venerdì 2 agosto 2019

Di Genova ricordo tutto - Lorenzo Guadagnucci



Sono passati diciotto anni dal G8 di Genova e mi hanno chiesto che cosa ricordo. Che cosa ricordo? Ho risposto che ricordo tutto. E che tutti dovremmo ricordare, perché in quei giorni del luglio 2001, oltre a tutto il resto, ci hanno portato via una straordinaria opportunità di crescita civile e di cambiamento politico. È stato un momento di svolta (non in meglio) per il nostro Paese. Perciò ricordo tutto.
Ricordo la giornata del 20 luglio trascorsa in redazione a Bologna mentre in tv passavano le immagini del corteo, degli scontri, la notizia dell’uccisione di Carlo Giuliani in piazza Alimonda; ricordo lo stato d’ansia ma anche di curiosità per la partenza dell’indomani mattina; il treno speciale preso prima dell’alba a Imola; la gente, tanta gente, sul treno e i dubbi su quello che avremmo trovato, dopo la tragedia di piazza Alimonda; l’arrivo alla stazione di Quarto, perché le stazioni centrali erano chiuse; il clima positivo e fiducioso, nonostante il dolore per l’omicidio di Carlo.
Ricordo la camminata per raggiungere il centro città, passando per strade vuote, senza auto, in un silenzio inaspettato; l’arrivo in via Battisti, alla scuola Diaz-Pascoli, e l’incontro con amici e colleghi al centro stampa; la discesa verso il corteo, di passaggio per il lungomare; una massa enorme di persone sotto il sole; l’incontro con Olga, un’amica arrivata da Milano; il corteo che non va avanti né indietro, per via delle prime azioni del Black Bloc; una ragazza bionda vestita di nero che passa in mezzo alla gente e raggiunge la testa del corteo, anzi il gruppo che se ne è distaccato; i fumi in lontananza; tanta, tanta gente; Enrico Deaglio che a un certo punto incrocio; ricordo la confusione, i lacrimogeni, la gente spaventata che comincia ad arretrare e a muoversi verso il mare, sul nostro fianco sinistro; è la polizia che carica; la confusione che mi fa perdere contatto con Olga e con l’amico che l’accompagnava; ricordo la paura e la voglia di togliersi dai guai; la scalinata che imbocco a fatica, nella ressa, per abbandonare il lungomare; il lungo giro per le vie deserte della città, vagando senza meta, senza conoscere la città; gli sbarramenti, le improvvisate barricate formate con i cassonetti dell’immondizia; le strade vuote, le piazze vuotequalcosa che bruciadavanti a un sottopassaggio vicino alla stazione Brignole; un gruppo di agenti della polizia che avanza lungo una strada battendo i manganelli sugli scudi, con un rumore sinistro e minaccioso; la marcia indietro per non incrociarli.

Ricordo piazza Alimonda, i fiori, gli oggetti, i messaggi, la sciarpa della Roma a coprire il sangue lasciato da Carlo; il piazzale vicino allo stadio pieno di pullman; gli amici che mi chiamano al telefono preoccupati per quel che vedono in televisione; la ricerca affannosa di acqua e cibo, con i bar tutti chiusi; i piedi che cominciano a far male; la gente che sciama per le strade, il corteo che si dev’essere sciolto; Olga che mi chiama e mi dice che sta ripartendo per Milano; ricordo il ritorno alla Diaz, al centro stampa, a riprendere lo zaino; il ragazzo che mi indica un posto in cui dormire, la scuola di fronte, la Diaz-Pertini; gli stand di piazzale Kennedy dove trovo finalmente da mangiare; ricordo la stanchezza; il ritorno, ormai è buio, alla Diaz, e tanta gente in via Battisti che parla, che beve, che si riposa; ricordo la sensazione che una giornata difficile, anche incomprensibile, è finalmente conclusa.  
Ricordo i sacchi a pelo, gli zainile persone nella palestra della scuola Diaz-Pertini che parlottano; quelli che già dormono, per terra; il mio zaino nell’angolo a sinistra; il sonno che arriva presto; ricordo i rumori che mi svegliano; l’ingresso degli agenti, di corsa, urlando; le persone con le mani alzate che dicono, nemmeno urlando semmai implorando “no violence”; gli agenti che corrono, urlano e picchiano, a calci e colpi di manganelli tutti quelli che si trovano di fronte; ricordo gli agenti che arrivano nella mia direzione; due di loro che prendono a calci in faccia la ragazza seduta vicino a me; ricordo i due agenti che mi prendono a manganellate; i colpi spaventosi che mi arrivano sulle braccia, fortissimi, mentre mi riparo la testa; le braccia sanguinanti, deformate, gonfiori che sembrano palline da ping pong sotto la pelle; ricordo il sangue che scorre sugli avambracci e sotto le ginocchia; il dolore che mi impedisce di muovermi; gli agenti che picchiano altre persone; le grida di paura e di dolore; i pianti; l’agente con la camicia bianca che torna verso di me e mi riempie di botte sulla schiena, mentre sono adagiato a terra e tento di proteggermi la nuca; ricordo gli agenti che ci minacciano; la gente che piange; io che mi sposto strisciando alla parete di fronte, per eseguire l’ordine di radunarsi su quel lato; ricordo la gente che piange e dice mamma mamma; il ragazzo in crisi epilettica; la ragazza che mi consiglia di togliermi la maglia per tamponare una ferita sul braccio; io che non riesco a togliermi la maglia per il dolore al torace; ricordo il tempo che non passa; l’infermiere che arriva a mani nude e non sa da dove cominciare; il medico che separa i feriti più gravi dagli altri; le barelle che cominciano a caricare e portare via i feriti; il medico che dice di me: questo ha tutte e due le braccia rotte; ricordo l’infermiere che mi stecca le braccia con i cartoni rigidi di due quadernoni; ricordo la barella che mi porta fuori; l’agente con la camicia bianca che chiede all’infermiera dei guanti di lattice per non sporcarsi le mani con il sangue altrui; la gente al cancello che urla; gli agenti che fanno cordone; l’elicottero assordante sopra le nostre teste.

Ricordo l’ambulanza che mi porta in ospedale; le mie prime telefonate agli amici; il corridoio del pronto soccorso pieno di lettini; i medici che mi tolgono gli abiti e scoprono le ferite, gli ematomi; le radiografie; i punti che mi ricuciono le ferite; ricordo l’arrivo all’alba nella camera d’ospedale; i poliziotti che mi aspettano e mi dicono che sono in stato d’arresto ma non sanno dirmi perché; ricordo la disperazione; i poliziotti che parlano con me e sembrano stupiti; le batterie del telefono che si scaricano; i colleghi che vengono a trovarmi, anche se non potrebbero; i medici che mi visitano; le ore che non passano; il Corriere della Sera che racconta la mia storia e dice che sarò portato in carcere; ricordo gli agenti che mi sorvegliano anche in bagno; io che supplico i medici di non mandarmi in carcere; Arnaldo che viene portato nella mia camera; lui che conciona, con un braccio e una gamba rotti, sulla grande partecipazione ai cortei; gli agenti che ridono; il poliziotto di Bologna che conosce il mio collega che fa la nera; ricordo i magistrati che arrivano a interrogarmi; le strane domande che mi fanno: ha visto delle bombe molotov sopra un tavolo all’ingresso della scuola?; ricordo il terrore d’essere portato in carcere; l’agente che porta l’ordine di scarcerazione; i poliziotti che lasciano la camera; la signora che in piena notte è ancora sveglia e mi presta un caricabatterie; ricordo la telefonata per dire che mi hanno liberato; gli amici che da Milano vengono a prendermi per riportarmi a casa.
Di Genova 2001 ricordo tutto perché Genova stava cambiando molto, se non tutto. E molti altri, forse tutti quelli che si trovarono a Genova in quei giorni potrebbero raccontare quel che fecero, quel che videro, quel che subirono fino nei minimi dettagli, tale fu il trauma personale e collettivo.
Un movimento competente e creativo fu fermato, anche se non distrutto, in quella calda estate del 2001. Non era troppo tempo fa ed è giusto ricordare tutto perché vorrebbero farci credere che siamo alla fine della storia, che la navigazione di piccolo cabotaggio è l’unica possibilità che abbiamo. È bene ricordare tutto, fino nei minimi dettagli, anche la parte più dolorosa di quei giorni, perché viviamo nel Paese della menzogna e dell’oblio e invece il futuro ha bisogno di poggiare sul meglio avvenuto in passato, pur senza dimenticare il peggio. Un movimento popolare è stato soffocato nel sangue e questo non si può perdonare, perché il Paese è stato spinto alla rassegnazione e alla mediocrità e la violenza delle istituzioni è stata proposta – e da molti accettata – come una soluzione. Ma dobbiamo ricordare ogni minuto che meno di vent’anni fa si è pensato di fare insieme, in tanti, con intelligenza, superando le frontiere, qualcosa di importante per il bene comune. È accaduto e quindi accadrà di nuovo. Dobbiamo ricordare tutto perché non è vero che la storia è finita.

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