Da diciotto
mesi è in corso un genocidio appoggiato dai governi – criminali e imperialisti –
dei nostri Paesi con fornitura di armi, copertura diplomatica e complicità
mediatica a Israele. Complicità sostenuta ad arte dai grandi giornali
occidentali e dal coro di cicisbei televisivi pronti a promuovere,
normalizzandolo, il massacro di un popolo.
Sebbene la
cronaca dei fatti sia più o meno conosciuta, ciò che veramente fa da collante
alle narrazioni più tossiche è la pretesa di un presunto “realismo” che si
alimenta di vecchi stereotipi. È sufficiente, infatti, volgere anche solo una
fugace attenzione ai titoli della nostrana carta stampata, riecheggiante la
rotta indicata oltreoceano dal New York Times, circa tensioni
interne a Gaza, riducendole – con paternalismo – all’inganno strumentale de “la
popolazione palestinese contro Hamas”. Schema comodo perché proietta l’intero
dibattito su un piano di condiscendenza: come se i palestinesi, ritratti quali
vittime di sé stessi e non di una feroce potenza militare, dovessero solo avere
“l’illuminazione” di ribellarsi internamente, per poi definitivamente
soccombere.
Questa
cornice mediatica non fa altro che ricalcare l’annosa matrice orientalista: gli
arabi, irrazionali, dominati da passioni settarie o da milizie interne, e la
soluzione di ogni loro problema si troverebbe nel tentativo di assomigliare di
più all’Occidente magari attraverso un potere prono a trattative infinite, a
copertura di una colonizzazione sistematica. Ma se guardiamo agli eventi in
corso, a diciotto mesi di sangue, alle famiglie sterminate e alle
infrastrutture rase al suolo, è drammaticamente palese la distorsione
strumentale avanzata da tale impostazione: il cuore della tragedia
nient’altro è che il progetto sionista e l’indifferenza di chi, da fuori, lo ha
continuamente avallato e foraggiato.
Il popolo palestinese resiste sul campo contro la più moderna ed efferata macchina di morte in Asia occidentale e proteste e manifestazioni – nel pieno di un assedio disumano, rappresentano un’istanza di dignità. Irriducibile ai calcoli di comodo, agli schemi di potere e soprattutto agli stereotipi sul “caos mediorientale”.
Dunque,
emerge in Occidente il discorso secondo cui i palestinesi dovrebbero insorgere
in modo “ordinato” (gradito, cioè, agli sponsor internazionali), magari a
fianco della corrotta Autorità che, da anni, collabora con l’occupazione
israeliana sul piano di intelligence e controllo del territorio. Il paradosso è
lampante: chi ha ignorato e/o tollerato il genocidio in atto, comodamente
estraneo all’orrore di un assedio soffocante, adesso si ergerebbe a maestro di
morale, pontificando su come e contro chi i palestinesi dovrebbero ribellarsi.
Sorvolando sui rapporti di forza reali, sulla collaborazione attiva di vari
governi occidentali con l’occupazione israeliana e sul fatto che la
situazione di Gaza non è una faida familiare, ma la risultante di un piano
preciso di annientamento.
Se è vero
che alcuni, per comodità, delegano ai loro propagandisti di professione
(giornali mainstream, opinionisti televisivi) il racconto della questione
palestinese, ciò che appare più devastante è la diffusa apatia con cui
si guarda al genocidio. La conseguenza è che il valore più profondo della
resistenza palestinese – concreta, quotidiana, di una comunità che sopravvive
all’orrore e apre ogni strada di ribellione – è passato in secondo piano.
La lezione
più intensa da imparare, di frequente elusa, è proprio quella che la resistenza
palestinese – pur in condizioni estreme di lotta per l’acqua, la luce e la
sopravvivenza fisica – continua a trasmettere al mondo intero: esiste
un orizzonte di dignità umana che non si lascia addomesticare dai discorsi
ufficiali e che non accetta la logica del colonizzato compiacente. Finché
le analisi occidentali continueranno a instillare l’idea che ci sia bisogno di
un intervento esterno per “educare” i palestinesi alla ribellione “giusta” o
“accettabile”, perpetueremo quella stessa violenza simbolica che si rovescia,
ormai da decenni, su un popolo privato della libertà e della sua terra.
Difendere la
dignità di Gaza significa anzitutto riconoscere gli intrecci fra imperialismo
occidentale e colonialismo israeliano. È un riconoscimento necessario che demolisce lo
stereotipo orientalista di cui i media mainstream in corteo si servono e che
pone a ognuno la riflessione morale più stringente: vogliamo continuare a
essere complici di un crimine storico da spettatori, oppure siamo disposti a
smascherare i meccanismi di potere che lo generano e lo giustificano? È questa
la vera linea di demarcazione. Se non ci schieriamo contro la complicità dei
nostri governi e dei nostri apparati mediatici, ogni parola sulle tensioni
interne a Gaza sarà solo fumo negli occhi, capace di distrarci da un crimine al
quale partecipiamo. E così, mentre in molti rincorrono un orientamento
moralistico e superficiale sulla “correttezza” o meno di certe forme di
resistenza, la quotidianità palestinese resta un atto di sopravvivenza e lotta
ostinata: una “macchina da guerra” deleuziana che potrebbe insegnarci la forza
di un popolo in rivolta.
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