Che
cosa sta accadendo nella scuola italiana? Nel
quasi totale silenzio-assenso dell’intellettualità nazionale e della grande
stampa –
salvo qualche eccezione, ma non certo critica, come quella del Sole 24 ore, e
di qualche entusiasta apologeta – i nostri istituti
superiori vengono progressivamente spinti a trasformarsi in scuole per
l’avviamento al lavoro. L’applicazione della cosiddetta
“alternanza scuola lavoro”, prevista nelle sue linee generali dal decreto
legislativo del 15 aprile 2005, sta trovando, con la legge sulla Buona scuola
del defunto governo Renzi, esiti sempre più chiari. Intanto quest’ultima
stabilisce l’obbligo di dedicare ben 400 ore ad
attività lavorative nel corso del triennio delle scuole professionali e
tecniche, e 200 nel triennio dei licei. Ore che
verranno sottratte allo studio per fare esperienze pratiche all’interno di
fabbriche, imprese agricole, musei, ospedali, archivi, ecc.
L’integrazione delle
strutture formative nella sfera delle imprese appare ben chiara dall’art. 41:
«A decorrere dall’anno scolastico 2015/2016 è istituito presso le camere di
commercio, industria, artigianato e agricoltura il registro nazionale per l’alternanza
scuola-lavoro». La scuola italiana diventa un ambito che marcia sempre più in stretta
cooperazione con il mondo della produzione, dei servizi e del commercio.
Il silenzio su questo processo di
gravissima subordinazione dei processi formativi alle esigenze di breve periodo
delle imprese, dipendente da una abborracciata lettura delle tendenze del
capitalismo contemporaneo, si può anche comprendere. Da noi è universale la
leggenda secondo cui la scuola italiana ”è lontana dalla società” “ i nostri
ragazzi escono da scuola senza nessuna esperienza della realtà”, ecc. Dove
naturalmente “realtà” e “società” coincidono perfettamente col mondo delle
imprese e col mercato del lavoro.
La complessità del mondo reale si riduce alle esigenze presenti del
capitale. Sicché a stabilire un nesso tra la scarsa
preparazione al lavoro degli studenti e la disoccupazione giovanile a livelli
record diventa fin troppo facile. Facile per menti semplici. Facile per un ceto
politico che da tempo ha smesso di analizzare le strutture profonde del
capitale e tenta solo di rispondere agli umori dell’opinione pubblica e di
seguire il corso degli interessi dominanti. Infatti, l’articolo 33 della L.
sulla Buona scuola, dichiara solennemente che l’alternanza scuola-lavoro viene
attuata «Al fine di incrementare le opportunità di lavoro e le capacità di
orientamento degli studenti». La scuola, tutti gli istituti superiori, devono e
acquistare competenze per il lavoro. Sarà questa esperienza sul campo dei
nostri ragazzi a favorire lo sviluppo dell’occupazione. Come si può capire è un
modo di trasferire un gigantesco problema su un terreno di facile manipolazione
ideologica.
Ora vediamo
partitamente gli errori gravi e ostinati cui conduce questa linea. Senza qui
soffermarci sui possibili effetti di lungo periodo. Quelli, intendo della
progressiva distruzione della nostra tradizione culturale e di una intera
civiltà.
La disoccupazione
italiana non dipende certo dalla scarsa preparazione dei nostri giovani,
capaci, al contrario, di industriarsi anche nei più disparati lavori, e pur
possedendo spesso lauree e master vari. Da noi è più grave che altrove, per
ragioni legate a vari fenomeni dello sviluppo italiano, alquanto noti, ma non
certo per incapacità tecnica e culturale delle nuove generazioni. Il fenomeno,
del resto, investe in diversa misura tutte le società industriali e non
riguarda solo i giovani.
La disoccupazione è
figlia di alcuni caratteri strutturali del capitalismo del nostro tempo per
mutare i quali occorrerebbe uno sforzo politico sovranazionale di vasta
portata. Essa dipende da alcune scelte ideologiche di politica economica, (la
riduzione della capacità di investimento da parte dello stato, la restrizione
del welfare, la politica fiscale non progressiva, ecc) e soprattutto dal carattere
predominante assunto dal capitale finanziario (il Finanzcapitalismo analizzato da
Gallino). Ma un più profondo ambito strutturale oggi opera nel capitale con
caratteri di labor killing. L’innovazione tecnologica va
distruggendo posti di lavoro. Sul punto la letteratura è
ormai vasta, preoccupa la Banca mondiale e perfino l’Onu ha lanciato un grido
d’allarme. (E. Marro, Allarme Onu: I robot sostituiranno il 66 per cento del
lavoro umano, Il Sole 24 0re, 18.11.2016) Ed è ormai diventato un vano ritornello
richiamare la “teoria” della caduta a cascata.
Le nuove tecnologie
distruggono vecchi posti di lavoro ma i nuovi che creano sono proporzionalmente
sempre di meno. Non si tratta solo di previsioni e non solo dei settori
manifatturieri. Nel novembre del 2016, ad esempio, il capo del personale della
Wolkswagen ha annunciato che nei prossimi quindici anni 32 mila persone
andranno in pensione e non verranno sostituite. Ci penseranno i robot. Ma si
tratta anche di storia già consumata e che riguarda non solo semplici lavori
automatizzabili, ma nuovi settori e funzioni: dalla burocrazia alle professioni
legali, dal commercio ai servizi finanziari, dalla formazione alla medicina.
Una ricerca del 2013
di due economisti del Mit, E. Brynjolfsson e A. Mac Afee (di cui è uscito per
Feltrinelli, La nuova rivoluzione delle macchine,
2015) ha mostrato come a partire dal 2000 le linee della crescita della produttività e quella
dell’occupazione si sono divaricate. Dopo un decennio,
questo fenomeno appariva come «il grande paradosso della nostra epoca». É
avvenuto il «Great decupling»,
termine complesso che si riferisce alla crescita esponenziale della
produttività e che potremmo tradurre con il “grande disaccoppiamento”: «La
produttività è a livelli record, l’innovazione non è mai stata più veloce, e
tuttavia, allo stesso tempo, noi abbiamo la caduta del reddito mediano e
abbiamo meno posti di lavoro» (D. Rotman, How Technology is destroying Jobs,
«MIT Technology Review», giugno 2013).
Dunque piegare
la formazione delle nuove generazioni ai bisogni del lavoro che muta di giorno
in giorno è pura insensatezza. Una verità nota agli
esperti già dagli anni Sessanta, (F. Pollock, Automazione, Einaudi 1970) ma
prontamente dimenticata dagli attuali novatori. Quel
che occorre è, con ogni evidenza, una formazione culturale non piegata ad alcun
specialismo, aperta e complessa, una “educazione della
mente” che sappia affrontare con strumenti critici uno mondo sempre più
velocemente mutevole. Che non è solo il mondo delle imprese e del lavoro. Senza
dimenticare che i ragazzi vivono anche di sentimenti e passioni, sono immersi
in una sfera spirituale che ha bisogno di orientarsi e arricchirsi. Il pensiero
unico va cerca di infilarsi anche nella scuola, ma va soppresso sul nascere.
È vero che i
difensori più intelligenti dell’alternanza scuola lavoro la mettono sul piano
più generale della formazione di attitudine all’impresa. Ha scritto di recente
Alessandro Rosina, riprendendo alcune indagini recenti come quella Ocse-Piaac,
che scopo di questo nuovo indirizzo della scuola deve essere quella di fornire
ai ragazzi «l’intraprendenza, la capacità di lavorare in gruppo, l’abilità di problem solving, l’autoefficacia, il saper prendere
decisioni» (La Repubblica, 3 dicembre 2016).
Dunque tutti imprenditori? Alla fine tutte le istituzioni della
formazione si devono piegare ad uno scopo unico: creare degli individui
efficienti sul piano delle attività produttive e di gestione d’impresa. Le
nuove competenze infatti, scrive sempre Rosina, «devono diventare parte di un
solido processo di riposizionamento delle nuove generazioni al centro dello
sviluppo del Paese». Credo, contro la stessa intenzione di Rosina, che tale
posizione esprima il pensiero unico all’opera sotto forma di progettualità
innovativa, di proiezione verso il “futuro”, di nuovo slancio allo sviluppo
dell’Italia. Incarni, insomma, l’utopia di creare un “uomo nuovo” seriale,
omogeneo, flessibile, interamente modellato dal suo finale compito economico.
Ma davvero di questo tipo di figura abbiamo oggi bisogno per l’oggi e per il
futuro? Compito
della scuola è quello di rendere ancora più efficiente e innovativo il mondo
delle imprese?
È paradossale
osservare come la nozione di innovazione sia oggi interamente assorbita
nell’ambito della tecnica e nella sfera dell’economia. Vale a dire l’ambito in
cui l’innovazione è già incessante e senza requie, anche con esiti di grande
portata per il miglioramento delle nostre condizioni di vita. Ma pressocché
nessuno osserva la drammatica divaricazione che lacera la nostra epoca: mentre
l’innovazione avanza vorticosa nel mondo della produzione e dei servizi essa
non muove nessun passo nell’ambito dell’organizzazione sociale. Le nostre
società poggiano su economie del XXI secolo, ma l’esistenza delle persone si muove
entro quadri organizzativi della vita quotidiana che appartengono al XX secolo
e tendono a indietreggiare verso il XIX. Mentre le ristrutturazioni
organizzative, la digitalizzazione, i robot, (e già ora l’intelligenza
artificiale, le stampanti 3D) sostituiscono masse crescenti di lavoratori da
attività produttive e servizi, la giornata lavorativa resta quella del secolo passato,
comincia al mattino e finisce la sera, la distribuzione del
reddito è sempre più disuguale, la disoccupazione
endemica, i servizi sempre più costosi e inaccessibili. Mentre c’è
sempre meno bisogno di lavoro, anziché progettare una
società più libera, che si dia nuovi fini, che corrisponda a questo obiettivo
processo di liberazione da bisogni e fatiche, si tenta di piegare l’intero
processo della formazione delle nuove generazioni agli imperativi di una più
efficiente produzione. Ma dov’è finita la capacità di pensare del ceto politico
e dei suoi dintorni?
Naturalmente questa critica non è una difesa dello status quo
della nostra scuola. Che anche gli studenti del liceo classico abbiano contatto con l’ambiente
delle imprese può essere utile alla loro formazione. Ma il rapporto con tale
ambito non deve essere finalizzato all’avviamento al lavoro, quanto a un
arricchimento della loro formazione. È assai formativo
che i giovani, specie se provenienti da famiglie borghesi, osservino da vicino
chi sono le donne e gli uomini che tutti i giorni, con la loro fatica,
attenzione, intelligenza, abilità assicurano la produzione della ricchezza del
nostro Paese. È utile che osservino la potenza tecnologica cui è pervenuta l’attuale
industria manifatturiera, frutto dell’umano ingegno, ma che vedano anche quanto
fatica costa agli operai servirla, dalla mattina alla sera, con costante e
usurante attenzione. Che i giovani destinati a diventare
giuslavoristi, economisti o giornalisti economici trascorrano per qualche tempo
delle ore in fabbrica potrebbe essere molto importante per il loro futuro
professionale e per tutti noi: eviterebbero di occuparsi di lavoro e di mercato
del lavoro con meno cinismo e irresponsabilità di quanto oggi non accada.
Dovremmo ricordaci che per tutta l’età contemporanea, nei due secoli e passa di
storia delle società industriali, mai le innumerevoli élites che
sono diventate classi dirigenti dei rispettivi paesi hanno attraversato nel
loro percorso formativo una esperienza conoscitiva della fabbrica. Due mondi
necessariamente separati per rendere possibile l’architettura classista della
società.
Non meno utile alla
formazione dei ragazzi può essere la frequentazione delle aziende agricole. Ma
anche qui non per trasformare lo studente in un apprendista lavoratore. È
significativo del basso orizzonte dell’attuale ceto politico che si occupa di
istruzione quanto ebbe ad affermare il sottosegretario all’istruzione del
passato governo, Gabriele Toccafondi: «I ragazzi imparano a fare ma anche a
vendere: lo studente che esce da un agrario deve saper fare un formaggio, ma
anche saperlo vendere» (Corriere della Sera, 20.11.2014).
Personalmente annetto un valore formativo al “saper fare”, perché
nell’uso delle mani si possono talora trasmettere antichi saperi e abilità. Ma
purché questo si inserisca in una formazione culturalmente più alta e complessa
e che non rimanga nel ristretto orizzonte di un vecchio mestiere.
In un azienda agricola si possono apprendere cose ben più importanti per una
moderna formazione culturale che non imparare a vendere il formaggio. Con
l’aiuto di un bravo agroecologo i ragazzi possono sperimentare un approccio
rivoluzionario alle scienze naturali, oggi così neglette e sciattamente
insegnate. È sufficiente partire da un pugno di terra, una manciata di suolo
agricolo, per spiegare l’evoluzione geologica del suolo terrestre, per passare
poi alla sua composizione chimica, alla biologia dei microrganismi che
contiene, ai meccanismi che presiedono al nutrimento delle piante, alla loro
fisiologia, patologie, rapporto con gli insetti, comportamento e dipendenza dai
fenomeni climatici.
Insomma dentro
un’azienda agricola i ragazzi possono apprendere i fenomeni vitali che si
svolgono all’interno di un habitat che è un frammento della nostra biosfera.
Per questa via le varie discipline, in cui è stato frammentato il sapere
scientifico contemporaneo, rivelano il loro carattere parziale e convenzionale
e si ricompongono in una visione unitaria del mondo in cui viviamo. È di questo
sapere che oggi abbiamo bisogno: necessità di una visione più complessa del mondo reale, per avviare un rapporto di
cura con la natura, dopo secoli di dissennato saccheggio.
E naturalmente, questo tipo di insegnamento deve avvenire rompendo lo schema
ottocentesco della classe, dominata dalla figura dell’insegnante demiurgo e dei
discenti da indottrinare, disciplinare e punire (si veda l’utile G. Stella, Tutta un’altra scuola, Giunti 2016). E’ qui l’altra
rivoluzione da compiere, insieme alla valorizzazione, economica e formativa di
chi tiene in piedi la scuola: gli insegnanti.
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