lunedì 2 gennaio 2017

Il 2017 è l'anno della Russia, e l'Occidente non sa che fare - Fulvio Scaglione


E la Russia che fa? Rovescia le sorti della guerra in Siria, decide chi debba diventare Presidente negli Usa, porta attacchi mortali alla Ue, invade l’Ucraina, alimenta e sostiene i più assortiti populismi, spinge gli inglesi a scegliere la Brexit. Pure gli “incidenti di percorso”, come un ambasciatore ammazzato in Turchia o un aereo carico di musicisti e giornalisti che s’inabissa nel Mar Nero, sembrano confermare: c’è Russia dappertutto.
Il che, datecene atto, venticinque anni e qualche ora dopo le dimissioni di Mikhail Gorbaciov da presidente dell’Urss, costituisce un formidabile paradosso. Niall Gerguson, lo storico inglese che insegna negli Usa a Harvard, ha scritto su Foreign Policy quanto segue: “La questione tedesca… era se la riunificazione sotto un unico potere di tutti coloro che parlavano tedesco sotto un unico potere avrebbe creato uno Stato pericoloso nel cuore dell’Europa… Due vaste e catastrofiche guerre… lasciarono infine la Germania sconfitta e divisa… All’epoca della riunificazione nel 1990 la minaccia costituita da una Germania unita era scomparsa… Lo stesso non può dirsi per la Russia, che è diventata più aggressiva anche se la sua importanza economica è diminuita. La grande domanda geopolitica del ventunesimo secolo sarà: che fare con Mosca?”.
Ferguson la mette giù bene, da storico gentiluomo. Ma non v’è chi non oda nell’aria il familiare suono del grande pernacchione, il verso di scherno che la Storia fa alle spalle di chi ha provato a seppellirla anzitempo. La verità è che ci avevamo creduto. Ci aveva proprio convinto il buon Francis Fukuyama, con quella sua idea della “fine della storia”, avvenuta guarda caso con il crollo del Muro di Berlino.
E chi ci poteva fermare, con la fine dell’Unione Sovietica? Non era la dimostrazione che eravamo i migliori, anzi: gli unici? Il saggio di Fukuyama, “La fine della storia” appunto, uscì nel 1992 e per qualche anno il crogiolamento fu generale. Dazvidania tovarisc, ciao ciao compagno! Tutto finito, solo un grande “buco nero”, come scriveva l’ex segretario di Stato Zbigniew Brzezinski (“La grande scacchiera”, 1997), che poteva forse elemosinare un po’ di comprensione presso gli Usa e intanto acconciarsi a dividersi in tre: “Una Russia europea, una repubblica siberiana e una dell’Estremo Oriente”.
Anche un Paese che produce solo gas, petrolio e armi può produrre, con i giusti stimoli e nelle giuste condizioni, la merce più appetita del mondo: un’idea politica. La partnership con l’Iran, la guerra in Siria, il confronto con gli interessi Usa in Ucraina… Tutto era già là, nell’idea russa che ogni Paese ha diritto a seguire una propria strada e che non esiste un modello universale

Erano i favolosi anni Novanta. La Nato si allargava, i Balcani erano “liberati”, il Kosovo inventato, la Ue marciava verso Est, Boris Eltsin si accontentava di borbottare e nulla turbava i nostri sogni di onnipotenza. Poi venne il 2001, gli attentati alle Torri Gemelle e persino il buon Fukuyama concluse che sì, la storia universale aveva raggiunto il culmine con il trionfo delle democrazie liberali e oltre non si poteva andare, ma le storie nazionali magari erano in ritardo, si erano distratte o non avevano capito, e qualche sussulto poteva ancora intervenire.
C’è chi dorme ancora. Barack Obama, per esempio. Nell’ultima conferenza stampa alla Casa Bianca ha fatto di tutto per paragonare la Russia attuale all’Urss e ha chiamato Putin “ex capo del Kgb”. Poi ha aggiunto che la Russia “produce solo gas, petrolio e armi, nulla di ciò che la gente vuole”. Povero Barack, così ingenuo. Nessuno gli ha mai detto che la morte dell’Urss per nulla implicava, come già credeva Brzezinski ben prima di lui, anche la morte della Russia, che è cosa ben più ampia e profonda dei pur sconvolgenti tre quarti di secolo del potere sovietico. E perché anche un Paese che produce solo gas, petrolio e armi può produrre, con i giusti stimoli e nelle giuste condizioni, la merce più appetita del mondo: un’idea politica.
Nel 2005, con la fortuna tipica dei dilettanti, mi trovai a pubblicare un libro intitolato “La Russia è tornata” (Boroli Editore). Lo riapro e a pagina due scopro di aver scritto allora: “Molto semplicemente: la Russia rifiuta il ruolo secondario che in modo più o meno conscio le abbiamo assegnato dopo la fine dell’Urss… Dobbiamo quindi rassegnarci al fatto che una certa Russia, data con troppo anticipo per scomparsa, si è ripresentata sul mercato della politica e con lei dovremo fare i conti”.
La partnership con l’Iran, la guerra in Siria, il confronto con gli interessi Usa in Ucraina… Tutto era già là, nell’idea russa che ogni Paese ha diritto a seguire una propria strada e che non esiste un modello universale. Con tanti saluti ai becchini più o meno interessati della Storia, alla corte di Vladimir Putin viva e vegeta come non mai. Certo, finché erano quei testoni dei russi, pazienza. Ma ci sono anche i cinesi a pensarla così. Gli iraniani. I turchi. Un altro po’ di Paesi in Asia e in Medio Oriente. Il che fa pensare che quella di Ferguson, “Che fare con Mosca?”, sia la domanda giusta per il ventunesimo secolo solo se trasformata in “Che fare di noi?”. Oppure, certo, possiamo continuare a pensare che il mondo giri intorno ai nostri sogni. In quel caso, auguri a tutti!

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