Essere zingaro nell’anima, trasferire la
musica tzigana nel jazz, questo il felice azzardo di Django Reinhardt.
Era nato il 23 gennaio 1910. Entrò nel mondo
da un carrozzone di artisti itineranti, nel borgo di Liverchies, in Belgio. Le
atmosfere da circo le respirò sin dai primi istanti di vita. Vita da artista
come quella della madre Laurence Reinhardt – l’acrobata “negra” – mentre il
padre Jean Vées, abile intrattenitore musicale si cimentava con con il violino
e la chitarra, Quando il primo conflitto mondiale terminò, lui era ancora un
bimbo, analfabeta, che, dopo aver viaggiato a lungo, rientrò a Parigi con sua madre
per giungere a “la barriera di Choisy”. Non ebbe bisogno di studiare la musica:
scaturiva dalla sua anima e attraverso le sue due dita si spandeva dalle corde
di una chitarra e di un banjo. Si esibì nei locali accompagnato da talentuosi
fisarmonicisti e, quando in Place Pigalle, ascoltò per la prima volta i ritmi
di Billy Arnold se ne innamorò perdutamente.Suonando con due dita – le uniche che riuscirà
ad utilizzare dopo la grave ustione alle mani – si inventò un nuovo modo per
far parlare le corde della sua chitarra.
Poi negli anni ’30 Django rimase folgorato
dalla musica di Louis Armstrong. Più fonti narrano che nel luglio 1931, dopo
aver ascoltato Indian Cradle Song, Django scoppiò in lacrime gridando «Ach
Moune ! Ach Moune!» cioè “Mio fratello, mio fratello». E realizzò il suo sogno
di suonare con Satchmo nel 1934.
A scoprire il suo swing intorno alla metà
degli anni Trenta fu Pierre Nourry, uno dei principali animatori dell’Hot Club
di France, il quale rimase folgorato durante le improvvisazioni jazz di Django
assieme a Stephane Grappelli. Da
quell’esperienza nacque il leggendario Le Quintette du Hot Club de France,
il loro era un sound a base di improvvisazioni jazz e fulminanti intermezzi
solisti. Li scoprì anche Duke Ellington invitandoli a New York per una serie di
concerti. Nel 1950 arrivò anche a Roma per suonare nel locale Open Gate e
registrare una serie di brani.
Quelle improvvisazioni, caratterizzate da note
vibranti che sembravano avere vita propria, stregarono un pubblico di
intenditori. Lui, lo zingaro sul quale pochi avrebbero scommesso, quello che il
critico André Hodeir, definì “incidente pittoresco” divenne fonte di
ispirazione anche per Toni Iommi il chitarrista dei Black Sabbath il quale come
lui dovette inventarsi un modo per poter suonare nonostante la menomazione alle
dita di una mano. La sua musica ha cambiato l’Europa attraverso il suono
metallico e sensuale della chitarra manouche, musica d’ avanguardia che seppe
competere senza timore con le sonorità americane del jazz degli albori. Sarà Parigi a decretarne la consacrazione, attraverso jam
session infuocate negli anni tra il ’46 e il ’53, quando gli zazous,
i forzati del jazz, vennero da ogni parte per godere delle sue sfide
virtuosistiche. Poi Django diminuì sempre più le sue esibizioni per coltivare
una nuova passione: la pittura descrittiva e naif. La morte lo colse
improvvisamente a soli quarantatrè anni, per un’emorragia cerebrale.
Nacque e morì povero. Nessun attaccamento per
il denaro guadagnato durante la carriera. Sempre “aristocraticamente” un
manouche , uno che «a forza di essere vento» tornò a suonare al cielo.
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