La guerra
che viene è il grande fatto del nostro tempo. Cifra del presente e tema
centrale intorno a cui tutti gli altri si ricombinano, si ristrutturano, si
organizzano. Tra questi, la scuola e l’università, punti nodali della
riproduzione capitalistica e sociale.
Da una
parte, come «industrie della formazione» atte a produrre e disciplinare la
merce oggi più preziosa: quei soggetti che verranno chiamati a lavorare e
combattere per la guerra dentro fabbriche, magazzini, laboratori, aule e
uffici, o direttamente sul campo di battaglia. Dall’altra, tuttavia, come
luoghi di mobilitazione giovanile e comportamenti di rifiuto che negli ultimi
anni, intorno ai conflitti globali, e in special modo la Palestina, che
coinvolge anche le dimensioni decoloniale e della razzializzazione interne alla
composizione di classe delle nostre latitudini, hanno visto una nuova generazione
politica prendere
parola, tra tentativi di conflitto, spontaneità e contraddizioni.
Come si
stanno trasformando scuola e università dentro la guerra? Quale funzione sono
chiamate a ricoprire, da Stato, imprese e politica, nell’organizzazione,
mobilitazione, e produzione bellica? Quale ruolo degli istituti tecnici e
professionali, baricentrali per la formazione della forza lavoro specializzata
per la fabbrica della guerra e al contempo alla formazione allo sfruttamento,
con alta concentrazione di soggettività razzializzate, ma sovente esclusi o
impermeabili agli interventi politici? Quali sono i soggetti coinvolti dentro i
processi di trasformazione e che istanze, pulsioni e visioni materiali
esprimono (o possono esprimere) nelle mobilitazioni contro la «fabbrica della
guerra»?
Sono queste
alcune piste da cui siamo partiti nella discussione del primo incontro del ciclo «La fabbrica della
guerra», organizzato il 12 ottobre 2024 al Dopolavoro Kanalino78 a
Modena, con studenti – militanti di collettivi e organizzazioni – attivi nelle
lotte di scuole e università. Un ciclo pensato come una macchinetta per
inchiestare soggetti, territori e processi coinvolti in questo tempo di guerra
da decifrare e sovvertire, e inquadrare nuovi strumenti, punti di vista,
elementi in grado di affrontarne la complessità all’altezza giusta – obiettivo
sicuramente alto – dei problemi.
Vogliamo
qui, in questa introduzione agli interventi, elaborare meglio il nostro punto
di vista su alcuni nodi che la discussione con i compagni ci ha permesso di
definire meglio. Senza certezze in tasca, se non quella della materialità dei
problemi che si pongono collettivamente, e alcuna ricetta per l’avvenire, se
non quella di porre tale materialità a verifica e alla proficua discussione,
che speriamo possa approfondirsi e costruire un punto di vista più avanzato sui
problemi, insieme a tutti i compagni validi come quelli intervenuti al
dibattito
.
Il
protagonismo sociale, o della ricerca dell’autonomia
Tagliando
subito con l’accetta, dagli interventi del dibattito crediamo emerga
chiaramente un punto critico di questa fase, che non è una novità ma portato
lungo di fasi precedenti che non possiamo qui approfondire: la debolezza,
quando non proprio assenza, di protagonismo sociale dei soggetti – in questo
caso, appunto, studenti, ma il discorso si può generalizzare. Protagonismo
sociale che possiamo (e ci piace) chiamare anche autonomia, con la
a minuscola. Se c’è un nemico da scardinare, è questo non protagonismo, questa
passività, che come Kamo abbiamo toccato con mano direttamente anche a Modena
nelle esperienze e negli incontri avuti insieme al soggetto giovanile della
nostra città.
Questo non
protagonismo, dal nostro punto di vista, può assumere varie forme.
La più
immediata è il ritirarsi individuale e individualistico da ogni tipo di
partecipazione collettiva, da processi di attivazione e decisione dove mettere
in gioco la propria forma di vita che lo status quo capitalistico ha assegnato
alla nascita, dal farsi avanti all’interno di una dimensione di mobilitazione
che ecceda il proprio io e lo arricchisca, in una sintesi non più scindibile,
in un noi. Il ritirarsi, quindi, in un privato oggi sovrapponibile
completamente al mondo della merce, al suo più o meno edonistico e nichilistico
godimento. Il godimento davvero povero della potenza della vita fatta
coincidere col segno impresso su di essa dal rapporto sociale di capitale.
Questa è la forma che è stata chiamata e che riteniamo corretto chiamare
della diserzione, maggioritaria oggi tra gli studenti oltre che
nella società più complessiva, con tutte le sfumature e gradazioni del caso:
dal votarsi all’imperativo di arricchimento facile e veloce che la ragione
neoliberale, ancora nella sua fase di putrefazione, promette possibile e
auspicabile (magari cavalcando la schizofrenia dei flussi tramite app di
trading e criptovalute che hanno reso portatile la speculazione finanziaria),
al ritagliarsi una nicchia di comfort, civile e moralmente sostenibile,
vivibile e discretamente sensibile, nel caos sempre più crescente della realtà
percepita.
Ma vediamo
anche la forma della delega del proprio protagonismo a un ceto di attivisti
“professionisti”, scegliendosi il “brand” identitario che più aggrada o si
addice al proprio curriculum, accontentandosi di seguire, condividere, likeare –
nella vita vera come si fa sui social – contenuti fruiti ma mai prodotti dalla
propria autonomia, per poi passare ad altro al cambio di trend; fruizione
passiva, momentanea, di cause o lotte, da utenti consumatori, che in una città
come Modena le articolazioni istituzionali e le cinghie di trasmissione del
centrosinistra (spesso coincidenti) hanno buon gioco a sussumere e
capitalizzare nei propri meccanismi, con risorse materiali e di posizione
adeguate ad assorbire e rendere compatibile ogni piccolo sussulto di
protagonismo potenzialmente di rottura. È questa la forma debole e impalpabile
della società civile, di cui spesso abbiamo visto processi organizzativi e di
lotta finire per scambiare un suo sfruttamento tattico come soggetto di
riferimento e fine strategico. Se certi tipi di segnali di protagonismo vengono
facilmente assorbiti da questa forma, crediamo che il problema non sia tutto
sui limiti dei militanti che non li hanno saputi intercettare e deviare: spesso
il problema è nelle soggettività stesse poco interessanti (e interessate) ai
fini della rottura.
Infine, per ultimo,
ma spesso non meno problematico per lo sviluppo di autonomia, quello che può
sembrare un ossimoro: il non protagonismo che rischia di esprimersi attraverso
la militanza. Una forma di militanza che coincide con l’adesione a
organizzazioni partitiche, gruppi protopartitici, sindacalistici o attivistici
che negli ultimi anni, a fronte del blocco dello sviluppo di larghi
sommovimenti di classe o di pezzi di classe, tanto reali quanto spuri, su
istanze materiali di soggettività altrettanto ambivalenti quanto reali
(pensiamo, in questo senso, a ciò che è stata l’Onda tra 2008 e 2011, o
all’irrompere delle lotte dei facchini tra 2011-2014), abbiamo visto fiorire e
diffondersi, coinvolgendo pezzi non secondari delle nuove generazioni politiche
emergenti. Gran parte delle organizzazioni, delle più varie tendenze e
strutturazioni nazionali (perfino internazionali), rispondono facilmente alla
richiesta di certezze da parte di soggetti giovanili che
affrontano i loro tempi con ben poche di esse in tasca. La certezza di
un’identità, in questo caso politica, di un percorso strutturato, di
un’ideologia canonizzata, di una comunità costituita, di una parola d’ordine,
del contenuto di un volantino, di una prassi consolidata, magari già decisi
altrove o legati a lotte di altri pezzi di mondo, facilmente solo da seguire o
applicare. La sensazione di fare qualcosa non solo di giusto, ma di rilevante,
“sul pezzo” della cronaca: anche se non si può cambiare niente della propria
vita, almeno ci si sente parte di una comunità o di una potenza lontana che
agisce. Qui sono senza dubbio confluite molte energie e intelligenze politiche
mosse negli ultimi anni dalla ricerca, non senza ambivalenze o difficoltà, di
protagonismo, o che hanno espresso timidi ma importanti segnali di esso. Qui,
purtroppo, possono finire per ristagnare, esaurirsi o riprodurre l’esistenza di
quei contenitori che, nella nostra particolare esperienza, sono risultati
tuttalpiù scatoloni vuoti: collettivi o sigle a uso e consumo della politica
“nazionale” o dei politicismi dei gruppi territoriali che, come a un mercato
delle vacche, si contendono l’adesione di questo soggetto giovanile a colpi
della miglior offerta simbolica, ideologica, organizzativa, secondo anche
logiche di targetizzazione. Non di certo strumenti territorialmente
e soggettivamente situati di conricerca, espressione e potenziamento delle
potenzialità di protagonismo e lotta delle soggettività giovanili a partire
dalla materialità situata di esse. Questa forma di militanza, oltre a essere
alla lunga impoverente invece che arricchente, crediamo sia anche “rischiosa”:
fiorente e apparentemente solida nelle fasi di “calma”, dove la spontaneità
sociale è debole e l’autonomia arretrata, quando il rischio è quello di far
coincidere la militanza all’esperienza di “marcare il cartellino”, si può
dimostrare estremamente fragile invece quando investita dalla potenza di un
movimento reale, spurio, di soggetti sociali in tutta la loro contraddittorietà
e ambivalenza, capace di squadernare ogni certezza, identità, linguaggio,
comunità precostituiti se non radicati in un autonomo punto di vista e un
metodo della conricerca. Lo diciamo senza nessuna nostalgia di forme di
militanza tanto intense quanto fragili, che richiedono e bruciano tutto nei
tempi corti, vuoti e accelerati dell’età giovanile e universitaria, ma non
reggono ai tempi dilatati, pieni e anche frustranti della maturità lavorativa,
affettiva, anagrafica.
Per una
lettura critica della diserzione
Non ci
convince del tutto, oggi, la parola d’ordine della diserzione, evocata nelle
mobilitazioni in ambito universitario. Utile come concetto suggestivo
d’agitazione contro la guerra, ci pare più debole sulla linea della
controsoggetivazione, come comportamento su cui fondare un processo
organizzativo. Non ci convince la sua potenzialità sovversiva all’interno
dell’attuale fase della congiuntura di guerra, dove non c’è ancora
mobilitazione di guerra da cui disertare, ma tutta da capire la forma stessa
della riorganizzazione del comando sul sociale in funzione della forma guerra
che si sta dando o si darà.
Può essere
la diserzione una tendenza su cui inserirsi, anticipando e radicandosi
nell’ambivalenza di un comportamento sociale spontaneo poi da trasformare in
rifiuto organizzato? Senza ricette, con la sola certezza che sarà la messa a
verifica nella prassi militante della conricerca a dare la risposta, proviamo
ad articolare alcuni punti critici utilizzando la storia, la nostra storia, la
tradizione che ci siamo scelti.
La
diserzione, la dimissione, il ritirarsi, nella situazione concreta di oggi, è
un comportamento ambivalente o di rottura, come è stato, per fare un esempio,
il rifiuto del lavoro in un’altra epoca che ci è alle spalle?
Il rifiuto
del lavoro è stato espressione di una determinata composizione di classe dentro
una determinata organizzazione di fabbrica. Un comportamento, in forme anche
passive, di una minoranza non minoritaria di operai, di un’avanguardia però di
massa, dentro e contro la fabbrica fordista degli anni Sessanta – anche contro
altri pezzi di composizione! – e poi nella fabbrica sociale degli anni
Settanta. Comportamento che, prima scoperto e anticipato grazie alla conricerca
operaista, e poi organizzato politicamente dai militanti nella lotta dentro la
produzione e diffuso conflittualmente nelle articolazioni della riproduzione
sociale, ha inceppato per un decennio il profitto come variabile indipendente
della riproduzione capitalistica.
Oggi, dalla
nostra visuale, la diserzione è un comportamento già maggioritario e generalizzato.
Non solo degli studenti medi e universitari, ma dell’individuo democratico
complessivo prodotto dalla società neoliberale. La diserzione non la vediamo
come il comportamento ambivalente di un’avanguardia potenzialmente
conflittuale, ma la normalità della forma di vita della maggioranza, praticata
però in forma individuale e individualista, ripiegata nel privato, nella
ricerca edonistica del piacere, nella solitudine del lavoro.
Uno studente
che “diserta la guerra”, oggi, al tempo della diserzione già sociale, cosa
rischia di rompere? Rompe uno status quo, una condizione, o la riproduce,
attraverso lo stesso meccanismo con cui per esempio l’astensionismo
maggioritario oggi non è tanto espressione di una radicalizzazione politica
antisistema ma più sintomo dell’assenza di una politicizzazione della società?
La
diserzione è stata una scelta di campo concreta, materiale, alla base della
formazione del movimento partigiano nell’autunno-inverno del ’43. Una scelta di
campo imposta dall’alto, praticata con le spalle al muro, che metteva in gioco
la vita: o l’arruolamento nella Guardia nazionale repubblicana di Salò, le
camicie nere, o la via della clandestinità, che per un pezzo di quella
generazione cresciuta nel fascismo ha significato la via dei monti, a raggiungere
i primi nuclei di soldati sbandati, fuggitivi, ex detenuti, dove i quadri
politico-militari dei partiti antifascisti ancora erano pochi. Fu quella scelta
di diserzione di una minoranza a formare le prime bande partigiane: diciannove
mesi dopo, sarebbero discese sulle città del Nord Italia in formazione
disciplinata di esercito guerrigliero.
In quel
momento, la politicizzazione e la militanza, prodotte nella lotta partigiana,
hanno visto come passaggio preliminare obbligato una diserzione. Nelle condizioni
di oggi la militanza, la controsoggettivazione in una forma di vita militante,
riuscirà a costruirsi attraverso un comportamento che è già socialmente
maggioritario ma senza alcun tipo di rottura con la forma di vita dominante,
che è sì diserzione dal comando di guerra ma anche diserzione da forme di
conflittualità, rottura, ricomposizione?
Conclusioni,
malgrado il discorso sia lungo e incerto
Ecco allora
una domanda a guidarci. Dentro la «fabbrica della guerra», come alimentare i
segnali di protagonismo, a Modena ancora timidi e insufficienti, espressi
dall’avanzare di una nuova generazione politica che abbiamo visto attraversare
varie fasi di mobilitazione (dalla scuola alla Palestina), ma stenta ancora a
trovare forme autonome di protagonismo? E poi: come costruire una militanza
capace di cavalcare le vertigini, stare sulle ambivalenze, ribaltare le
certezze per costruire radicamento, progettualità e ricomposizione?
È ancora e
sempre lo stesso ordine di problemi, che come Kamo abbiamo contribuito a discutere e provato a nostro modo ad
affrontare; altri, questi ultimi anni, lo hanno sicuramente sviluppato meglio
con ben altri strumenti, possibilità ed esperienza. Alla nostra piccola
altezza, ci sentiamo di inquadrarlo dentro le suggestioni e le piste di ricerca
politiche lasciateci da Mario Tronti nel suo ultimo, postumo, scritto politico
e militante. Salvare la rivoluzione dal Socialismo, salvare
la libertà della Democrazia, dice Mario – e, aggiungiamo noi, salvare
l’autonomia dal Movimento. Da quello che è stato il ciclo, oggi esaurito,
dei centri sociali e del centrosocialismo, entro cui per tutta una fase si è
espressa la militanza autonoma. Nel presente, per il domani, si tratta di
salvare l’autonomia possibile di nuovi soggetti da quello che,
per semplicità e in mancanza di termini migliori per capirci, prende oggi
le vecchie forme del Movimento. C’è un lavoro da fare, di ricerca,
di elaborazione, di immaginazione. Senza l’ambizione di sapere che quel tempo,
il più inattuale, verrà. Perché il mondo e il tempo che stanno per arrivare,
tutto lascia prevedere che saranno al seguito del mondo e del tempo che sono
già arrivati. Facciamoci trovare pronti per domani, preparandoci oggi
all’inaspettato.
* * * *
Di seguito gli interventi che hanno
aperto la discussione. Buona lettura.
Marina – studentessa, militante di Osa
Visto che
tutto quello che abbiamo fatto nelle scuole in questi anni come studenti
organizzati si è basato sull’analisi della realtà, prima di parlare di scuola
due parole sul contesto generale e sul periodo storico in cui ci troviamo.
La guerra,
dall’Ucraina al Mar Rosso passando per la Palestina, è diventata il fattore
centrale. E l’Italia, nella guerra, assume un ruolo centrale. Segue le
politiche della Nato, aumenta le spese militari al 2% del Pil, continua a
inviare armi, e per farlo toglie i soldi alle scuole, all’università (la
recente manovra finanziaria prevede 500 milioni di tagli al Fondo per il
finanziamento ordinario delle università), alla sanità, alle spese sociali.
Come
studenti organizzati è stato importante quindi individuare il nostro nemico per
mobilitarci: il governo. Un governo guerrafondaio, un governo della guerra,
quello delle Destre, della Meloni.
Per lavorare
nelle scuole, abbiamo quindi colto la contraddizione dei soldi che invece che
essere usati per la nostra formazione vengono usati dal governo nelle guerre in
cui l’Italia è complice e corresponsabile: le conseguenze le vediamo
quotidianamente in tutti gli istituti da Nord a Sud, dove ogni giorno cadono
pezzi di soffitto sulle classi, mancano le risorse per metterli in sicurezza
dopo disastri ambientali come l’alluvione in Romagna, mancano spazi o materiali
per fare lezione, mancano veri sportelli d’ascolto e assistenza psicologica,
manca una vera educazione alla sessualità.
Abbiamo
riconosciuto il nostro nemico in una classe dirigente che utilizza la filiera
della formazione per far passare l’ideologia dominante e per mantenere il
consenso. Scuola e università come apparati ideologici di Stato, e manganelli e
stretta repressiva per chi protesta [si veda il Decreto sicurezza ddl
1160, ndK]. Ci è stata consegnata una scuola che non ha più quel
senso di emancipazione che poteva avere negli anni dello sviluppo delle lotte,
ma che continua a cristallizzare le condizioni sociali di partenza degli
studenti. La scuola non è più un ascensore sociale ma si è trasformata in
filiera formativa, centrale per l’aumento della competitività e della
produttività, e per la creazione di valore e per la crescita economica.
Questo è
evidente con il Pcto (l’alternanza scuola-lavoro) che costituisce una vera e
propria aziendalizzazione della scuola, in cui i percorsi di studio degli
studenti verranno modificati dalle imprese presenti sul territorio per creare
figure di lavoratori specializzati. Inoltre, con la nuova riforma degli
istituti tecnici e professionali di Valditara, che consiste nel ridurre un anno
di scuola per questi ultimi e accrescere le ore di Pcto, assistiamo anche a un
aumento di differenze tra scuole di serie A (come i licei, luoghi deputati a
instradare la futura classe dirigente) e scuole di serie B (istituti tecnici e
professionali).
Quello che
vediamo in generale è una crisi di egemonia dell’Occidente capitalistico che,
nel suo contorcersi, produce barbarie. Il discorso dell’Occidente capitalistico
si dice portatore di pace, di innovazione, di libertà, ma come vediamo produce
guerra, sfruttamento, repressione. E le classi dominanti non hanno e non
vogliono trovare soluzioni alle barbarie che producono.
Sappiamo che
lotte nelle scuole devono essere fatte pensando alla realtà che abbiamo
davanti. E nelle scuole noi vediamo una tendenza tra gli studenti a eludere
questi valori proposti dal discorso dominante, a non sentirsi rappresentati in
toto da questi valori, quindi a cercare di uscirne, a scapparne, in varie forme
e modi, magari cercando altri modelli. Forme e modi che però non vanno a rottura
con la società così strutturata, ma che comunque non sono conformi alla
narrazione che il sistema ha fatto di sé. Nelle scuole vediamo una serie di
fenomeni che vanno dal ribellismo individuale e individualistico, al disagio
psicologico, all’autolesionismo, al disinteresse da tutto ciò che succede, fino
anche allo scimmiottamento della criminalità e di comportamenti criminali. A
Modena, per esempio, quest’anno i rappresentanti d’istituto del Liceo Classico
Muratori, dove passano le future classi dirigenti, hanno chiamato la polizia
perché c’erano studenti del Tecnico e Professionale che venivano a rubare, a
picchiare, a fare brutto agli studenti del Classico davanti alla scuola.
Nelle scuole
vediamo che non c’è una spontanea prospettiva di rottura. Dobbiamo quindi
essere bravi come militanti organizzati a incanalare questo disagio e questa
rabbia degli studenti e portarli ad avere questa prospettiva, facendo come, per
esempio, dopo l’uccisione di 3 ragazzi in Pcto da cui è nata l’ondata di
occupazioni della Lupa a Roma nel 2022.
Chiaramente
non è facile, perché siamo in un contesto di depoliticizzazione e
de-conflittualità studentesca, in cui il nemico fa un attento lavoro di
deterrenza per impedire ogni ipotesi di mobilitazione. La sfiducia nella
possibilità di cambiamento e nell’utilità della lotta è veramente alta.
È stato
difficile come portare nelle scuole di Modena un punto di vista e una
prospettiva di rottura. Anche perché a Modena, feudo Pd, sono forti le
organizzazioni studentesche che sono l’articolazione di sindacati e di partiti
del centrosinistra di governo, filoistituzionali, socialdemocratici, come la
rete degli Studenti, l’Udu, eccetera. Abbiamo visto che non portano
effettivamente punti politici, ma riescono a sussumere tutto quello che hanno intorno,
a far su quello che con difficoltà e spontaneità prova a muoversi; hanno
appiattito le lotte che ci sono state, le hanno compatibilizzate, senza offrire
una vera alternativa e anche per questo, a Modena e provincia, quest’anno il
movimento studentesco non è stato dei migliori.
Chiaramente
ora con il movimento per la Palestina si è riuscito sicuramente ad ampliare e
mobilitare qualcosa, però ha avuto più successo nelle università che nella
scuola, e sicuramente qua a Modena nell’università non è partito niente.
Eppure, nonostante anche Forlì sia una città di provincia, lì il movimento è
partito dall’università.
A Modena è
stato interessante lo sciopero e la successiva mobilitazione scoppiati all’Ites
Barozzi. Partito come protestaperché la scuola non faceva andare
in gita le classi, non riforniva di
cibo le macchinette e faceva perquisire gli zaini degli studenti all’entrata, a
seguito della minaccia di sospensione della preside al rappresentante
d’istituto per aver rilasciato un’intervista esprimendo i problemi di una
“scuola devastata” la mobilitazione ha preso piede in difesa dello
studente. La mobilitazione contro la repressione è poi rientrata senza una
prospettiva di rottura, senza uscire dal proprio caso particolare, senza
guardare all’esterno della propria scuola.
Ci sta,
perché comunque questa “coscienza” la porti dall’esterno, non sono cose che
vengono su da sole, è qui la funzione del militante; però è una piccola
dimostrazione che sotto si muove qualcosa, anche in provincia gli studenti
possono muoversi e cercano un cambiamento, non è detto che a Modena non debba
accadere mai niente. Bisogna essere bravi a cogliere le contraddizioni quando
si manifestano materialmente che poi ti portano a uno scontro diretto.
Scuola e
università sono apparati ideologici di Stato, e i luoghi e i percorsi formativi
sono sempre pervasi dall’ideologia del nemico, come stiamo vedendo sempre più
chiaramente in questo stato di guerra. E noi come studenti dobbiamo continuare
ad utilizzare questi luoghi di formazione come campo di battaglia, per portare
avanti un’idea di formazione diversa, in una diversa società.
Elia – studente universitario, militante di Officine
della formazione
Il punto di
partenza della nostra inchiesta sulla composizione studentesca universitaria (in
forma estesa, i risultati dell’inchiesta si trovano sulla rivista
«Machina»: qui e qui) è tutto sommato semplice: la
constatazione che in università c’è un vuoto politico.
Questo vuoto
politico non è tanto da intendere in senso fenomenologico (“non c’è nessuno,
non esiste nulla di politico”). Alcuni gruppi ci sono sempre stati, e ci
saranno sempre, in forme e quantità più o meno sparute. Quello che ci interessa
considerare, invece, è il loro appiglio sulla composizione studentesca, la loro
capacità di muoverla e di agitarla. Insomma, ci sembrava che anche l’università
di Bologna fosse pacificata quanto qualunque università anglosassone o
nordeuropea.
Dire inchiesta
è, però, improprio. L’idea era quella di una conricerca. Ovvero,
produrre una conoscenza imperniata sul punto di vista di una soggettività,
quella studentesca, al fine di poter indicare la strada, da un lato, alle nuove
forme di organizzazione possibili dentro le università, assunta la crisi delle
forme esistenti, e dall’altro verso i “punti deboli” del sistema, non tanto in
senso oggettivo, ma soggettivo: cosa temono, desiderano e odiano gli studenti?
Quindi,
produzione di conoscenza collettiva e comune che, allo stesso tempo, possa
aprire uno spazio per l’autoformazione, per la formazione politica. Insomma,
ditelo come volete: per dare forma a nuovi militanti.
La tesi
principale che è emersa dalla conricerca è che non ci sembra possibile
rintracciare un residuo autonomo (un “fuori”), cioè una ricerca di conoscenza
pura e incontaminata, dalla volontà e dal desiderio degli studenti di essere
formati in quanto forza-lavoro competente e, soprattutto, desiderosa di
vendersi sul mercato del lavoro. Chi sceglie di studiare all’università lo fa
esclusivamente per questo motivo. Per descrivere questo processo abbiamo
utilizzato il concetto di “professionalizzazione”. La produzione – come
processo attivo, cioè voluto dal soggetto, e allo stesso tempo passivo, cioè
subito – di forza-lavoro specializzata pronta per essere inserita nel processo
produttivo.
Questa
questione va letta assieme alle aspettative degli studenti sul proprio futuro.
La ricerca dimostra un complessivo “innalzamento” delle aspettative rispetto al
titolo di studio. In altri termini, si studia poiché si ritiene possibile che
il titolo renda favorevole la collocazione nel mercato del lavoro. Tutto questo
sommato alle difficoltà e alle fatiche dello studio, che si accettano e
subiscono senza troppi problemi – o, comunque, si cercano di superare questi
problemi. La possibilità, nel futuro, “di fare quello che ti piace” ripagherà
la fatica. Infatti, non è secondario rimarcare come questa predisposizione
verso il futuro porti gli studenti ad accettare il sacrificio dello studio e
della formazione.
Bisogna
sottolineare che l’innalzamento delle aspettative legate al titolo di studio
non viene interpretato dagli studenti come un processo lineare e privo di
frizioni. Al contrario, è una vera e propria battaglia per il riconoscimento
della competenza e della formazione, che porta tratti anche culturali e
generazionali. Non mancano ostacoli e incertezze, tuttavia per quel che
concerne il titolo di studio sembra esserci davvero la fiducia che l’educazione
superiore sia un investimento che possa portare a una posizione favorevole
nella società.
Infine,
l’ultima riflessione riguarda il cosiddetto “sapere pratico”. Gli studenti
intervistati, infatti, richiedono una forma di sapere pratico-teorica, in
aperta contrapposizione a uno studio impoverito, standardizzato e nozionistico
come quello offerto dall’università oggi.
Il primo
lato della medaglia è il rifiuto di una certa verbosità, un certo vecchiume
dell’università italiana. Riprendendo le parole degli studenti, il sapere
pratico-teorico ti fa osservare, assieme alla professoressa, un certo fenomeno
in laboratorio, al di fuori della dimensione della lezione frontale e libresca.
Ma accanto a questo tipo di sapere ce n’è un altro che costituisce uno scarto:
quello che dà forma a una competenza tecnico-pratica, attiva: fare le cose con
le tue mani. Abbiamo chiamato questa forma di sapere semplicemente “tecnico”. È
proprio questa la forma di sapere a essere reclamata dal desiderio di
professionalizzazione degli studenti: il possesso di una tecnica capitalistica
professionalizzante, che li formi come forza-lavoro competente e professionale.
Vi è un
altro livello del discorso verso cui prestare attenzione e riflettere.
Tagliando con l’accetta, possiamo dire che il sapere della didattica
universitaria è così impoverito e standardizzato che l’unica strada
percorribile, per gli studenti, risulta essere quella della richiesta di
professionalizzazione. La ricerca di sapere e conoscenza “per sé” non si può
dare nella realtà capitalistica, dunque si sceglie la via della
professionalizzazione perché conviene. In altre parole, conviene perché il
sapere è talmente impoverito e modularizzato che tanto vale diventare un
professionista che applica quel sapere povero allo status quo capitalistico. Ma
questo, banalmente, significa che lo studente finisce per contribuire
attivamente e soggettivamente a divenire forza-lavoro specializzata, o forse
sarebbe più corretto dire “capitale umano”, realizzando il compito storico
dell’università capitalistica.
Crediamo che
questo passaggio vada assunto come un dato di realtà.
Non per
rassegnazione o ineluttabilità ma, al contrario, perché per rovesciare il
tavolo dobbiamo sapere bene di quale materiale questo tavolo è fatto, quali
sono le sue crepe, in che punto si può rompere. Questa “utentizzazione” della
figura dello studente, questa riduzione alla passività, al contenitore da
riempire, ci sembra che spesso si accompagni a una certa “protocollarità”
nell’approcciarsi al sapere da parte degli studenti. Una faccia della
professionalizzazione è proprio la protocollarità, nel senso dell’algoritmo: la
richiesta di possedere una serie di passaggi definiti per risolvere un problema
di cui si sa già che una soluzione esiste. I professori stessi riproducono questo
meccanismo, tenendo quanto più possibile lontano gli studenti dalla possibilità
di scontrarsi con problemi aperti, sia quelli radicalmente privi di soluzione,
sia quelli con una soluzione che non è data a priori. Ciò che conta è superare
l’esame: tutto si riduce nell’ingurgitare una serie di informazioni per poi
ripeterle il più fedelmente possibile in attesa di ottenere l’agognato “pezzo
di carta”.
Se questa
riflessione sulla professionalizzazione è chiara per le facoltà scientifiche,
ci sembra che anche i soggetti delle facoltà umanistiche, che si iscrivono
perché “amano ciò che studiano”, siano inseriti in questa stessa logica. Che
riguardi la volontà di diventare un ricercatore o altre innovative figure
professionali che possono emergere dagli studi umanistici, la figura
soggettiva, lo spirito e l’antropologia sono simili. Magari, agli studenti
delle facoltà scientifiche dei “seminari autogestiti” non interessa nulla,
mentre a quelli delle facoltà umanistiche interessa se riguardano l’argomento
della loro tesi o la possibilità di stringere la mano al professore di turno.
Ma ci teniamo a specificare: non c’è nessuna moralizzazione in questo discorso.
È così e basta, e lo abbiamo imparato a nostre spese, tentando più volte di
organizzare questi soggetti o di aggregarli proprio attraverso queste modalità
seminariali (che non riteniamo siano sbagliate in sé, per inciso, ma che vadano
assunte dentro l’orizzonte materiale di questa soggettività).
Qui dobbiamo
essere chiari. Da un lato questo è un processo soggettivo di trasformazione
antropologica della condizione dello studente. Quanti anni sono passati
dall’ultimo, reale, movimento? Possiamo dire quasi vent’anni senza movimenti?
Ecco, tutto ciò ci consegna questo soggetto qua. Però, ovviamente, questa lettura
assume un senso se la si legge nella più ampia questione della crisi della
militanza e della crisi delle forme della politica di quello che viene chiamato
“Movimento”, appunto. Cioè, dall’università – luogo del fermento giovanile – si
vede chiaramente come ad oggi non esista nessun terreno di identificazione
comune e collettiva: immaginari, pratiche, possibilità di dire “io sono questa
cosa qui” in senso politico, un soggetto politico riconoscibile (“siamo dei
centri sociali”, “dei collettivi” eccetera).
Un inciso va
fatto. Lo studente della professionalizzazione è lo studente che fa
l’investimento. E se questo lo leggiamo assieme ai processi selvaggi di
accumulazione ed estrazione capitalistici legati alla città, basta poco per
capire che nella città universitaria arriva chi se lo può permettere e, allo
stesso modo, come il capitale abbia affinato una selezione molto più a valle.
Insomma, arrivano studenti di ceto medio non troppo impoverito. Quindi, in
qualche modo, anche il terreno classico del diritto allo studio e
dell’accessibilità interessano poco questa figura studentesca. E lo si vede
bene dalle piccole mobilitazioni di qualche anno fa relative al caro-affitti
(le prime “tendate” per capirci), le quali alla fine vivevano più nel campo
dell’opinione che in quello della materialità dei soggetti.
E ora
arriviamo al sodo. Qualcosa che, invece, ha smosso, nel suo piccolo, per quanto
comunque in un quadro di assenza di mobilitazioni significative, sono state le
mobilitazioni in solidarietà alla Palestina. Proviamo a fare qualche
ragionamento, prendendo davvero sul serio che «solo la lotta può impedire la
barbarie». Ciò che segue va quindi letto come una forzatura per cercare di fare
passi avanti e rilanciare il discorso, rilanciare l’intensità della lotta.
Ora, senza
fare analogie macchiettistiche, senza dire «portare il Vietnam in fabbrica» o
«Bring the war home», è comunque accettabile affermare che queste mobilitazioni
per la Palestina siamo state una serie di rivendicazioni di solidarietà, mi si
consenta di dire, di opinione: quelle che potenzialmente restano imbrigliate
nel piano della moralità (e della giustizia astratta) e rischiano di avere poca
attinenza con la vita che facciamo tutti i giorni e che, però, nel lungo
periodo, nell’intensità e nella possibilità di rottura rischiano poi di
assopirsi.
Quindi, la
prima operazione di metodo mi pare questo: capire cosa porta dei soggetti
concreti a mobilitarsi e, soprattutto, a farlo più di una volta (credo che la
sola indignazione e la sola commozione siano necessariamente portati ad avere
una breve durata). Cioè, non è tanto un ragionamento per scovare la verità
oltre la menzogna, ma quanto per indagare proprio la costituzione materiale del
soggetto-contro. Dunque, cosa è emerso da questo soggetto?
La mobilitazione
non ha posto nessun accento oltre la questione palestinese. Senza dire sia
giusto o sbagliato, in generale, strategicamente o tatticamente, lo assumiamo
come dato di fatto. So che in altri contesti in Italia questo è invece
successo, dunque mi riferisco a dove siamo collocati, Bologna. I termini della
questione li conoscete: l’idea del boicottaggio accademico e dunque la fine
degli accordi tra l’università e diverse istituzioni israeliane. Non c’erano
dei ragionamenti che cercassero di ampliare il discorso o, diciamo, che per lo
meno lo facessero assumendo il piano della condizione studentesca, che ne so,
gli effetti degli accordi sulle lezioni, gli esami. E anche per questo motivo,
crediamo, che ci sia voluto un certo tempo perché assumesse i tratti di una
mobilitazione. Senza poi rimarcare che si tratti di una serie di rivendicazioni
– lo dico veramente con il pudore di dire una banalità – di natura
sostanzialmente sindacale. Cioè: si chiede la fine degli accordi, si può
vincere o perdere.
Ora, senza
ingenuità: le università piccole possono stracciarli subito quegli accordi,
quella di Bologna ha grossi problemi per ovvi rapporti di forza globali e
posizionamento nei circuiti del valore immateriale. Ad ogni modo, è
interessante notare come la questione della materialità soggettiva della
mobilitazione non sia stata posta in alcun modo, se non vagheggiando tutta la
questione degli accordi come contraddizione cardine del capitalismo, insomma
con un linguaggio che non affonda le radici nella materialità di quel soggetto
descritto sopra, insomma discorsi vuoti. Una prima spia del fatto ci fossero
altre ragioni verso la partecipazione, oltre al cuore della rivendicazione, pur
comunque assolutamente fondamentale.
Ora,
facciamo un salto verso le tendate. A Bologna, va detto, non bloccavano nulla.
Le malelingue potrebbero dire che fossero un centro sociale a cielo aperto. Ma
lì, invece come poi in altre occasioni, la partecipazione di una composizione
studentesca “vera”, spontanea, si è data.
Ora, la tesi
di fondo: questo “qualcosa sotto” ai soggetti che si mobilitavano, alle
tendate, ci è parso di poterlo vedere nel bisogno di socializzazione e di
rottura della solitudine che è tipica del percorso universitario. Il soggetto
che fa l’università oggi è sostanzialmente solo come un cane. Nonostante le
apparenze, anche le università sono territori in cui il legame sociale è
devastato e, in qualche modo, gli studenti riconoscono questa cosa e la sentono
come problema. Da un lato lo studente ha il percorso di investimento su se
stesso, quello che abbiamo descritto; dall’altro ha il consumo di divertimento
e di esperienza della città (che occupa un ruolo fondamentale, ovviamente) e
infine ha le patologie e i sintomi (ansia, depressione, solitudine). Questo non
è nulla di nuovo, sono i tratti della condizione giovanile. Certo. Però ci pare
proprio che in qualche modo, nelle tende, nella mobilitazione per la Palestina
si cercasse di rompere (e quindi implicitamente di politicizzare!) quella roba
lì. All’indomani dello smantellamento volontario delle tendate –
sostanzialmente per stanchezza e burnout, come si dice oggi (comprensibile dopo
più di venti giorni!) – il sentimento comune suonava così: “Non abbiamo vinto
nulla, ma almeno ci siamo divertiti e siamo stati assieme”.
Se gli
ingredienti per la politica sono gente incazzata e individuazione del nemico,
ci pare che questi due termini, oggi, non siano in alcun modo consegnati dalla
realtà verso il soggetto studentesco. Si possono – soprattutto, si devono –
operare delle forzature e verticalizzazioni, certo. Ma a ogni modo pare che
questo non si dia. Abbiamo più volte riflettuto su questo rapporto tra consenso
e forza dentro la mobilitazione. Ovvero c’era consenso ma mancava la forza,
dove per forza intendiamo la possibilità di individuare il nemico. E mi pare di
poter dire che non fosse tanto un problema di tattica e strategia, quanto un
problema di maturazione della soggettività. Insomma, che i nemici fossero il
rettore, un professore o un capo di dipartimento, lo erano sempre e soltanto
per un momento estemporaneo, per una fase.
Qui
provvisoriamente chiudo: quello che è stato, quello che è, e quello che sarà in
autunno penso si possa intendere come sintomo e preludio di qualcosa che, prima
o poi esploderà, e che però va proprio letto dentro questo vero e proprio
massacro della composizione giovanile.
Ora, se
vogliamo parlare di guerra e università dobbiamo almeno prendere in
considerazione tre tipi di guerra.
La prima è
quella più ovvia: il diretto ingresso della guerra dentro l’università. Stato e
capitale utilizzano l’istituzione per la produzione di conoscenza in funzione e
per la guerra. Quindi produzione legata alla competizione tra i diversi
capitali e diversi poli in conflitto in questa fase di destrutturazione e ristrutturazione
anche bellica della globalizzazione. Va tenuto presente quando si considera la
ricerca direttamente e indirettamente legata alla guerra anche il
cosiddetto dual use.
La seconda è
quella che materialmente distrugge le università. E pone un insieme di
problemi, a chi fa politica in quei contesti, del tutto differenti. Oggi Kiev,
Gaza, Beirut, ma sappiamo che altre guerre sono alle porte.
La terza è
l’economia politica intesa come continuazione della guerra con altri mezzi.
Insomma, la guerra del capitale contro di noi, la violenza dell’accumulazione
originaria che si ripete ogni giorno. E l’economia politica sussume, oggi
completamente, le università. Oggi ne abbiamo discusso dal punto di vista delle
trasformazioni soggettive (“utentizzazione” e trasformazione in capitale umano)
ma quelle oggettive sono forse ancora più lampanti: gli studenti come esercito
di forza-lavoro precaria a basso costo, l’indebitamento e la finanziarizzazione
dell’istruzione superiore, l’estrazione di ricchezza attraverso i prezzi degli
affitti e la privatizzazione selvaggia di tutto quello che un tempo erano
servizi.
Quindi, in
queste tre guerre guerreggiate, abbiamo provato a riflettere su come si porta
una guerra diversa dentro le università. Una specie di gesto leninista, una
“nostra guerra”, come discorso tattico, ma anche strategico – magari anche come
slogan, credevamo ad un certo punto. Un gran bel ragionamento. Ma tutto
sbagliato.
Il problema,
alla fine, è che il soggetto studentesco non è un soggetto che vuole fare la
guerra. Tutto il contrario. È un soggetto della diserzione. Senza illusione
che, ad oggi, diserzione sia qualcosa di profondamente diverso dal “dimettersi
in solitaria”. Bifo legge i sintomi (depressione, solitudine eccetera) come una
diserzione dalla realtà capitalistica – una rinuncia. Insomma, tra prendere una
parte nella guerra, parteggiare, o “darci a mucchio”, dove questo “darci a
mucchio” può essere prendere le pilolle o prendere lo spritz, lo studente è
comunque un soggetto che si dimette. Non prende parte.
Scontato
dire che tutto questo va organizzato, con forme e linguaggi della politica
nuova. Come sempre: con continuità e discontinuità assieme, le spalle al
futuro, la testa nuova e il cuore antico. Come recitava un titolo della stampa
di giugno, «nel 2029 la generazione Erasmus potrebbe dover marciare su Mosca»:
ne vedremo delle bruttissime, ma speriamo di farci trovare pronti per
organizzarla, la diserzione.
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