martedì 31 luglio 2018

I test Invalsi servono a migliorare la scuola? - Christian Raimo



Il 5 luglio al ministero dell’istruzione è stato presentato il rapporto nazionale sulle prove Invalsi. Si tratta dell’indagine più rappresentativa mai condotta sugli studenti italiani, sulle scuole e sugli insegnanti.
Le proteste dei docenti e i boicottaggi dei test hanno accompagnato le prove fin dal suo primo anno di vita, il 2008. Nel frattempo l’istituto Invalsi (Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione) si è ingrandito, ha raddoppiato i finanziamenti che riceve ogni anno (attualmente circa cinque milioni di euro), ha cercato di ripensarsi rispetto alle critiche e, soprattutto, ha aumentato il suo peso nel dibattito pubblico sulla scuola, con ripercussioni più o meno evidenti anche sulla didattica.
Le prove Invalsi sono somministrate a tutti gli studenti italiani che frequentano la seconda e la quinta elementare, la terza media e la seconda superiore per misurare le competenze in italiano, matematica e inglese. Da quest’anno sono state introdotte alcune importanti novità: innanzitutto si è passati alla versione computer based delle prove (gli studenti, solo quelli delle scuole secondarie, hanno usato un pc della scuola); e in quinta elementare e in terza media è stata introdotta la prova di inglese. Le prove inoltre sono state svincolate dal voto per l’esame finale delle medie: l’accoppiamento era stato sempre molto criticato, soprattutto per la scarsa corrispondenza tra valutazione dei docenti e risultati Invalsi. Bisognava comunque aver svolto la prova per essere ammessi all’esame di terza media e dall’anno prossimo sarà lo stesso per l’esame di maturità: gli studenti del quinto superiore saranno tutti testati a marzo.
La più comune perplessità rispetto alle prove Invalsi è che trasformino la scuola in un grande testificio (nonostante dall’Invalsi insistano perché non si usino i termini test o quiz ma sempre prove), in cui la valutazione sostituisce del tutto la ricerca pedagogica: due critici di rilievo, per esempio, sono stati negli anni il pedagogista Benedetto Vertecchi e il matematico Giorgio Israel, che hanno entrambi lavorato al ministero cercando di ridimensionarne il ruolo e addirittura di cancellarli. Per avere un’idea di questa prospettiva critica, basta sfogliare un paio di testi recenti come La tirannia della valutazione di Angelique del Rey e Valutatemi! di Bénédicte Vidaillet, in cui si sottolinea come l’eccessivo peso attribuito a questo tipo di test generi negli studenti ansia da prestazione e da competizione.
Il rischio che viene paventato è che lo studente sia ridotto a un codice a barre, esaminato, classificato e selezionato: pronto per il mercato dell’istruzione e poi del lavoro. Il valore originario che invece viene rivendicato da chi le elabora è che le prove servono per migliorare la scuola.
L’attuale presidente dell’istituto, Annamaria Ajello (dal 2017) , è la prima a non provenire da una formazione economica (i primi a occuparsi di Invalsi sono stati funzionari dalla Banca d’Italia): è infatti ordinaria di psicologia alla Sapienza. Nella sede dell’Invalsi in via Ippolito Nievo a Roma, ci tiene a sottolineare l’aspetto al tempo stesso scientifico e costituzionale del suo lavoro: “In Italia la problematicità di nozione di apprendimento non è affrontata da un punto di vista scientifico. Innanzitutto occorre capire che tipo di apprendimento si valuta attraverso le prove: non tutte le materie vengono esaminate con l’Invalsi. Certo, ci si può chiedere a cosa serve una prova rispetto alla comprensione di un testo, alla matematica, o all’inglese. Ma la cosa fondamentale è riconoscere che dobbiamo garantire che almeno in terza media le persone sappiano leggere e comprendere un testo. Questo è un diritto che viene negato a metà della popolazione degli studenti”.
Il criterio fondamentale per Ajello è quindi: valutare non tutte le conoscenze, ma solo alcune competenze basilari (posizione che sembra in palese contraddizione con la recente apertura del ministro Marco Bussetti, che ha detto di voler allargare le prove alla geografia).
Ma se sull’idea di valutare lo stato della scuola per capire come rinnovarla sono tutti d’accordo, la differenza più profonda tra chi difende a spada tratta i test Invalsi e chi invece ne critica l’impianto, si concentra spesso tra una valutazione di tipo censuario e una di tipo campionario. Ovvero, per avere a disposizione dei dati per migliorare la scuola, ha senso esaminare tutti o basterebbe lavorare con un campione statistico ben scelto?
Ajello è convinta che le prove Invalsi siano necessarie per “dare conto” in modo sistematico di quello che fa e quello che non fa la scuola italiana: “Le prove sono in linea con le Indicazioni nazionali, ed è necessario che siano obbligatorie, per controllare il funzionamento del sistema. Quello che manca è invece una pianificazione del miglioramento a partire da quello che ci mostrano i dati”, che non è una cosa da poco.
Lei lo dice pacatamente, ma il paesaggio fotografato dal rapporto 2018 non soltanto è drammatico, ma è – si potrebbe dire – esponenzialmente tragico: dove negli ultimi anni le cose sono andate male, peggiorano. I progressi sono evidenti invece dove la scuola funziona meglio. Le disuguaglianze tra nord e sud, isole comprese, aumentano; quelle tra aree metropolitane e aree interne anche; pesano molto le differenze di genere; lo status socioculturale delle famiglie continua a incidere parecchio sui risultati scolastici e sulla scelta della scuola superiore. “Per chi va a scuola in Veneto è come se, per competenze acquisite, di fatto facesse un anno in più di chi va a scuola in Calabria”, dice Roberto Ricci, responsabile dell’area prove durante la presentazione del rapporto annuale.
Certo Ajello sottolinea come negli ultimi anni l’Invalsi si sia impegnato anche a riconoscere il valore aggiunto della singola scuola rispetto ai risultati degli studenti – e nel 2018 quella più virtuosa è a Catania, ossia nel sud che il resto delle prove ci mostra depresso – ma questo non significa che gli esiti siano incoraggianti, perché il contesto sociale e familiare è così rilevante da denunciare solo come “la scuola da sola non ce la fa”, il che è non poco sconfortante.
Se le intenzioni dell’Invalsi sono palesi, gli aspetti ancora opachi sono diversi. Il primo riguarda l’uso dei dati. In una società che ha sempre più bisogno di valutazioni su larga scala, una così vasta rilevazione è un boccone prelibato per chi – dalle università alle aziende – immagina di fare selezione servendosene. L’Invalsi diventa di fatto uno strumento dell’istruzione a numero chiuso. Questo rischio l’istituto lo riconosce, ed evitarlo negli anni futuri sarà sempre più difficile.
In generale la critica più profonda che tocca le prove è che l’esame che compie l’Invalsi volga lo sguardo al passato per distribuire meriti o colpe, mentre la valutazione dovrebbe analizzare i processi per indirizzare le attività future.
E un forte imbarazzo emerge quando ci si accorge come a scuola una parte sempre più ampia del tempo sia dedicato alla preparazione ai test. Addirittura in libreria il reparto pedagogia è sempre più stretto, a scapito delle pubblicazioni ad hoc, tipo gli Alpha test: un’editoria di allenamento all’Invalsi simile a quella fiorita per i quiz per il numero chiuso universitario.
Il nodo più critico riguarda il rapporto tra la didattica e le prove. Perché, nonostante si faccia tutto per evitarlo, il pericolo di dare così tanto rilievo ai test porta non solo molti professori a impostare la didattica proprio per il teaching to test, ma anche molti libri e manuali scolastici ad ampliare sempre di più lo spazio dato all’allenamento all’Invalsi, in termini di pagine e di ore spese in classe. L’anno prossimo, in cui per le ultime classi delle superiori i test Invalsi si aggiungeranno alle ore destinate all’alternanza scuola-lavoro (requisito obbligatorio anche questa per sostenere la maturità), quanto tempo e quanta libertà didattica verrà sottratta agli insegnanti e agli studenti?
Se questi sono rischi meno visibili, la mancanza più chiara e grave nella lettura dei dati 2018 è quella politica. Il ministro Marco Bussetti il 5 luglio ha introdotto la presentazione del rapporto con due considerazioni generiche e poi ha lasciato la sala. La fotografia nitidissima di un’Italia divisa dalle povertà educative ha lasciato tutti indignati e preoccupati, ma è molto più allarmante che non si reagisca a questa fotografia dichiarando con semplicità quali iniziative si vogliono prendere.

Questo articolo è stato scritto con la collaborazione di Giulia Addazi.

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