Una due giorni tra Milano e Roma è
sufficiente per percepire quanto il “Belpaese” sia davvero finito al vertice di
quella che Alan Krueger, capo degli esperti economici di Obama, ha definito “la curva del Grande Gatsby”: un
tracciato del rapporto tra disuguaglianza e mobilità sociale intergenerazionale
in diversi Paesi del mondo.
Ormai l’Italia si trova, infatti, tra i
Paesi che hanno maggiori diseguaglianze nei redditi. E, contemporaneamente, fra
quelli dove c’è la minore mobilità sociale tra una generazione e l’altra.
All’estremo opposto si trovano i paesi scandinavi.
Nel grafico, elaborato utilizzando i
dati dell’economista canadese Miles Corak,
l’asse orizzontale indica la diseguaglianza tra i redditi, quello verticale la
mobilità di reddito tra generazioni: in sostanza, il rapporto che c’è tra gli
stipendi dei padri e quelli dei figli. Andando dal basso verso l’alto, aumenta
l’immobilità. Andando da sinistra a destra, cresce la diseguaglianza.
Il nome della curva fa riferimento, un
po ‘ironicamente, a Jay Gatsby, il personaggio di Francis Scott Fitzgerald del
romanzo “Il grande Gatsby”. Jay mostra un alto grado di mobilità, passando da
essere un contrabbandiere sino a diventare un imprenditore di successo. Una realtà
ben lontana da quella odierna di paesi come Usa, Gran Bretagna e, per
l’appunto, l’Italia dove almeno metà dei propri vantaggi economici deriva dal
fattore famiglia.
In questo quadro il buonsenso
richiederebbe di correre ai ripari, investendo in quelle politiche e strategie
di indirizzo della spesa pubblica che aiutino a riequilibrare il peso tra i
figli, per esempio investendo in istruzione, promozione della conoscenza e
sviluppo del capitale umano. Tuttavia non sembra essere questa, al momento, una
priorità, né in Italia, né in Sardegna.
Proprio nell’isola, dopo quasi un
decennio caratterizzato da ingenti investimenti in politiche sul capitale
umano, si è passati, in pochissimo tempo, a una quasi totale assenza di
finanziamenti su questo tipo di politiche. In questo scenario il caso del
Master&Back, il programma di punta dell’alta formazione “Made in RAS”, è
paradigmatico.
Tra il 2008 e il 2014 la Regione
Autonoma della Sardegna ha investito quasi 120 milioni di euro distribuiti in
oltre quattromila progetti rivolti ad altrettanti studenti sardi per garantire
un’alta formazione e, in molti casi, un futuro migliore di quello che avrebbe
potuto offrire il panorama sardo. Oggi quella stagione sembra essersi
definitivamente conclusa dato che, leggendo l’allegato tecnico al bilancio di
previsione 2014-2016, si osserva come, per gli anni 2015 e 2016, le risorse
finanziarie programmate per il Master&Back siano pari a zero.
Sebbene la parte “Back”, quella dei
cosiddetti “percorsi di rientro”, fosse solo una delle due parti del programma,
è comunque vero che buona parte delle migliaia di beneficiari, spesso in
possesso di qualifiche di alto livello, non sono poi rientrati. Tutto il loro
potenziale, in termini di capitale umano, che oggi potrebbe essere invece attivato
se si cercassero delle modalità per mettere in contatto queste competenze con
le realtà economiche e imprenditoriali sarde, rimane invece latente e
inespresso.
Tuttavia, il non rientro dei borsisti
Master&Back è solo la punta dell’iceberg di quello che da almeno dieci anni
è un vero e proprio stillicidio che sta privando l’Isola delle sue energie più
dinamiche. Nel corso del solo 2013, secondo i dati dell’ultimo rapporto
sull’emigrazione delle Acli Sardegna, ben 6.500 sardi sono emigrati, di questi
2.254 si sono trasferiti all’estero. Sono andate via, in media, diciotto
persone al giorno per un intero anno.
Il tema però non viene preso seriamente
dalla nostra classe dirigente. Mentre la disoccupazione giovanile e dei meno
giovani si fa sempre più forte, e spinge verso l’emigrazione fasce sempre più
ampie della popolazione e sempre più in possesso di alti livelli di istruzione
e qualifiche, in Sardegna o non se ne parla o, tutt’al più, ci si limita a
parlarne in termini molto edulcorati.
Ormai si è quasi riluttanti ad usare
termini come emigrazione, si ammorbidisce il discorso e si parla di
“spostamenti”, forse perché la prima è una definizione troppo diretta e
preoccupante. Si preferisce vedere positivamente i tanti trolley che hanno
preso il posto di quelle che una volta erano le valigie di cartone. Del resto,
per quelli che restano una sistemazione si troverà, mentre, per quelli che
partono, ci saranno comunque una mare di opportunità da cogliere. Ma non qui,
oltre il mare.
In questo modo gli effetti di questo
processo non tardano a manifestarsi. Spopolamento, emigrazione, invecchiamento
della popolazione e bassa natalità sono sotto gli occhi di tutti e concorrono
ad alimentare il perdurare di una situazione di stasi e di stallo che ormai
riguarda ogni aspetto della società, incluso quello della dimensione politica.
Nel momento in cui le opportunità sono
sempre meno, rischia di diventare impossibile mitigare gli effetti, sulla
selezione della classe dirigente, del cosiddetto “principio di Peter”. Si
tratta di una tesi, apparentemente paradossale, nota anche come principio di
incompetenza e formulata nel 1969 dallo psicologo canadese Laurence J. Peter e che può essere concisamente formulata come segue:
«In una gerarchia, ogni soggetto tende a salire di grado fino al proprio
livello di incompetenza».
Il principio di Peter va inteso nel
senso che, in una gerarchia, i membri che dimostrano doti e capacità nella
posizione in cui sono collocati vengono promossi ad altre posizioni. Questa
dinamica li porta a raggiungere, di volta in volta, nuove posizioni, in un
processo che si arresta solo quando accedono a una posizione poco congeniale,
per la quale non dimostrano di possedere le necessarie capacità: tale posizione
è ciò che l’autore intende per «livello di incompetenza», raggiunto il quale la
carriera del soggetto si ferma definitivamente, dal momento che viene a mancare
ogni ulteriore spinta per una nuova promozione.
Sebbene il principio di Peter, formulato
nell’ambito degli studi della psicologia delle organizzazioni, si applichi
soprattutto alle dinamiche delle strutture organizzative di tipo gerarchico, è
anche vero che queste stesse dinamiche possono finire con il caratterizzare
un’intera regione. Soprattutto quando, come nel caso della Sardegna, l’intero
sistema economico e sociale è privato dell’energia e delle competenze delle
fasce più dinamiche della sua popolazione.
Fabrizio
Palazzari
da qui
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