C’era un disegno di legge in discussione in parlamento, detto «sicurezza»,
espressione del peggiore populismo penale, incostituzionale nell’anima e nelle
disposizioni; il governo, con un golpe bianco (…invero nero), lo ha trasposto
in un decreto legge. Al contenuto eversivo si aggiunge l’eversione nei rapporti
fra governo e parlamento.
Troppo forte il termine eversione? Il passato non si ripresenta allo stesso
modo, ma la mutazione della democrazia in regime autoritario attraverso vie
legali non è un pericolo astratto; il suo progressivo svuotamento sostanziale
sotto l’involucro è un percorso in atto. Il parlamento discute, o tenta di
farlo, vista la scarsa disponibilità alla mediazione politica (nel senso di
effettivo processo di integrazione politica), ma «i tempi si sarebbero
prolungati troppo» (citazione del ministro Piantedosi). E allora interviene il
governo, «nella sua più alta ma anche più concreta significazione di istituto
atto a risolvere nel modo più rapido, fermo e univoco tutte le molteplici
questioni che nell’azione quotidiana si presentano, non impacciato da
preventive compromissioni, non impedito da divieti insormontabili, non
soffocato da dissidi, non viziato nella origine da differenze ingenite di
tendenze e di indirizzi» (Mussolini, dibattito sulla legge Acerbo).
Iniziamo da qui: quali sono i motivi di necessità e urgenza? Leggendo
la bozza compare solo un elenco tautologico di «considerata» e «ritenuta»
«straordinaria necessità e urgenza»: mere clausole di stile, nulla di più. Come
la Corte costituzionale ha ricordato più volte (da ultimo, sentenza 146 del
2024), il decreto legge è «uno strumento eccezionale», «la pre-esistenza di una
situazione di fatto comportante la necessità e l’urgenza… costituisce un
requisito di validità costituzionale»: in gioco sono gli «equilibri
fondamentali della forma di governo». Con quanto ne consegue sulla forma di
stato. L’abuso del decreto legge, stravolgendo il sistema delle fonti, viola la
separazione dei poteri, che assicura la limitazione del potere: elemento
imprescindibile di una democrazia costituzionale. È l’ennesimo atto di
asservimento e annichilimento del parlamento. Ennesimo, e «pesante»: per i
diritti su cui incide il provvedimento, per il suo essere oggetto di una forte
contesa politica, perché si tratta di materia in discussione nelle aule
parlamentari, per l’insussistenza palese della necessità e urgenza (a meno che
non le si voglia ridurre al meschino mercanteggiamento di interessi tra le forze
di maggioranza).
Veniamo al contenuto. Lo schiaffo al parlamento – in violazione della
Costituzione e inaccettabile in ogni caso – salvaguarda almeno dalle
innumerevoli incostituzionalità del disegno di legge? Dalla bozza che è dato
leggere, no.
I rilievi del Quirinale sono recepiti al minimo possibile. Alcune norme sono
semplicemente ammorbidite, come nel caso delle madri detenute o della richiesta
di documento per la vendita della Sim agli stranieri (non è necessario il
permesso ma c’è l’obbligo di un documento di identità). Altre sono oggetto di
interventi di plastica facciale, come nelle ipotesi della punizione degli atti
di resistenza anche passiva: si specifica che gli ordini la cui disobbedienza è
punita riguardano il mantenimento dell’ordine e della sicurezza, concetti
passepartout. Sfiora il ridicolo la modifica della norma che riguarda
l’aggravante «grandi opere», dove il riferimento alle opere pubbliche o
infrastrutture strategiche è sostituito con «infrastrutture destinate
all’erogazione di energia, di servizi di trasporto, di telecomunicazioni o di
altri servizi pubblici». Di maggior rilievo, e indubbiamente positivo, lo
stralcio della collaborazione di pubbliche amministrazioni e università con i
servizi segreti, in deroga al diritto di riservatezza.
Restano, immutati, il reato di blocco stradale, la ridondante punizione
dell’occupazione di immobili, l’ampliamento del daspo urbano, etc. La cappa
illiberale e repressiva del provvedimento non muta: criminalizzazione e
repressione del dissenso, stigmatizzazione e punizione del disagio sociale e
della solidarietà, neutralizzazione del conflitto sociale. E restano il diritto
penale dell’amico, i privilegi per la polizia, con il sotteso di uno stato che
si identifica con le forze dell’ordine e l’obbedienza.
È sufficiente il restyling per tacitare – ed esautorare – l’opposizione e
giustificare il silenzio calato sulla notizia? Il presidente della Repubblica,
come garante della Costituzione, non dovrebbe domandare – cito Matteotti –
«alla maggioranza che essa ritorni all’osservanza del diritto»?
Lungo la china del male minore, si scivola nel baratro.
Ancora una volta è dalla piazza, che si vuole chiudere in una zona rossa
del dissenso e del pensiero, che può venire una risposta.
Pubblicato sul manifesto del 6 aprile
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