lunedì 21 aprile 2025

Guerra! Il tradimento dei chierici - Marco Revelli

La domanda è: “CHE COSA CI STA SUCCEDENDO?”. Qualcosa è entrato nelle nostre vite, e nelle nostre menti. Qualcosa che ha cambiato alcuni fondamentali. Una sorta di decostruzione sistematica dei principali fondamenti della civiltà. Della civiltà europea, dove la parola PACE per un’ottantina di anni era stata la principale ragione dell’Unione e ora è diventata quasi impronunciabile, una sorta di tradimento della patria. O dove Riarmo, da evocazione di sciagure è diventato il punto principale dell’agenda politica. Ma anche della civiltà in quanto tale. Con la caduta di alcuni interdetti – a cominciare dal Comandamento “Non uccidere” -, che dopo le esperienze devastanti del Novecento sembravano stabiliti in modo definitivo. E invece no. La FINE da evento impensabile è diventata un’opzione disponibile.

Tre anni fa, subito dopo il famigerato 24 febbraio del 2022, di fronte all’ondata di passione bellica che ne era seguita, avevo riesumato un vecchio saggio di Jung dedicato a Wotan, l’archetipo della furia distruttiva, il capo della caccia e della battaglia nella fosca mitologia germanica. Wotan – diceva Jung e la cosa mi colpì perché offriva un’immagine (un volto) a ciò che stavamo vivendo -, è un Ergreifer (dal termine Ergreifenheit, stato di possessione), dunque un’entità – un “demone” – che “possiede” gli altri, le persone più che le cose. Un vento impetuoso – vento di tempesta – che quando evocato spira ovunque, sfonda le porte delle menti, vi penetra e le possiede appunto. Wotan spesso dorme nella sua caverna nei boschi del Nord. Ma a volte si risveglia. Il febbraio di tre anni fa è una di quelle volte.

Allora mi ero illuso che fosse l’effetto dello shock, che col tempo quella passione triste si sarebbe stemperata per lasciare il posto al ritorno a una più acquietata razionalità o quantomeno all’istinto di conservazione. Ma mi sbagliavo. In questi tre anni Wotan ha continuato a lavorare, possedendo le menti delle leadership occidentali, dei politici e, quel che è peggio, dei principali opinion leader. I cosiddetti intellettuali, che di quel termine hanno solo più il significante – il fatto che lavorano con la mente e le parole – senza più il significato alto che aveva un tempo, quando potevano ancora apparire i custodi di un pensiero critico. Lo vediamo ora, quando ci appare in tutta la sua estensione la dimensione della trahison des clercs, per usare l’espressione che Julien Benda negli anni Trenta riservò agli uomini di penna che si lasciavano possedere dalle passioni tristi del tempo, appunto.

Prendiamo per esempio uno come Umberto Galimberti, uno che maneggia i più sofisticati strumenti filosofici, che ha messo al centro della propria riflessione il primato della dimensione simbolica su quella tecnocentrica, che conosce perfettamente il pensiero di Carl Gustav Jung e se ne è messo per molti aspetti in scia, l’allievo di Carl Jaspers, l’autore di quello straordinario libro sul rischio estremo nella nostra contemporaneità che è La bomba atomica e il destino dell’uomo in cui di fronte a un’ “arma” che, se utilizzata, potrebbe annientare l’intera umanità si dichiara l’irrompere di una «situazione totalmente nuova in cui l’umanità andrà fisicamente in rovina”, se “l’uomo [non] si modificherà nella sua condizione etico-politica». Ebbene, uno così si è messo a sproloquiare in diretta televisiva sul fatto che “Oggi il criterio della relazione fra gli Stati è la forza”, e su come egli guardi “con sospetto i pacifisti” (sì, proprio così: con sospetto!) perché “la pace intorpidisce” e “le armi devono esserci come deterrenza”, riuscendo a far trasalire persino un moderatissimo Augias – “È terribile quello che dice. Lei è un uomo di riflessione, di pace, uno studioso… Le sue parole sono esplosive“, gli ha detto. Ma lui ha tirato dritto: “La pace intorpidisce anche la dimensione guerriera, intesa in senso nobile, di difendere la tua terra e tuoi diritti”. Amen.

 

Oppure prendiamo Antonio Scurati. “Posseduto” anche lui. L’avevamo considerato un buon alleato nella battaglia contro l’ascesa di questo disgustoso post-fascismo meloniano, il suo “M” sembrava iniettare anticorpi nella sonnolenta coscienza italiana, e lo troviamo invece sul palco di Piazza del popolo a proferire come un ventriloquo frasi roboanti che sembrerebbero provenire dal protagonista stesso dei suoi libri. L’elogio (anche qui!) dello “spirito guerriero”, il rammarico che nella stanca Europa della troppo lunga pace scarseggino quelle figure belluinescarseggino i guerrieri!. Concetti su cui si era esibito già il 4 marzo in un lungo articolo su Repubblica (Dove sono ormai i guerrieri d’Europa?): “Mi riferisco”, aveva scritto, “alla svanita combattività di popoli da otto decenni pacificati, demograficamente invecchiati e profondamente gentrificati. Per fare la guerra, anche soltanto una guerra difensiva, c’è bisogno di armi adeguate ma resta, ostinato, intrattabile, terribile, anche il bisogno di giovani uomini (e di donne, se volete) capaci, pronti e disposti ad usarle”. Quindi non solo armarsi, ma prepararsi a combattere. E poi la stoccata finale. Capolavoro di perversione. L’antifascismo, paradigma di pace, piegato e rivoltato a piattaforma di guerra: “L’imminente ottantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo dovrebbe essere un passaggio cruciale affinché l’Europa ritrovi lo spirito combattivo e, con esso, il senso della lotta. Fummo allora, noi europei d’occidente, per l’ultima volta guerrieri [e daje!]. La Resistenza antifascista ci ricorda perché ripudiammo la guerra ma ci insegna anche le ragioni per prepararci, se necessario, a combatterla”. Ci sarebbe anche Vecchioni, ad aumentare la nostra tristezza con la sua scivolata in un inaspettato suprematismo eurocentrico sul palco di Michele Serra, ed è doloroso, davvero doloroso, per chi era stato conquistato dall’autore di Samarcanda – la canzone dei soldati che buttano le divise, di chi vuol scappare dalla morte, lo ricordate, oh oh cavallo, oh cavallo, dedicata alla città opera d’arte architettonica – cercare di capire la metamorfosi che l’ha trasformato, su quel palco, in una sorta di iconica espressione di quel vizio ingrato dell’uomo europeo così ben descritto da Edward Said nel suo Orientalismo.

 

Per fortuna accanto a questa folla di chierici infedeli c’è anche qualcuno che – rari nantes in gurgite vasto – tiene dritta la barra, Zagrebelsky, Odifreddi, Maggiani… Ma restano una sparuta minoranza. Il grosso del circo mediatico soffia nelle trombe del Giudizio, in consonanza con l’aria che tira in alto, nelle Cancellerie e soprattutto in quella finzione reale che è Bruxelles, dove la peggiore classe politica che l’Europa si sia mai data dai suoi primi passi a oggi si esibisce in una ormai permanente “possessione” guerresca sulla scia della famigerata filosofia (si fa per dire) di Ursula von der Leyen sulla “pace attraverso la forza” (ovvero attraverso la guerra, in atto o in potenza). E’ appunto lei che nel celebre discorso alla Royal Danish Military Academy ha detto che “Se l’Europa vuole evitare la guerra, deve prepararsi alla guerra”, e per evitare equivoci ha precisato:.”L’Europa sia pronta alla guerra. Entro il 2030 deve essere riarmata”. E’ stato d’altra parte Macron, l’unico capo di stato europeo a possedere un (sia pur piccolo) arsenale atomico, a dichiarare, indifferente alle conseguenze, che “forse ad un certo punto … sarà necessario effettuare operazioni sul terreno, qualunque esse siano, per contrastare le forze russe” perché «sconfiggere la Russia è indispensabile». Per cosa? Ma per “fare l’Europa”, naturalmente, come se solo in uno scenario di guerra potesse realizzarsi quella reazione chimica in grado di generare la fusione generativa della nuova identità, in ossequio a quella viscida retorica che dilaga sotto traccia negli interstizi del discorso pubblico e che nel proclamare  “O si fa l’Europa o si muore” intende dire che solo morendo si può “fare” l’Europa.

E d’altra parte come interpretare quell’incredibile spettacolino della “Commissaria europea alla preparazione delle crisi” (si dice proprio così, preparedness and crisis management e non si capisce se debba prepararci alle crisi o preparare le crisi…), la lituana Hadja Lahbib, sull’opportunità (o necessità?) di tenere a portata di mano un kit di sopravvivenza per resistere nelle prime 72 ore successive a un evento catastrofico (e si pensa subito a una guerra). Che significato dare a quel doppio registro, per una parte drammatico (prepariamoci a una catastrofe) per l’altra frivolo (il tono della signora che gli dà volto e voce, la musichetta frufru, il contenuto pressoché insignificante: un po’ d’acqua, gli occhiali, il coltellino multiuso svizzero…). Un ossimoro, misto di orrore e vanità, guerra e boutique, morte e cazzeggio, come se ci volessero dire che ci dobbiamo preparare al peggio ma continuare a vivere as usual, tenere sullo sfondo l’apocalisse ma vivere la commedia quotidiana con la noncuranza di sempre. Soprattutto – e questo credo che sia il significato più autentico, pensato a ragion veduta dato che non può essere frutto solo della fatuità di una Commissaria ma del lavoro di fior di esperti impegnati nell’elaborazione di un piano più ampio, chiamato “Preparedness Union Strategy“-, vogliono mandarci in paranoia per poterci meglio sorvegliare e punire. Seminare su scala continentale inquietudine subliminare per paralizzare ogni possibile presa di coscienza di massa e neutralizzare le capacità di reazione a progetti distruttivi e autodistruttivi da parte delle potenziali vittime.

 E a questo punto la domanda diventa: “PERCHE’”? Qual è la ragione di tanta REGRESSIONE? E di tanta vulnerabilità delle menti?

Qualche settimana fa, per tentare di interpretare le convulsioni delle leadership europee dopo la svolta impressa da Trump alla vicenda ucraina e l’apertura di uno spiraglio di trattativa – i deliri sugli 800 miliardi per il riarmo, le velleità sulla chiamata a raccolta del “volonterosi”, il desiderio europeo neanche tanto malcelato che a Doha la possibile tregua morisse in culla – è stata evocata l’espressione “ferita narcisistica collettiva”: il trauma esistenziale provocato dalla constatazione/timore della propria IRRILEVANZA (l’ha fatto Andrea Colamedici in un bell’articolo intitolato C’è uno spettro che si aggira per l’Europa, l’ha ripreso Ida Domenejanni in un lungo Post su Facebook).

Quella formula era stata utilizzata una decina di anni fa da un interessante intellettuale tunisino, Fethi Benslama, psicoanalista e intellettuale capace di muoversi tra psicopatologia, antropologia sociale e presa di posizione politica in un libro illuminante Il supermusulmano – sottotitolo: “Un furioso desiderio di sacrificio”, per ragionare sull’origine dell’Isis e più in generale sulla iper-radicalizzazione di alcuni settori, sia pur minoritari, dell’Islam. Ma deve la sua prima formulazione ad Alfred Adler in Austria tra le due guerre mondiali, per descrivere il passaggio brusco da una situazione di disagio (individuale e collettivo) a una di esaltazione. Dalla Lupe all’ Hybris. I demoni della Germania nel passaggio al nazional-sociaismo. Adler ricorreva allora alla categoria della “sovra-compensazione”. Una sorta di alchimia inconscia che fa sì che una serie di ferite narcisistiche (esclusione, marginalità, fragilità identitaria…) possano trasformarsi in segni precursori di un destino fuori dalla norma, producendo una “sedazione dell’angoscia, un sentimento di liberazione, slanci di onnipotenza”, sanciti dall’atto simbolico di assumere un nuovo nome (di battaglia), espressione di una posizione super-egoica che si dimostrerà mortifera.

Cito qualche riga dall’articolo di Colamedici: “L’Europa, che si sentì centro del mondo per secoli, oggi non è più l’epicentro della produzione economica mondiale, non è più l’avanguardia tecnologica, non è più l’autoritratto dell’umanità. … Oggi l’Europa guarda a  quel che chiama Oriente e vede il futuro che si costruisce senza chiedere permesso. Guarda al mitico Occidente e scopre di non farne più parte, con gli USA che si chiudono in sogni (o incubi, a seconda dei punti di vista) isolazionisti. E così come un vecchio imperatore che sente sfuggire il potere assieme alla lucidità, si aggrappa all’ultimo gesto rimasto: la forza”.

Il discorso vale per l’Europa. Ma può essere esteso all’intero Occidente. Incapace di elaborare il lutto della propria perduta CENTRALITA’. Due settimane fa ero a un interessante Convegno a Roma intitolato Perché la guerra? Fabio Alberti, il fondatore di Un ponte per…  ha detto una cosa semplice, ma decisiva per capire. Ha detto che questa guerra in Ucraina, che a noi pare il centro dell’Universo, in realtà è tale per meno del 15% della popolazione del Pianeta: l’area a cui si è ristretto quello che chiamiamo Occidente. L’altro 85% la guarda come un fatto di nicchia, che riguarda una piccola minoranza: una guerra inter-bianchi, in cui quelli che un tempo erano i padroni del mondo, anzi IL MONDO, si azzuffano per spartirsi qualche residua risorsa. Ma il resto sta già altrove.

Un malessere sistemico dunque. Ma anche un malessere che riguarda e tormenta i singoli. Gli individui. Un caro amico, Paulo Barone, in un denso messaggio di tra anni fa, aveva parlato dell’”esaltazione di chi trova finalmente nel ‘bene’” con cui schierarsi (la libertà del popolo ucraino, le nostre democrazie violate) “un motivo assoluto per ‘contrastare’ il vuoto nichilista che li attanaglia ‘da dentro’”: di “un’ebbrezza bellica che scaccerebbe via (in realtà attuandola) l’insensatezza di questo stile di vita”. Insomma. Quanto più cresce l’insoddisfazione per la propria quotidianità, tanto più si dilata la fascinazione della guerra. Al centro del vuoto e di quella insensatezza della vita quotidiana sta la solitudine. Il processo di radicale individualizzazione che ha segnato gli ultimi decenni (ma che già si era verificato nella Belle époque, e nei processi di meccanizzazione del lavoro e della vita della prima metà del Novecento). Quell’implosione della dimensione comunitaria che il sociologo americano Robert Putnam ha descritto magistralmente sotto il titolo Bowling alone, che descrive la dissoluzione dei rapporti comunitari che erano stati alla base della cultura civile americana e delle sue virtù e che ora spiegano, almeno in parte, il diffusissimo disagio psichico che attanaglia milioni di individui nell’intero Occidente. Stiamo male, “ma veramente male” come dice la canzone. Leggetevi l’articolo visionario di Franco Arminio Il clima di guerra rovina tutto sul “Fatto” del 29 marzodove parla di questo “male che ci è cresciuto dentro in silenzio”, di questo “uccello che zoppica in ogni palude e quando vola sparge le sue piume in ogni cielo”, ed è “come se ci fosse caduta una trave sulla pancia dopo un terremoto a cui nessuno ha fatto caso. E la terra continua a tremare e la nostra vita non si aggiusta”… E’ appunto l’effetto della ferita narcisistica di ognuno di noi.

Veniamo da quarant’anni di pedagogia super-egotica. Tutto, davvero tutto ciò che ha a che fare con la sfera della comunicazione e della formazione del “senso comune” ha puntato nella direzione di una radicale individualizzazione di quello che era il mondo sociale. Il lavoro pervasivo del marketing e della pubblicità. Il mood della politica. Naturalmente la logica egemonica dei mercati finanziari diventati il sommo regolatore della vita individuale e sociale. E soprattutto la scuola. Il luogo deputato, nel sogno illuministico e umanistico, alla costruzione di relazioni basate sul comune apprendimento e sulla forza della condivisione, e trasformato invece in opificio finalizzato alla riproduzione di atomi competitivi, e in prospettiva predatori, (dis)educati fin dall’infanzia a considerare l’altro un competitor, uno con cui misurarsi sulla base del rapporto tra winner e looser, vincenti e perdenti, con l’ansia di entrare nell’eletta schiera dei primi e il terrore di cadere negli inferi dei secondi, in una gara con cui tutto è messo in gioco: la capacità di accaparrarsi “crediti formativi” come fossero stock options di una borsa immaginaria, ma anche gli abiti firmati per umiliare il compagno che non se li può permettere, il taglio di capelli aggressivo, la capacità di cogliere il punto debole dell’altro e nascondere il proprio, bullizzare o essere bullizzati. Non è questione di devianze. E’ questione di adeguamento al vero credo dominante che da quando Margareth Thatcher proclamò che “la società non esiste, esistono solo gli individui” continua a forgiare le coscienze.

Smontare questo dispositivo di disciplinamento stratificatosi negli anni richiederà molto sforzo, e molto tempo. In una situazione in cui tempo non c’è più. In cui il cavallo di Wotan corre veloce, e il suo vento avvelenato lo precede. Per questo occorrerà essere intransigenti. Condurre una serrata critica dell’ideologia dominante, tanto più ora che essa crolla miseramente sotto il peso delle contraddizioni che è andata accumulando. E un’altrettanto severa critica di chi se ne fa portatore. I chierici traditori tradiscono nel contempo se stessi e tutti noi.

da qui

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