorso di riapertura dei lavori della Dieta, lo scorso 23 gennaio. Ma anche in questo caso, nonostante a parole tutti oramai considerino l’irreversibilità del calo demografico la vera emergenza nazionale, non sembra che il governo abbia le idee chiare sul come affrontarla, aldilà dei soliti, episodici e superficiali palliativi. L’ultimo pacchetto offre fino a cinquantamila euro alle famiglie urbane che accettano di andare/tornare a vivere in provincia. Una follia, visto che nelle province non ci sono strutture e non c’è lavoro. Le donne, per prendere in considerazione di nuovo l’idea di far figli, hanno bisogno, oltre che di certezze o quanto meno rassicurazioni sul fatto che potranno mantenerli (dopo la Cina, il Giappone è il paese dove costa di più mantenere i figli agli studi) di strutture dove lasciarli: asili, scuole materne, spazi attrezzati sul luogo di lavoro. E maggiore rispetto sociale per il loro ruolo. Altrimenti non solo continueranno a non far più figli, ma eviteranno di sposarsi, per non correre il rischio. Il trend dei matrimoni è negativo da almeno da una decina di anni.

“Workaholics living in rabbit hutches”

“Intossicati dal lavoro costretti a vivere in gabbie per conigli”. È come definì i giapponesi, nel lontano 1982, Sir Roy Denman, alto funzionario europeo in visita ufficiale a Tokyo. Una definizione pesante, che suscitò proteste e un certo scalpore. Ma che aveva – e purtroppo ha tutt’ora – una certa legittimità. Un paese dove accumulare anche sessanta ore di straordinari (spesso non pagati) era ed è ancora una realtà, dove i salari non aumentano da oltre vent’anni, dove se si è fortunati si può godere al massimo una settimana di ferie e dove il famoso “impiego a vita”, che all’epoca di Denman era la norma ma oggi riguarda oramai meno di un terzo dei lavoratori può in effetti giustificare il ricorso al termine di “intossicazione”. Con l’aggravante dell’assuefazione, visto che, a parte qualche caso individuale isolato, non esiste reazione sociale. Ed è vero, diciamolo una volta per tutte, che le case giapponesi, anche quelle che vengono costruite adesso, sono piccole, spesso minuscole, prive di riscaldamento centralizzato e costruite con materiale scadente e di rapido decadimento: alluminio, compensato, cartongesso.

Certo, c’è il problema degli spazi, dei terremoti, dei costi: ma mi rifiuto di pensare che in tutti questi anni non sia venuto in mente a nessuno di affrontare seriamente il problema e regalare al popolo giapponese condizioni abitative migliori. Invece di offrire incentivi insufficienti e sottoposti a complicate condizioni, per convincere i cittadini a lasciare le grandi città e tornare a vivere in provincia (dove esistono oltre dieci milioni di case vuote, abbandonate) il governo giapponese, anziché raddoppiare il bilancio militare, potrebbe finalmente lanciare una campagna nazionale di “bonifica” delle zone rurali, dove l’unico segno di modernità è dato dai konbini – piccoli empori aperti 24 ore su 24, dove si trova di tutto a prezzi stracciati – e le orribili distese di distributori automatici. Per il resto, siamo fermi al medio evo. Quello che piace molto ai turisti, ma che costringe i giapponesi a vivere in condizioni indegne di un paese moderno e civile. E non è una questione di soldi. Molte prefetture hanno bilanci in attivo, e vista l’onestà diffusa dei suoi cittadini, anche i più piccoli comuni, oltre ai contributi dello stato, possono contare su un congruo e costante gettito fiscale locale. Solo che lo usano male.

Tempo fa ho letto di un piccolo comune nelle Alpi Giapponesi, noto perché a suo tempo, nelle acque del suo lago, erano stati trovati resti di un elefante. In occasione del centenario, il comune ha deciso di sostituire tutti i tombini della città, circa un migliaio, sostituendo i vecchi, arrugginiti ma ancora perfettamente funzionanti, con dei nuovi, raffiguranti un elefante. Prezzo unitario: circa mille euro. In Giappone c’è una vera e propria fissa nazionale per i cosiddetti “tombini d’autore” (sono oltre venti milioni, con dodicimila disegni diversi: ogni anno c’è un concorso nazionale in diretta tv e un prolifico merchandising, dalla vendita di figurine ai tornei di carte che appunto raffigurano i disegni dei tombini (per chi volesse approfondire, ecco un link in inglese. Ed è vero che alcuni sono davvero opere d’arte. Ma nel caso in questione metà delle abitazioni, come spesso avviene nelle zone rurali, non è ancora collegata alla rete fognaria: è legittimo chiedersi se non fosse stato il caso, prima di pensare a rinnovare il look dei tombini, di collegarvi il resto delle abitazioni.

Non è vero che in Giappone non si potrebbe affrontare in modo radicale il problema abitativo – spiega un architetto italiano che lavora presso un importante studio locale ma che vuole mantenere l’anonimato – competenze tecniche, materiali, fantasia e soprattutto soldi ci sono. Quella che manca è la volontà politica. E la lentezza istituzionale. Metà dei nostri progetti non supera la prima selezione, e quelli che la passano devono aspettare anni prima dell’approvazione finale. Sono venuto in Giappone perché pensavo di trovare il futuro, alla fine è quasi peggio che da noi.

Nel frattempo, il mercato immobiliare, da sempre oggetto di periodiche espansioni e contrazioni, che garantiscono enormi profitti alle grandi corporation ma mettono a rischio gli investimenti dei piccoli proprietari, resta un pianeta a sé...

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