giovedì 1 agosto 2019

Complici di strage - Fulvio Vassallo Paleologo



Era già partito il tam-tam mediatico che doveva fare da supporto all’approvazione del decreto sicurezza bis alla Camera. Secondo il Corriere della Sera, che ha inviato un suo giornalista a bordo di una motovedetta tripolina, la sedicente Guardia costiera “libica” svolgerebbe i suoi compiti con interventi efficaci: “Libia, sulla Guardia Costiera alla ricerca di migranti: intercettato un gommone con trentotto persone a bordo“. Sono in tanti del resto che, per avallare le politiche di Salvini, sostengono che la guardia costiera libica “sta lavorando bene” e che le Ong sarebbero “complici dei trafficanti”. Una tesi che suona come una menzogna ripetuta mille volte, che vale più della verità. Una tesi sulla quale sembra ancora impegnata una parte della magistratura, malgrado anni di indagini che non hanno dimostrato alcun legame tra le Ong e i trafficanti.
Da Tripoli il capo della Guardia costiera libica annunciava che i naufraghi, presumibilmente le trentotto persone intercettate dalla motovedetta che imbarcava il giornalista italiano, sarebbero stati riportati nel famigerato centro di detenzione di Tajoura, dopo avere affermato che i migranti continuavano a partire perché sapevano che al largo avrebbero incontrato una nave delle ONG che li avrebbe soccorsi. Una fake-news confezionata ad arte, in un momento in cui le navi umanitarie sono sotto sequestro o lontane dalle coste libiche, ma sempre buona per convincere il “popolo sovrano” degli effetti positivi della politica dei porti “chiusi” e della fondatezza delle misure di blocco e delle sanzioni contenute negli articoli 1 e 2 del decreto legge 53/2019 che sarà presto convertito in legge. Dopo un iter parlamentare in cui la maggioranza di governo ha cancellato i diritti della minoranza a colpi di fiducia, arrivando a imporre la cancellazione dell’audizione di una Ong, già programmata nel calendario dei lavori delle Commissioni affari costituzionali e giustizia. Se il parlamento italiano non ha voluto ascoltare i rappresentanti di Sea Watch, adesso Carola Rackete potrà prendere parola al parlamento europeo.

Nello stesso giorno in cui la Camera ha approvato con un voto di fiducia il decreto sicurezza bis, che permette al ministro dell’interno di impedire l’ingresso nelle acque territoriali e dunque nei porti, delle navi umanitarie con naufraghi a bordo, navi che potranno essere confiscate, alienate e distrutte solo sulla base di scelte discrezionali delle autorità amministrative, una strage, forse la più grave di tutto l’anno, rende evidente, senza possibilità di smentita, il costo delle politiche di blocco delle acque territoriali, di criminalizzazione delle Ong e di “chiusura” dei porti. Secondo Medici senza Frontiere che è presente con una missione in Libia, “i nostri team in Libia stanno assistendo 135 sopravvissuti del naufragio avvenuto oggi al largo di Homs, a est di Tripoli. Sono stati salvati da pescherecci e i testimoni oculari parlano di almeno 70 corpi in acqua”.
Secondo le ultime notizie arrivate oggi, più di cento migranti diretti in Europa sono dati per dispersi e si teme che siano annegati dopo che le due barche su cui si trovavano si sono capovolte al largo della costa di Al Khoms.
Ayoub Gassim, portavoce della guardia costiera libica, ha affermato che le due imbarcazioni che trasportavano circa 300 persone si sono capovolte a 75 miglia a est di Tripoli. L’UNHCR ha confermato la notizia secondo cui i dispersi potrebbero essere 150, precisando che 147 migranti sarebbero stati salvati da pescatori e quindi riportati in Libia dalla guardia costiera “libica” che avrebbe recuperato soltanto un cadavere. Come al solito, il portavoce della sedicente guardia costiera “libica”, sempre pronto ad attaccare le Ong su mandato del governo italiano, che lo finanzia, non ha fornito alcun dettaglio sulle modalità dei soccorsi e sulla loro esatta localizzazione. Come rimane nell’ombra chi svolge il ruolo di coordinamento effettivo dei soccorsi operati dalle motovedette libiche con l’assistenza dei militari italiani imbarcati a bordo della nave Caprera della missione Nauras, ormeggiata nel porto militare di Abu Sittah a Tripoli.
La cruda realtà raccontata dai superstiti ha immediatamente dimostrato quale è il costo del ritiro delle navi militari che fino al 30 marzo operavano soccorsi nelle acque ricadenti nella cosiddetta zona SAR “libica”, e del blocco delle navi private delle Ong, oggetto di una vile campagna di odio che non ha risparmiato neppure i cittadini solidali che ne sostenevano l’attività. Quest’ultima strage, nella quale sarebbero stati coinvolti anche numerosi migranti provenienti dal Corno d’Africa, in particolare dall’Eritrea, è soltanto l’ultima di un lunga serie. E purtroppo altre seguiranno, se i paesi europei, e soprattutto l’Italia, manterranno le loro politiche di guerra ai soccorsi umanitari e di collusione con la guardia costiera “libica”.
Dal mese di giugno dello scorso anno, quando le partenze dalla Libia erano già diminuite in modo sostanziale, con la creazione di una “zona SAR libica”, si è verificato un costante aumento delle vittime, conseguenza della criminalizzazione dei soccorsi umanitari e dall’allontanamento delle navi delle Ong e poi anche di quelle della missione europea Eunavfor Med, che dal 30 marzo di quest’anno ha sospeso qualunque attività in mare ritirando gli assetti navali già operativi nel Mediterraneo centrale.
Secondo Thomas Garofalo, direttore di IRC Libia, “rifugiati e migranti in Libia sono immensamente vulnerabili e hanno diritto alla protezione umanitaria ai sensi del diritto internazionale umanitario. Gli impegni della comunità internazionale devono essere notevolmente ampliati: l’Europa deve intensificare e aumentare le evacuazioni per consentire alle persone di cercare sicurezza e coloro che vengono intercettati in mare non devono essere restituiti in Libia. Il primo, e forse il più urgente, passo che può essere fatto è la depenalizzazione delle missioni di ricerca e salvataggio da parte delle Ong e il ripristino dell’operazione Sophia e la capacità di ricerca e salvataggio. Solo allora sarà in grado di evitare tragedie come quella che abbiamo visto oggi”.
Malgrado le ferme denunce dell’UNHCR e dell’OIM che pure in Libia garantiscono una minima presenza nei luoghi di sbarco, i migranti che cercano di attraversare il Mar Mediterraneo, in fuga dall’orrore dei centri di detenzione, controllati dalle milizie colluse con i trafficanti, continuano a essere intercettati dalla Guardia costiera ”libica”, assistita dalle autorità italiane, e restituiti alle stesse milizie dalle quali sono fuggiti. I numeri sono raddoppiati dall’inizio del conflitto in aprile, con circa 4.000 persone intercettate in mare, e riportate in Libia nel solo mese di luglio.
Uno Stato che tiene sotto sequestro la Mare Jonio e la Alex di Mediterranea e la Sea Watch 3, navi che erano state messe in mare con il contributo di tanti cittadini solidali, impedisce il salvataggio di vite umane in mare, nega lo sbarco dei naufraghi in un porto sicuro, ne facilita il ritorno in centri di detenzione nei quali si può essere esposti a trattamenti disumani, è dunque uno Stato criminale. I responsabili dovranno rispondere per i crimini contro l’umanità che stanno commettendo.
Non si può confondere la condizione giuridica dei naufraghi con quella dei migranti “clandestini”, non si può continuare e criminalizzare e a penalizzare gli interventi di ricerca e soccorso operati in acque internazionali dalle navi private delle ONG, non si può continuare a ritenere che le attività di intercettazione delegate alla guardia costiera libica,assistita dalla missione Nauras della marina militare italiana, possano garantire il rispetto dei diritti umani dei migranti riportati in Libia. Non si può continuare a vietare l’ingresso nei porti italiani, perché le Ong avrebbero dovuto consegnare i naufraghi ai guardiacosteri libici.
In diverse recenti occasioni, la guardia costiera libica ha intercettato in mare diverse decine di migranti e li ha deportati a Tripoli nel centro di detenzione di Tajoura che si trova sulla linea di fuoco del conflitto tra il generale Haftar di Bengasi e il governo Serraj riconosciuto dalla comunità internazionale, proprio in quel centro dove erano rimasti uccisi più di 50 detenuti, per effetto di un bombardamento aereo effettuato di notte dalla LNA del generale Haftar. Oggi a Tajoura gli internati sarebbero più di duecento, anche se il governo Serraj aveva promesso la chiusura del centro e il trasferimento o la rimessione in libertà dei migranti che vi erano trattenuti.
Almeno 2.500 migranti sono detenuti nei centri di Tripoli e dintorni, dove si combatte con il ricorso all’aviazione ed alle armi pesanti, persone che dovrebbero essere immediatamente evacuate, come hanno richiesto da mesiil papa e l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, ma che nessuno finora è riuscito a mettere in salvo, lasciando così campo libero ai trafficanti che costituiscono l’unica possibilità di fuga. Fino a quando non intervengono le motovedette libiche finanziate e assistite dalle autorità italiane. Sulle ripetute violazioni del diritto internazionale perpetrate dalle autorità libiche in concorso con le autorità italiane non ci devono essere testimoni indipendenti e per questo occorreva eliminare la scomoda presenza delle Ong. Che comunque non si tireranno indietro di fronte alle rinnovate minacce del governo italiano.
Dopo la conversione in legge del decreto sicurezza bis, notevolmente peggiorato rispetto al suo testo originario, oltre che alla Corte Costituzionale, ci si dovrà rivolgere alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea che potrebbe aprire, anche nei confronti dell’Italia, una procedura di infrazionecome quella aperta nei confronti dell’Ungheria, soprattutto per quelle norme, contenute nei due decreti sicurezza, che impediscono l’ingresso nel territorio per richiedere asilo e un rapido soccorso dei naufraghi soccorsi dalle Ong in acque internazionali, in quella zona SAR “libica” che si vorrebbe affidare esclusivamente alle motovedette della sedicente Guardia costiera “libica”. Con i risultati che vediamo anche oggi.

La politica della delega alle autorità libiche, attuata prima contro le navi umanitarie, e poi contro le missioni di Frontex e di Eunavfor Med, presenta il conto, un costo umano sempre più elevato. Una attività di dissuasione imposta dal ministero dell’interno alle autorità militari con conseguenze mortaliuna politica di morte che adesso si pratica anche nei confronti dei pescherecci battenti bandiera italiana che soccorrono migranti nelle acque internazionali, in quella che si ritiene una zona SAR sovrapposta, tra Malta e l’ItaliaUna zona nella quale da anni le autorità maltesi e italiane si rimbalzano le responsabilità di soccorso, con conseguenze qualificabili come omissione di soccorso e ritardo negli interventi SAR, che sono già costate centinaia di vittime.
Intanto altre centinaia di persone comunque continuano a raggiungere le coste siciliane, malgrado i provvedimenti sempre più drastici, fuori dal quadro costituzionale e internazionale, adottati dal governo giallo-verde. Se nella cosiddetta zona SAR “libica” si impediscono i soccorsi delle navi delle Ong, e si continua a morire, rimane incerta la sorte di chi riesce a essere soccorso nella zona SAR maltese o italiana.
Nella stessa giornata della strage davanti alle coste libiche di Al Khoms è rimasto bloccato in mare aperto, tra Lampedusa e Malta, un peschereccio di Sciacca, l’“Accursio Giarratano”, dopo avere soccorso un gommone con una cinquantina di migranti a bordo. Si è profilato così l’ennesimo conflitto di competenza tra stati, in violazione del diritto internazionale che impone lo sbarco immediato dei naufraghi nel porto sicuro più vicino e la collaborazione, a tal fine, tra le autorità statali delle zone SAR (ricerca e salvataggio) confinanti.
Le autorità maltesi hanno negato l’autorizzazione allo sbarco. Per oltre dodici ore nessuno ha ascoltato la richiesta del comandante dell’Accursio Giarratano che chiedeva un porto sicuro per le persone che aveva soccorso: “Non conosciamo la loro nazionalità, non possiamo lasciarle alla deriva, vorremmo poterle consegnare a una autorità marittima disponibile, sia italiana che maltese”. Alla fine, come riferisce Angela Caponnetto, i 50 naufraghi soccorsi dal peschereccio siciliano sono stati trasferiti a bordo dall’unità veloce CP 302 della Guardia Costiera, di base a Lampedusa, e quindi trasbordati sulla più grande nave Gregoretti che ha preso un altro numero imprecisato di persone dal pattugliatore della Guardia di finanza Monte Sperone che li aveva poco prima soccorsi. La nave Gregoretti si è poi diretta verso la Sicilia per sbarco. A Lampedusa in 24 ore sono sbarcate 118 persone. I porti italiani non sono stati affatto “chiusi” dagli editti del ministro dell’interno, si sono soltanto penalizzate le ONG, con norme che violano la Costituzione e le Convenzioni internazionali, e si è fatto il vuoto proprio nella zona di mare, contigua alle acque territoriali libiche, nella quale si registra il maggior numero di naufragi.
Italia e Malta, finora, sono state solo capaci di accordi sulla pelle dei naufraghi e si sono opposte a tutte le ipotesi di condivisione degli oneri e di trasferimento dei naufraghi, fin qui emerse a livello europeo. Italia e Malta infatti si sono dissociate dall’intesa raggiunta a Parigi tra quattordici paesi UE “volenterosi”, disponibili ad accogliere naufraghi soccorsi sulle rotte del Mediterraneo centrale, a condizione però che fossero immediatamente sbarcati nel porto sicuro più vicino, dunque a Malta o in Italia, come è imposto dalle Convenzioni internazionali. Una posizione di isolamento internazionale che contraddice il tentativo europeo di individuare prassi omogenee e condivise da seguire dopo lo svolgimento delle attività di ricerca e salvataggio, già disciplinate dai Regolamenti europei n.656 del 2014 e 1624 del 2016, in modo da evitare quelle contrattazioni, se non veri e propri ricatti, ai quali ci ha abituato il governo italiano, fin dal mese di giugno dello scorso anno (caso Aquarius), ogni volta che una nave privata salvava vite umane. Adesso, se l’Italia dovesse insistere su queste posizioni, come tutto lascia prevedere dopo l’approvazione del decreto sicurezza bis, si potrebbe aprire la possibilità di denunce a livello europeo per l’apertura di una procedura di infrazione davanti alla Corte di Giustizia.

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