Francesco Bachis ricorda Giulio Angioni
La faccia che ho fatto quando ho saputo che era passato a
lettere.
E quella che ha fatto quando m'ha dato il voto.
E quella che ha fatto quando m'ha dato il voto.
La faccia che ha fatto quando le
ho chiesto la tesi.
E la faccia che ho fatto quando ha fatto a pezzi il progetto.
La faccia che ho fatto quando "rileggere Leroi-Gourhan male non ti farà".
E la faccia che ha fatto quando mi ha cambiato il titolo della tesi.
E la faccia che ho fatto quando ha fatto a pezzi il progetto.
La faccia che ho fatto quando "rileggere Leroi-Gourhan male non ti farà".
E la faccia che ha fatto quando mi ha cambiato il titolo della tesi.
La faccia che ha fatto quando mi hanno ammesso al
dottorato.
E quando "ma tu come le sai queste cose?"
La faccia che ha fatto, la studentessa, quando all'esame ha citato Stalin.
La faccia che ho fatto io, invece.
E quando "ma tu come le sai queste cose?"
La faccia che ha fatto, la studentessa, quando all'esame ha citato Stalin.
La faccia che ho fatto io, invece.
La faccia che ha fatto quando "Marxismo e
linguistica".
E quella di quando le hanno tolto Gramsci dalla bibliografia.
La faccia che ha fatto quando il buco nel muro per portare la rete in studio, che c'è ancora quel buco.
E quella che ha fatto quando ha cambiato la serratura.
E quella di quando le hanno tolto Gramsci dalla bibliografia.
La faccia che ha fatto quando il buco nel muro per portare la rete in studio, che c'è ancora quel buco.
E quella che ha fatto quando ha cambiato la serratura.
La faccia che ha fatto quando "non hai idea di cosa
significasse stare coi palestinesi, qui, nel sessantasette".
E quando "altro che arcadia, qui c'era la fame!".
E quella di quando ha detto a Craxi "stai zitto coglione".
E la faccia di Craxi.
E quando "altro che arcadia, qui c'era la fame!".
E quella di quando ha detto a Craxi "stai zitto coglione".
E la faccia di Craxi.
La faccia che ha fatto quando ha scritto "da
collega", sulla dedica.
E quella che ho fatto io.
La faccia che ha fatto il mio amico quando ha sbagliato il nome, sulla dedica.
La faccia che ha fatto quando "dovete sapere certe cose, prima che me ne vada".
E quella che ho fatto io.
La faccia che ha fatto il mio amico quando ha sbagliato il nome, sulla dedica.
La faccia che ha fatto quando "dovete sapere certe cose, prima che me ne vada".
La faccia che ha fatto quando "no, quella è la
precedente".
La faccia che ha fatto quando "vorrei fare una tesi sull'Argia".
E quella della studentessa, dopo.
La faccia che ha fatto quando ha capito che avevo veramente letto un suo romanzo.
E quella "con cinquanta pagine in meno era un capolavoro".
La faccia che ha fatto quando "vorrei fare una tesi sull'Argia".
E quella della studentessa, dopo.
La faccia che ha fatto quando ha capito che avevo veramente letto un suo romanzo.
E quella "con cinquanta pagine in meno era un capolavoro".
La faccia che ha fatto quando "fuori c'è gente per
lei".
E quella di quando ha saputo chi era.
La faccia che ha fatto quando "dove posso comprare un eskimo uguale?"
E quella che ha fatto quando l'ha indossato.
E quando ha visto la bandiera tedesca.
E quella di quando ha saputo chi era.
La faccia che ha fatto quando "dove posso comprare un eskimo uguale?"
E quella che ha fatto quando l'ha indossato.
E quando ha visto la bandiera tedesca.
La faccia che ha fatto col megafono in mano.
E quella col telefono.
La faccia che ha fatto quando sono arrivato in ritardo, col gruppo elettrogeno, per una lezione in piazza.
E quella col telefono.
La faccia che ha fatto quando sono arrivato in ritardo, col gruppo elettrogeno, per una lezione in piazza.
La faccia che ha fatto quando "quanto costa
l'iscrizione?"
E quella che ha fatto la tipa.
La faccia che ha che ha fatto quando ha detto "Giulio Angioni", in radio.
E quando "scusate, oggi sono tutto a cazzus e cunnus".
E quella che ha fatto la tipa.
La faccia che ha che ha fatto quando ha detto "Giulio Angioni", in radio.
E quando "scusate, oggi sono tutto a cazzus e cunnus".
La faccia che ha fatto quando le ho dato il libro.
E quella che ho fatto io.
E la faccia che ha fatto quando l'ha aperto.
E quella che ho fatto io.
E la faccia che ha fatto quando l'ha aperto.
E poi la faccia che ho fatto quando l'ho saputo.
E quella che ha fatto un sacco di gente.
E quella che ha fatto un sacco di gente.
Pietro
Clemente: “Ecco il tesoro che Giulio Angioni ci ha lasciato”
Negli ultimi anni Giulio Angioni aveva
pensato e scritto di una “scuola antropologica sarda”, nata da un nucleo
cagliaritano formato dai Maestri non sardi: Ernesto De Martino e Alberto Cirese, chiamati a insegnare a Cagliari, dentro
un progetto di apertura della cultura sarda, da Giovanni
Lilliu. Questa scuola è stata costruita nel tempo di sessant’anni
dagli allievi sardi di entrambi questi grandi antropologi non sardi, ma anche
da Clara Gallini, e in dialogo con alcuni allievi emigrati
come Piergiorgio Solinas ed io che abbiamo insegnato in
continente e fatto allievi altrove.
La scuola si estende, anche se con varie crisi
numeriche e di passaggi generazionali, anche a una intensa attività di
quarantenni, e non si limita al solo nucleo universitario, ma si estende di
fatto anche gli apporti di autori come Michelangelo Pira e Bachisio Bandinu, e, da dentro e da fuori
dell’Università, a quello di Gavino Ledda. Quindi
un ‘polo’ ricco di antropologia sarda, nutrita di quel grande contributo che è
venuto negli ultimi decenni anche dalla letteratura e dagli scrittori,
categoria alla quale Giulio apparteneva ormai con grande impegno e passione, e
dove era maestro: ho sentito Flavio Soriga dichiarasi
allievo di Giulio, non so quanti altri lo sono.
Ora che Giulio ci ha lasciato, con la serenità di un
antico saggio, lasciandoci un piccolo tesoro di poesie scritte su Facebook tra
la fine e il principio di due anni, ma alla fine del suo viaggio, abbiamo modo
di riflettere meglio su questa sua immagine di antropologia sarda. Una
antropologia poco ascoltata dalla politica, poco curata dai media, ma tenace
nella presenza critica. Pensandoci mi viene in mente Giulio dei primi anni
Settanta, quando facevamo insieme gli esami, lui già professore e io
volontario, mentre la Facoltà di Lettere di Cagliari viveva ancora la stagione
delle ribellioni. Fummo separati dal Sessantotto, Giulio, che era come un
fratello maggiore per me, più grande solo di tre anni, era già laureato,
insegnava, e poi fece il consigliere comunale comunista a Guasila mentre io
partecipavo al Movimento studentesco e poi ai gruppi extraparlamentari. Forse
ci guardava come dei figli di papà, allora, lui che, membro di una grande
famiglia contadina, aveva studiato in collegio in Piemonte, trattendone duri
ricordi di uno stigma escludente, e aveva lavorato a Milano da migrante per
finire gli studi. Fummo sempre così nel tempo vicini nella distanza.
Quando ho saputo della sua malattia e ho raccolto la
sua testimonianza di consapevolezza serena del passaggio, ci siamo detti con
riserbo la nostra amicizia. Ho ripassato la sua presenza nella mia vita. Fu lui
che volle che andassi al suo posto a insegnare a Roma e raccogliere l’eredità
di Cirese. Fu lui che riannodò spesso le fila richiamando noi emigrati
universitari a collaborare con studi e convegni sardi. Fu lui a regalarci lo
stupore dell’amico che si fa scrittore, che apre quel suo grande laboratorio di
storie, di vissuti, insieme segreto e gestito come in una doppia vita, e anche
palese fatto per essere letto, aperto alle persone: luogo e pagina dove
riconoscersi.
Lo rimproveravamo negli ultimi decenni di amare
più il ruolo dello scrittore che quello dell’antropologo. Sono le sue pagine su
Facebook che mostrano che nell’essere scrittore Giulio ritrovava una dimensione
pubblica, un dialogo con la gente, con il mondo dei lettori. L’antropologia –
chiusa anche nella crisi universitaria e nel poco ascolto istituzionale – dava
di meno. Ma nei suoi romanzi l’antropologia non è mai mancata, ne è stata una
nascosta protagonista. Forse la protagonista. Gli dicevo che per me L’oro
di Fraus era una stupenda monografia antropologica di un paese nel
passaggio alla modernità, e che i suoi romanzi erano più antropologici dei suoi
saggi. Non è che gli dispiacesse, tanto amava quelle sue più libere creature.
Sono stato un lettore attento e critico della sua
saggistica e un ammiratore dei suoi romanzi, li ho presentati a Siena, a
Firenze, a Palermo, ne ho scritto recensioni. Avevamo una sindrome
complementare lui amava il mio eloquio e io amavo la sua scrittura, ce li
invidiavamo reciprocamente e benevolmente. Aveva una sicurezza di scrittore che
mi colpiva, ci lavorava davvero tanto, una volta mio fratello mi disse che aveva
visto che il suo romanzo Una ignota compagnia era pressoché
scritto in endecasillabi, e quindi era un romanzo che aveva il ritmo
dell’epica. Quando lo dissi a Giulio mi guardò come a dire: ma cosa credevi che
io fossi uno scrittore naif ? Io la scrittura la costruisco consapevolmente. Mi
stupivano sempre i dettagli tecnologici dei suoi racconti, le informazioni
spaziali minuziose ed attente.
Giulio nel suo essere così sardo e sardofono e di
radice contadina era anche la nostra linea difensiva contro gli eccessi dei
sardismi. Ha scritto un libro di poesie in sardo, ma i romanzi tutti in
italiano, giocando semmai con la lingua materna. Ha scritto perché voleva un
mondo di lettori più grande di quello dell’Isola in calo demografico, ma ha
scritto per l’Isola. E così ha avuto l’ascolto di Feltrinelli, di Sellerio, e
ha avuto successo. Anche se non come sperava e speravamo noi ammiratori. Un
libro complesso , filosofico, esistenziale, e storico insieme, come Le
fiamme di Toledo, che comincia con delle pagine di etnografia della
Cagliari medievale, meritava riconoscimenti nazionali, Una ignota
compagnia è arrivato in finale a Viareggio, ed eravamo tutti con
Giulio anche per il valore politico del protagonista : Warui africano in
dialogo con gli immigrati sardi nella Milano consumista. Sulla faccia
della terra, racconto storico nel caos dalla guerra pisano-genovese (che
ricorda la Siria di oggi) narra la possibilità di vivere la diversità come
nuova comunità, è un romanzo storico di attualità, è stato libro del mese a
Farhenheit, nel marzo 2015 , ma doveva vincere a Viareggio. Giulio però era un
antropologo e non aveva le chiavi dell’estabilishment letterario, che forse,
chissà, lo riconoscerà nel tempo.
Lo leggeremo ancora a lungo e ci farà compagnia nel
futuro Giulio Angioni. Oggi ci fa compagnia dalle pagine di Facebook , che ci
ha insegnato a usare bene, con quelle piccole perle poetiche che ha scritto da
casa, malato, per essere ancora uno scrittore e un poeta pubblico.
Quando ha scritto su Facebook questa poesia, poco
prima di Natale:
Chemio 1
Oggi qui si sta in quattro in sala chemio
adagio distillando dalla flebo
ciascuno un suo dolore.
(GA)
Ho pensato di scrivere sulla sua pagina Facebook :
“scabro ed essenziale, sul fronte del Carso della vita comune”, per dire che in
tre versi e un titolo era stato capace di mettere insieme Ungaretti e Montale
ma aggiungendo una nuova funzione della poesia, quella di essere solidale nella
vita e nel dolore della gente comune.
Ma non lo ho scritto. E forse non è la sola cosa che
mi spiace di non avere fatto prima che Giulio partisse per il suo ultimo
viaggio.
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