mercoledì 28 agosto 2019

Ma chi sono gli italiani? - Max Mauro


Qualche tempo fa, un po’ scherzando, ho spiegato a un amico nero inglese la probabile origine del mio cognome.
Mauro è uno di quei cognomi, assieme a Rossi, Bianchi e pochi altri, che sono storicamente distribuiti in quasi tutta la penisola. La maggioranza dei cognomi italiani invece ha una connotazione regionale e i loro possessori sono localizzabili in specifiche aree. Fin da piccolo sono stato incuriosito dall’origine semantica e geografica dei cognomi. Raccoglievo le figurine dei calciatori presenti e passati, vedendo nomi come Zoff, Franzot, Bearzot, Burgnich, Buffon e mi chiedevo: perché in Friuli ci sono tutti questi cognomi che finiscono con una consonante? E perché il mio no? Questo “giochetto” mi portò a ragionare sui significati dei cognomi e sulle traiettorie che hanno portato alla loro formalizzazione, avvenuta in gran parte in epoca medievale.
Alla voce “Mauro” il dizionario Treccani attribuisce due significati correlati:
1. a. In età romana, denominazione di una parte degli indigeni dell’Africa settentrionale, in particolare di quelli che costituirono l’antico regno di Mauritania, corrispondente all’odierno Marocco e a una parte dell’Algeria. b. Nel medioevo il termine indicò, genericamente, i musulmani; in seguito, i musulmani cacciati dalla Spagna e rifugiatisi in Marocco, Algeria e Tunisia.
Dunque “Mauro” era storicamente qualcuno con la pelle scura, come quella degli abitanti della Mauritania, i mori; per di più musulmano. La cosa non può sorprendere, perché la penisola è stata, anche grazie alla sua ampia esposizione al mare, sempre terra di incontri, spostamenti, migrazioni. Fra i miei antenati c’era qualcuno con la pelle più scura di altri e magari di religione non-cristiana.
Questa complessità, che con i concetti moderni definiremmo multietnica e multiculturale, è tangibile particolarmente nelle cosiddette zone di confine (ma confine da cosa? confine con chi?), non solo nei cognomi ma anche nei toponimi. Per esempio, il villaggio del Medio Friuli in cui sono cresciuto dall’età di 5 anni, il luogo d’origine di mio padre, si chiama Gradisca di Sedegliano. In Friuli vi sono diversi toponimi simili e diverse località con l’affisso “Grad”, e hanno tutti la stessa origine slava: “gradišče” (luogo fortificato).
Come molti altri paesi (inclusi i vari Gorizzo, Goricizza ecc nello stesso Medio Friuli) il mio ha un’origine slava: erano località fondate da coloni slavi invitati dai Patriarchi di Aquileia a ripopolare la fertile pianura friulana dopo una delle varie distruttive discese verso l’Italia dei popoli nordici. C’è di che riflettere considerando i sentimenti anti-slavi presenti in questa regione, alimentati prima da Mussolini (il razzismo fascista si è manifestato inizialmente come razzismo anti-slavo) e continuati nella nuova Repubblica, nell’ambito della Guerra Fredda. Come si può avere in astio lo “slavo” se i nostri stessi paesi sono stati fondati da slavi?
Seguendo questo piccolo tour onomastico-geografico, le mie origini risultano nere e slave (forse pure musulmane). Eppure io ho un passaporto italiano e la pigmentazione della mia pelle mi rende agli occhi di molti (i più?) passabilmente, credibilmente “italiano”, e quindi europeo. Perché? Perché queste categorie appaiono essere – secondo la logica razzista che non ha più pudore a paventarsi, da San Pietroburgo a Vienna passando per Londra e Roma – esclusive? Non dovrebbe essere normale essere italiano e nero, musulmano e italiano, italiano-sloveno, tedesco-italiano-albanese allo stesso tempo?
L’identità, come ogni cultura, è un percorso fluido e assorbente anche quando non vogliamo ammetterlo, anche quando facciamo di tutto per negarlo. Pur se isolati in mezzo ai monti, la nostra realtà e la transculturalità, il divenire incompiuto e incompiente di molteplici incontri. Dalla loro affermazione nel 19° secolo, gli Stati-nazione hanno fatto di tutto per marginalizzare e cancellare questa condizione, formando con mezzi autoritari popolazioni apparentemente omogenee (“Fatta l’Italia, facciamo gli Italiani”) funzionali al progetto capitalista, all’illusivo sogno capitalista.
Prima di provare a chiudere il ragionamento, chiedo a chi legge ancora un attimo di pazienza se rivolgo nuovamente l’attenzione alla mia biografia. Voglio fornire ulteriori spunti di riflessione sull’insensatezza della “bianchezza” e della “nerezza” come definizioni di culture, ma sulla persistenza della loro funzione di ingranaggi sociali. In altre parole, si tratta di mettere a fuoco – in termini un po’ semplificanti, lo ammetto – il razzismo culturale che dal secondo dopoguerra ha soppiantato quello biologico nei discorsi pubblici e che sta avendo crescente nuova diffusione in Europa, da nord a sud, da est a ovest.
Nel 2006 mi trovavo a Caracas, lavorando come giornalista. Ero nella zona del centro storico della città e dovevo recarmi per un’intervista nelle zone ad est, quelle dove risiede la parte ricca dei residenti, composta in stragrande maggioranza da bianchi di origine europea, immigrati soprattutto dopo la seconda guerra mondiale. Chiamai a gesti un taxi che si fermò in uno stridore di gomme. Il tassista mi fece salire e, dopo avermi chiesto dove andare, partì a grande velocità infilandosi nel vorticoso traffico urbano. Poco dopo, voltandosi in corsa, mi fece una domanda che probabilmente sentiva urgente: «Donde vienes? Eres judío?».
L’idea che potessi passare per ebreo (judío) non mi era mai sovvenuta. In quella parte di città non si vedevano molti bianchi europei. A piedi, poi, erano una rarità, da qui forse l’impeto dell’autista nell’inquadrare la mia origine, che poteva per qualche ragione apparirgli “esotica”. Per quanto spiazzante fosse per me in quel momento la domanda-supposizione del tassista caraqueño, appena due anni più tardi, nell’estate del 2008, mi venne posta più o negli stessi termini a Città del Capo, Sud Africa, dove mi trovavo per una ricerca sugli immigrati di origine italiana. A una fermata dell’autobus un uomo nero seduto in terra mi chiese dei soldi e senza attendere la mia riposta alzò lo sguardo verso di me e disse in modo interrogativo: «You Jew?» (sei ebreo?).
Cosa sono quindi io? Cosa vuol dire attribuirsi una “identità nazionale”, al di là della fortunosa sorte di essere in possesso di un passaporto del Nord del mondo? Io sono quello che gli altri vogliono vedere. Quel che percepiscono ed elaborano attraverso categorie e informazioni che hanno assimilato nel corso delle loro vite. Sono quello che gli altri sono disponibili a vedere di me.
Questa semplice deduzione assume una dimensione più complessa, con implicazioni più profonde e gravi, nel caso di chi venga percepito come “straniero” oggi in Italia, o in Europa. Si tratta soprattutto di persone con la carnagione più scura (ma di quanto? rispetto a quale supposto “standard”? Forse la pubblicità della pasta Barilla o di una marca di birra regionale in Germania possono darcene un’idea).
Si tratta, in fondo, della linea del colore, di cui parlava l’intellettuale afroamericano W. E. B. Du Bois nei primi decenni del novecento. Era quella linea che aveva fatto sì che i popoli europei avessero creato per sé stessi un mondo dove più di tre quarti della popolazione erano trattati da inferiori, popoli da colonizzare, da sottomettere, sfruttare, e per diversi secoli, nel caso degli africani, da comprare, vendere e da lasciar morire o uccidere quando non servivano più. Era quella linea che definiva, nella visione dello psichiatra Frantz Fanon – francese originario della Martinica – lo sguardo del bianco che crea il nero, una supposta alterità, e creando il nero crea anche se stesso.
Questo percorso storico non è sepolto, non è passato, ma anzi continua a produrre effetti, a ribollire e diffondere semi venefici nelle forme più diverse. «When Brexit comes you will be gone» (Quando arriva Brexit te ne dovrai andare) si è sentita dire, in mezzo a epiteti razzisti più violenti, una ragazza nera a Londra, la città in cui è nata. E’ solo una piccola storia di razzismo quotidiano, una come tante anche in Gran Bretagna, ma è finita sui giornali perché avvenuta in un luogo pubblico, in un’agenzia per scommesse, di fronte a testimoni. In questo caso l’autore è stato condannato a 12 mesi di lavori sociali e una multa di 600 sterline.
Le cronache italiane sono purtroppo ricolme di episodi simili, che spesso rimangono impuniti. Si tratta non solo di abusi verbali, di insulti razzisti ma di assalti fisici, come quelli avvenuti a lavoratori africani in provincia di Foggia, colpiti da sassi lanciati da auto in corsa, all’alba, mentre in bicicletta si recavano a lavorare nei campi. Si tratta anche di omicidi, come quelli di Samb Modou e Diop Mor, a Firenze per mano di un “intellettuale” neonazista (Gianluca Casseri) o tentati omicidi come quelli di Macerata, per mano di un fervente sostenitore di Matteo Salvini, un militante della Lega ed ex candidato alle elezioni comunali.
Nell’immaginario dominante, il “nero” incarna il diverso, l’altro, lo straniero, ed è irrilevante se si tratta di cittadini italiani o di altri paesi europei. La razzializzazione dell’immigrato (il processo per cui le persone vengono accumunate in base a delle categorie stabilite da altri, per tenerle in una posizione subordinata) si somma alla razzializzazione della linea del colore. E’ il presupposto del discorso razzista.
Il clima creatosi in Italia, una vera macchina di desideri distruttivi, di odio epidermico alimentato dalla destra populista e apertamente razzista («Prima gli italiani!») ha spinto un giornalista di Avvenire, Matteo Fraschini Koffi, a scrivere un articolo dal titolo emblematico: Io, italiano disorientato, denuncio. Ho la pelle nera e ho paura.
E’ in questo clima, che ha un profilo transnazionale, soprattutto in occidente – pur con distinzioni e diverse espressioni a seconda dei Paesi – è necessario individuare narrazioni alternative, contronarrazioni da opporre al discorso sovranista, che non è altro che un goffo travestimento dei fascismi di sempre. Una di queste è lo smontare dialetticamente l’idea dello stato-nazione, dell’identità nazionale esclusiva ed escludente. Fare questo in ogni occasione, con chiunque, di persona o sulle reti digitali (i tanto popolari e potenti “social”).
E’ un compito di tutti, per cercare di liberare il genere umano da quella che James Baldwin definì nel suo ultimo libro (The evidence of things not seen, 1985) «la soffocante idea dell’identità nazionale e la tirannia delle dispute territoriali». Credere nell’umanità, oggi più di sempre, è credere nell’identità fluida e transculturale, al di là degli Stati nazionali e dei nazionalismi vecchi e nuovi.

Nessun commento:

Posta un commento