L’articolo
di Riccardo Bottazzo intitolato “Patagonia, acqua
avvelenata”,
pubblicato sul manifesto dell’8 aprile, indica uno dei sentieri del cammino di
morte intrapreso dall’inarrestabile mercificazione della vita (sono diverse le
affinità con la relazione tra femminicidio e capitalismo su cui ho scritto
in Il femminicidio
come segno dello stato presente della vita). Mostra infatti efficacemente,
attraverso un elemento essenziale carico di risonanze simboliche quale è
l’acqua, il carattere intrinseco della merce come radicale strumento di potere.
Rimanda
inoltre a ciò che affermava Chiara Cruciati ancora in un articolo sullo stesso
giornale del 19 marzo, al tema essenziale della “costruzione del possibile”.
Cruciati vi riflette in rapporto a Gaza, che rappresenta un fondamentale
superamento di soglia: il genocidio diventa accettabile come soluzione di un
cammino storico. Lo Stato d’Israele si è assunto il compito
apocalittico di spingere una violenza omicida e biocida oltre i limiti finora
conosciuti, rendendola normale. La costruzione del possibile è
il cuore di ciò che chiamiamo “potere”, come enuncia la stessa parola. Oggi il
potere dominante riesce a rendere accettabile il genocidio come pratica
corrente. Il genocidio non è nascosto – paradossalmente i nazisti subito dopo
la sconfitta cercarono di cancellare le tracce – o compiuto in luoghi e
situazioni che sfuggono alla visibilità, come all’epoca coloniale o anche oggi
in situazioni che tuttavia sono lontane dalla rappresentazione diffusa: oggi è
reso banale, quasi ovvio. Non mancano contestazioni, certo, ma restano alla
superficie di corpi sociali la cui circolazione sanguigna è ormai il processo
di mercificazione dell’esistenza.
In questa
occasione si tratta di un elemento fondamentale della vita, colmo di antica
valenza simbolica. L’articolo di Bottazzo tratta dell’acquisto da parte
della società israeliana Mekorot, “la multiutility parastatale
di Tel Aviv, che oggi gestisce l’80% delle risorse idriche della Palestina”, di
“tutta l’acqua della Patagonia”, sotto il patrocinio di Milei: “Oggi
l’azienda ha in concessione le risorse idriche di 12 delle 23 province”
argentine, “nella zona più ricca di sorgenti e fiumi”. Questo affare sarà
l’anima di settori industriali fondamentali: petrolio, energia, foreste e
soprattutto miniere, che “prevedono un enorme consumo d’acqua”. Nel sito della
Mekorot si trova “una perfetta celebrazione del mito della fondazione
d’Israele”: “Abbiamo fatto fiorire l’arido deserto della Palestina trasformandolo
in un’oasi per il popolo israeliano”: ovvero: i palestinesi
non sono degni d’esistere. Si tratta di un’affermazione fattuale che sta
rivelando la densità di un salto storico. La Mekorot, che governa ”le
infrastrutture idriche del Golfo Persico” e ha rapporti con molti paesi, fra
cui l’Italia, usa l’acqua come un’arma: la vende per tre shekel al metro cubo
agli israeliani e per trenta ai palestinesi. I primi possono accedere a 400
litri al giorno, i palestinesi a 60, essendo il limite previsto dall’Organizzazione
Mondiale della sanità di 100 litri.
Gaza non è
che il culmine di una politica genocida strisciante in atto da molto tempo, che
riprende le politiche coloniali e naziste alla piena luce del sole normalizzandole:
è questa la grande terribile differenza.
Se nel
Mediterraneo muoiono a migliaia esuli in cerca di vivere, ciò viene fatto
ricadere a loro colpa in quanto “clandestini”, quasi fossero suicidi.
A Gaza è
diventato possibile che gli antichi abitatori di quella terra vengano uccisi a
decine ogni giorno o, in un futuro vicino, trasportati via: sono
superflui, anzi, sono un’escrescenza come erba infestante, in un territorio
che, secondo il mito biblico, appartiene agli israeliti-israeliani per diritto
divino (su questo punto va letto l’importante libro dello storico israeliano
Shlomo Sand, L’invenzione del popolo ebraico, Rizzoli 2010).
La cultura
chiamata capitalismo sta soffocando in una rete mortale la vita sulla terra.
Lo Stato
d’Israele si è assunto il compito di cavaliere dell’Apocalisse, spingendo la
violenza omicida oltre i limiti storicamente accolti.
L’acqua è
una merce che serve per produrre altre merci: efficacissimo strumento di potere
in quanto elemento indispensabile alla vita, un cappio biologico e ontologico
che la soffoca. Va così
nel capitalismo estremo: l’acqua, l’aria, la terra, gli uomini, gli animali,
tutti i viventi… L’universo raggiungibile è un pacco di merci. La merce rivela
la sua natura di mezzo di predazione: tutto può essere predato, una
sorta di globalizzazione delle fauci di un leone o di un pescecane.
La lotta di
classe, che, mentre coltivava la speranza di un futuro diverso, costringeva la
pulsione predatoria del Capitale entro limiti socialdemocratici, è stata
sconfitta. Oggi la cultura del capitale si mostra quale è, libera da
freni: uno slancio verso la rottura dell’equilibrio della vita così come la
conosciamo.
La
predazione umana sembra aver rotto l’equilibrio fra cura e predazione: i due
momenti essenziali della vita, entrambi intensificati nel vivente umano, che
agivano in un difficile equilibrio fino allo sviluppo del capitalismo a partire
da alcune regioni d’Europa intorno al XVI – XVII secolo. Il fenomeno
della caccia alle streghe fra XVI e XVIII secolo ne è il segnale profondo.
Nel calvinismo britannico del XVII secolo la rottura di questo equilibrio trova
la sua consacrazione, ad esempio con il genocidio irlandese di Cromwell
missione affidatagli da Dio “per educare gli irlandesi al lavoro”.
Un secolo
dopo si coglie perfettamente in Franklin Benjamin (il cui volto esemplarmente
appare sulla banconota da 100 dollari) che affermava: “Il tempo è denaro”. “Il
denaro è di sua natura fecondo e produttivo – diceva inoltre nel 1787 – Più
vivo, più colgo prove convincenti di questa verità, ovvero che è Dio a governare
le umane faccende”. Del resto anche Trump ha detto che È stato dio a salvarlo
dall’attentato del 13 luglio 2024.
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