lunedì 8 luglio 2019

Chernobyl secondo HBO: mistificazione di una catastrofe - Giorgio Ferrari




Può il successo di una serie tv giustificare la manipolazione e falsificazione di eventi che hanno segnato la storia dell’umanità? Evidentemente sì a giudicare dall’assoluta assenza di critica che ha accompagnato la serie HBO su Chernobyl, il cui tema conduttore gira intorno ai segreti e alle bugie del regime sovietico circa le cause dell’incidente. La narrazione degli avvenimenti che fa da corollario a questa tesi, ci descrive una non società, penosamente avviata a dissolversi, dove ogni ambito (tecnico, medico, amministrativo) o è viziato dall’ottusa crudeltà del regime, oppure è del tutto impreparato ad affrontare gli eventi. Lungi dallo spiegare allo spettatore cosa stavano facendo quella notte a Chernobyl (e perché), i tecnici dell’impianto appaiono solo arroganti e incompetenti (non sanno spiegarsi come sia potuto esplodere il reattore!) mentre l’immagine che si dà dei pompieri è quella di poveri sprovveduti (pompano acqua sul reattore in fiamme con le manichette!) a cui però non si può non riservare una doverosa compassione.
Quanto agli scienziati Valerij Legasov, effettivamente esistito, e Ulana Khomyuk personaggio di fantasia, sono le figure che salvano, più che le vite umane, la dignità della scienza e in particolare di quella che si occupa dell’energia nucleare di cui lo sceneggiatore Craig Mazin è un convinto sostenitore. L’umanità che fa da sfondo al dramma invece, è suddivisa tra l’incoscienza (alle due di notte si mette ad osservare la catastrofe esponendo letteralmente i propri figli al pulviscolo radioattivo che cade dal cielo come una manna!) e l’abbrutimento totale sintetizzato dai minatori che scavano tutti nudi il tunnel sotto il reattore, fumando incessantemente come del resto fanno i tecnici della centrale anche nelle zone dove ciò è universalmente vietato. Che dire poi dei soldati (di cui la serie non spiega nulla circa l’apporto determinante nell’affrontare l’emergenza) rappresentati a brandire minacciosamente il mitra perfino contro i minatori del Donbass! E sì che se c’è, ancora oggi, un legame intangibile in Russia è quello tra il popolo e l’Armata Rossa.
Possibile mai che dopo tanti anni, dopo il crollo del comunismo e tutto ciò che ne è seguito si descriva ancora la società sovietica e il popolo che la componeva in modi così grossolani e insultanti? Il primo film su Chernobyl è stato fatto in Urss, “Raspad” del 1990 (visibile su internet con sottotitoli in inglese) dove senza fare sconti al regime e agli uomini della nomenklatura (letteralmente definiti bastardi), il dramma della popolazione è trattato con tutt’altra sensibilità; vi sono scene come l’evacuazione di Prypiat, quasi integralmente “copiata” da HBO (compreso il cane che insegue gli autobus dell’evacuazione) o quelle tumultuose relative all’esodo da Kiev, che restituiscono a quella vicenda una dimensione umana. Qui i soccorritori (pompieri e personale medico) svolgono il loro compito non per incoscienza di quanto avvenuto (dato che la presenza di grafite all’esterno dell’impianto glielo fa capire) ma perché è il loro compito e nessun altro può farlo. Nel film HBO invece un pezzo di grafite incandescente viene addirittura preso in mano da un incredibilmente ignaro pompiere! Uno dei tanti dettagli “tecnici” attraverso cui si dipana la manipolazione di quegli avvenimenti che furono, tardivamente, resi noti dall’Urss, discussi, ridiscussi e alla fine accreditati anche dalle istituzioni internazionali.
Dietro le quinte dell’incidente
Chi scrive ha un legame particolare con la tragedia di Chernobyl. All’epoca ero in forze al Servizio Reattore della Direzione delle Costruzioni dell’Enel con il compito di controllare la fabbricazione del combustibile nucleare di tutte le centrali dell’Enel, pur essendo da tempo un attivista antinucleare. Il capo di quel servizio era l’ingegnere Paolo Fornaciari, figura notissima del nucleare italiano e padre putativo del PUN (Progetto Unificato Nucleare).
Eravamo tutti sbigottiti e pur rendendoci conto che il livello di contaminazione internazionale era indice di un incidente gravissimo, nessuno di noi pensò all’esplosione nucleare del reattore perché, semplicemente, non era tecnicamente possibile. D’altra parte quando sette anni prima, a Thre Mile Island, si era rischiata una esplosione meccanica conseguente alla formazione di idrogeno che avrebbe potuto avere esiti ben più gravi, nessuno esperto (nè la NRC nè L’IAEA) mise in conto che si potesse giungere alla distruzione del reattore. Dunque quando nel primo episodio l’operatore di Chernobyl, pressato dal suo capo, dice di non sapersi spiegare come il reattore sia esploso pur avendone l’evidenza (la grafite sparsa all’esterno), non è un incapace, ma esprime il medesimo atteggiamento che ebbero gli esperti di tutto il mondo di fronte alle notizie trapelate dall’Urss che il reattore era distrutto.
A questo riguardo va detto una volta per tutte che il silenzio, vergognoso e colpevole, delle autorità sovietiche prima dell’annuncio ufficiale dell’incidente da parte di Gorbaciov, non fu così totale come fu fatto credere. A partire dal 28 aprile, gli ambienti tecnici e scientifici dell’Urss intrattennero discreti ma ripetuti contatti con l’occidente: con la Svezia certamente, in quanto paese colpito sensibilmente dalla nube radioattiva, ma anche con tecnici e scienziati della Germania e dell’Italia a cui fu chiesto consiglio su come “trattare” il nocciolo, ovvero se era il caso di raffreddarlo con acqua oppure no. La risposta unanime fu che era meglio ricoprirlo di sabbia, boro e piombo, cosa che poi fu realizzata in una decina di giorni grazie agli elicotteristi dell’aviazione (molti dei quali reduci dall’Afhganistan) che effettuarono 1400 missioni scaricando sul cratere oltre 5000 t di queste sostanze. Ma l’aspetto eccezionale di questi contatti fu che nel chiedere “consiglio” i tecnici sovietici ci fecero implicitamente sapere che il nocciolo di Chernobyl era scoperto, altrimenti come si sarebbe potuto ricoprire con sabbia etc, se esso fosse stato ancora racchiuso nella struttura di cemento armato? Perciò quando nella seconda puntata HBO, Ulana Khomyuk fa notare a Legasov che l’operazione di copertura del nocciolo è quasi un errore perché così facendo il “calore” del nocciolo, non riversandosi più verso l’esterno, avrebbe portato al surriscaldamento e allo scoppio delle cisterne piene di acqua poste alla base del reattore, si operano due manipolazioni. La prima è che, come ho detto, quell’operazione era condivisa anche in “occidente” essendo la cosa giusta da fare; la seconda è che la copertura del nocciolo non aveva lo scopo di schermarne il calore, ma di contenere l’emissione di radiazioni inondandolo di materiali “assorbenti” come boro, piombo, sabbia.
Dunque sapevamo che il nocciolo era scoperto, ma non come si era giunti a questo. Solo nell’agosto del 1986 l’Urss spiegò al mondo la sua verità. Ad illustrarla a Vienna in una conferenza straordinaria, fu lo stesso Legasov ed è quella che poi fu ufficializzata nel rapporto IAEA INSAG 1 (International Nuclear Safety Advisory Group) del settembre 1986 quindi ben prima di quanto lasci intendere la quarta puntata della serie HBO. Sintetizzando: l’incidente era attribuito alla mancata osservanza delle procedure di sicurezza da parte del personale in turno, durante lo svolgimento di un test. In particolare la messa fuori servizio intenzionale dei sistemi di emergenza e le violazioni dei regolamenti operativi da parte del personale, rappresentavano una combinazione talmente improbabile da non poter essere prevista in sede di progetto. Il reattore era venuto a trovarsi in uno stato di instabilità tale per cui il coefficiente di reattività positivo aveva poi causato un aumento incontrollabile di potenza distruggendo il reattore.
A Vienna però Legasov non si limitò solo ad illustrare la relazione ufficiale della Commissione sovietica ma ebbe più di un incontro off records con scienziati e tecnici di altri Paesi. Ad uno di questi incontri prese parte anche l’ingegner Fornaciari che poi, al suo ritorno, ce ne fece un resoconto dettagliato, sottolineando tre aspetti su cui Legasov si era soffermato. Il primo riguardava il test consistente nella verifica che, in caso di scram del reattore e di contemporanea perdita di alimentazione elettrica dalla rete, la forza di inerzia del gruppo turbina-alternatore fosse in grado di alimentare da sola e per un certo tempo i servizi di emergenza dell’impianto. La cosa lasciò di stucco tutti gli esperti occidentali, non per la sua audacia, ma per le ricadute positive che avrebbe potuto avere in termini di sicurezza. Ciò che ancora oggi infatti rappresenta un piccolo ma insormontabile blind hole è che in caso di contemporanea perdita del reattore e della rete esterna, il funzionamento dei servizi di emergenza è assicurato da motori diesel, di enorme potenza, che per quanto siano rapidi nell’avviarsi, non sono in grado di erogare energia prima di 40-60 sec. Questo tempo può sembrare breve, ma in termini di fisica nucleare non è così: di qui l’estrema rilevanza del test di Chernobyl che peraltro non era la prima volta che veniva effettuato.
Il secondo aspetto riguardava le modalità di svolgimento del test, assolutamente negative fin dal suo inizio. I tecnici non riuscivano a stabilizzare il reattore alla potenza desiderata, che oscillò sensibilmente e per parecchio tempo, decidendo così di passare dalla gestione automatica dei parametri fondamentali, alla gestione manuale. Nel fare questo esclusero i sistemi di raffreddamento di emergenza ECCS, arrivando a “ponticellare” (parole di Legasov riferite da Fornaciari) i sistemi di protezione reattore allo scopo di non avere interferenze nell’esecuzione del test. Ma a causa del transitorio da Xeno – iniziato circa un’ora prima dell’incidente dopo che la potenza del reattore era scesa quasi a zero – decisero di estrarre altre barre di controllo per riguadagnare potenza, lasciandone inserite solo 8 mentre la procedura di esercizio imponeva che, in qualsiasi condizione, almeno 30 barre dovevano restare inserite nel nocciolo.
Il terzo aspetto riguardava alcune caratteristiche di progetto dei reattori RBMK (grafite-acqua) riferibili al coefficiente di reattività positivo, che alla luce dell’incidente di Chernobyl, sarebbero state riesaminate. Su questo punto Legasov, richiesto di ulteriori spiegazioni, si dichiarò non sufficientemente esperto per rispondere, essendo lui un chimico e non un fisico. Ma per quanto stringato, questo accenno aveva una grande rilevanza perché, ancora una volta, gli scienziati sovietici (attraverso Legasov) facevano sapere ai loro colleghi occidentali che il progetto dei reattori RBMK andava rivisto (cosa che poi puntualmente accadde) perché quel reattore era “malato”, aveva il “soffio” come lo definì uno di loro.
Ricordo che quando uscì il rapporto ufficiale dell’IAEA di quest’ultimo accenno non c’era traccia e neppure nelle abbondanti pubblicazioni tecnico-scientifiche dedicate all’analisi dell’incidente: eppure, sia pure in forma non ufficiale, i sovietici ce l’avevano fatto sapere che qualcosa non andava. Ma a livello internazionale prevalse la difesa della scelta nucleare rispetto al dovere di informazione e trasparenza: l’incidente di Chernobyl aveva letteralmente terrorizzato l’opinione pubblica mondiale e non c’era modo di convincerla che fosse solo colpa della tecnologia russa, anche perché per le persone comuni i reattori si somigliano tutti. Come spiegare infatti che i reattori inglesi fossero più sicuri di quelli russi anche se tutti e due impiegavano grafite. Del resto anche i reattori della General Electric erano reattori ad acqua bollente come quello di Chernobyl; e poi come giustificare le critiche al reattore RBMK a causa del suo coefficiente di reattività positivo, quando in Italia si costruiva il Cirene che aveva il medesimo handicap?
L’IAEA, i grandi gruppi industriali e le utilities nucleari di tutto il mondo fecero fronte verso l’opinione pubblica accettando e ratificando che la causa principale dell’incidente fossero le violazioni alle procedure di sicurezza anche perché, in separata sede, l’Urss aveva già preso impegni con l’IAEA per rivedere il progetto RBMK. Di questo se ne ebbe contezza nel 1987 al secondo incontro internazionale post Chernobyl e poi, definitivamente, nel 1992 con l’emissione del rapporto INSAG 7.
Pregiudizi e falsificazioni
Di questa dimensione internazionale del problema suscitato da Chernobyl, non c’è traccia nella serie HBO; anzi è proprio qui che il focus della questione invece di soffermarsi sulle intrinseche difficoltà della tecnologia nucleare e sull’omertà con cui vennero coperte, viene indirizzato contro il regime sovietico attraverso una falsa versione delle cause dell’incidente. Dando esclusivo credito alle dichiarazioni degli operatori in turno (“abbiamo fatto tutto secondo le procedure”) ribadita anche nel processo del 1987, si arriva a sostenere che fu proprio l’attivazione del pulsante di emergenza (AZ-5) a causare lo scoppio perché le “punte” (così vengono definite) delle barre di controllo erano state fabbricate in grafite invece che in boro per risparmiare e dunque, scendendo dall’alto, appena la grafite era entrata nel nocciolo, era aumentata la reattività provocando lo scoppio. Niente di più falso e ignobile!
L’argomento fu trattato proprio nell’INSAG 7, arrivando a concludere che sì i reattori RBMK presentavano delle lacune di progetto riguardo al controllo della reattività, ma che in ogni caso la violazione delle procedure da parte del personale era stata determinante nel causare l’incidente. Quanto alle cosiddette “punte” delle barre di controllo – peraltro comuni a tutti i reattori del mondo (nei reattori General Electric si chiamano “follower” perché le barre di controllo entrano dal basso) – esse devono essere fatte di materiale diverso dal boro (che è un assorbitore di neutroni) per esigenze di equilibrio del flusso neutronico nel nocciolo durante le variazioni di potenza. L’aver attribuito questo fatto a un meschino calcolo economicistico dei sovietici (rispetto al costo generale di un reattore 3-400 Kg in più di boro sono una bazzecola!) è indice di un pregiudizio duro a morire che vuole scaricare sul cosiddetto “impero del male” le conseguenze negative di una scelta – quella nucleare – che fu originariamente concepita dall’Occidente capitalista per scopi di guerra e che nella sua versione civile (atoms for peace) non ha portato affatto pace e benessere.
Nella mia vita ho maneggiato, non so quante volte, uranio, plutonio e loro affini. Ho sezionato barre di combustibile ridotte a brandelli per scopi di ricerca; ho visto da vicino il silenzioso, reverente timore di chi lavora negli impianti nucleari diventare paura durante un’emergenza da cui non puoi fuggire. E ho visto questi uomini pregare che il “dio” dei controlli automatici, dei rivelatori di flusso, delle valvole di sicurezza, tenesse a bada il “mostro” racchiuso in poderosi, quanto effimeri, vincoli di ferro e cemento. E allora ho capito che il rischio non valeva la partita; che tutto questo costituiva una inutile, dispendiosa complicazione per produrre energia altrimenti ottenibile per altri modi. Quando ci fu l’incidente di Chernobyl ero già impegnato da tempo contro il nucleare ma non riuscivo a togliermi di dosso il pensiero di quella gente accorsa a cercare di fare fronte a una catastrofe di cui non avevano alcuna colpa. Soldati, liquidatori, medici e vigili del fuoco, ma che ci sono venuti a fare? Perché non sono fuggiti lontano dal dramma e dalle radiazioni, facendo violenza a quell’umano istinto di conservazione che ti spinge a mettere in salvo la tua vita?
Lo chiamano eroismo, ma è qualcosa di infinitamente più semplice e nello stesso tempo più difficile da realizzare: è senso di appartenenza ad una collettività, è dovere sociale, rispetto delle generazioni a venire per le quali si arriva a dare in pegno la propria vita, come farebbe una madre per i figli. Ma è anche la denuncia estrema di una scelta tecnologica fatta in danno dell’umanità.
Questo è stato il lascito dei pompieri di Chernobyl che nel febbraio 1987 mi spinse a fare obiezione di coscienza verso il nucleare, tutto, non solo quello sovietico.
Oggi, con la serie HBO, quei pompieri muoiono per la seconda volta, non per mano dell’industria nucleare, ma per quella dell’industria dello spettacolo che, in questo caso, altro non è che la continuazione della prima con altri mezzi.

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