domenica 21 luglio 2019

Le critiche sul boicottaggio di Eurovision lo confermano: le vite dei Palestinesi non contano - Arwa Mahdawi




L’Eurovision è sempre stato un avvenimento di cattivo gusto, ma l’evento di quest’anno porta la situazione all’estremo. Se volete godervi questa competizione kitsch , che si terrà dal 14 al 18 maggio a Tel Aviv, in Israele, dovete  ignorare il sanguinoso contesto politico che la circonda. In effetti, Israele è talmente impegnato a mantenere la politica fuori dall’Eurovision da impedire l’ingresso nel Paese a chiunque si pensi possa disturbare l’evento.
Una delle cose più frustranti dell’essere Palestinese (io stessa sono in parte  Palestinese) è che sembra non esserci un modo accettabile per difendere la tua umanità o protestare contro la tua oppressione. Gli inviti a boicottare Eurovision, ad esempio, sono stati denigrati come divisori. Il mese scorso, celebrità come Stephen Fry, Sharon Osbourne e Marina Abramović hanno firmato una lettera in cui si afferma che lo “spirito di solidarietà di Eurovision è  sotto attacco da parte di coloro che chiedono di boicottarlo perché si svolge a Tel Aviv, sovvertendo lo spirito del concorso e trasformandolo da uno strumento di unità in un’arma di divisione “.
Soffermatevi sul linguaggio. Una forma pacifica di protesta è descritta come un “attacco” e “un’ arma”. I Palestinesi e i loro sostenitori sono considerati aggressori irragionevoli e violenti. Nel frattempo, il contesto più ampio viene ignorato. Il fatto che la maggior parte dei Palestinesi, anche quelli che vivono a poche miglia da Tel Aviv, non abbiano alcuna speranza di partecipare all’Eurovision grazie alle severe restrizioni di viaggio loro imposte, viene ignorato. Il fatto che ci sia un intero sistema di infrastrutture (dal muro dell’apartheid in cemento alle strade separate) progettata per separare Palestinesi e Israeliani ,viene ignorato.
A meno che  voi non siate stati in Palestina, è difficile capire la violenza quotidiana dell’occupazione. È difficile capire  perché qualcuno come mio padre, nato in Cisgiordania, non abbia il diritto di tornarci. È difficile immaginare cosa significhi vedere le proprie case e la propria storia demolite. È difficile capire l’umiliazione  che si subisce nell’ attraversare i checkpoint israeliani per poter andare a visitare un parente nel villaggio vicino. È difficile immaginare che cosa significhi sentirsi costantemente dire che non esisti.
I Palestinesi non sono disumanizzati solo nella vita,  ma anche nella morte. Basta guardare, per esempio, ad alcune delle notizie sulle recenti violenze a Gaza. Secondo il Washington Post del 6 maggio, “quattro civili israeliani sono stati uccisi … e 23 Palestinesi sono morti”. La CNN ha riferito che 23 persone “sono morte a Gaza” mentre “in Israele, quattro persone sono state uccise”. Le vite dei Palestinesi non contano. I media americani lo chiariscono ogni volta che parlano di morti palestinesi, abitualmente descritti con una terminologia che li categorizza come incidenti occasionali. Strano come i Palestinesi continuino a incappare in proiettili vaganti; non posso immaginare di chi sia la colpa, davvero.
Secondo alcune agenzie giornalistiche, i Palestinesi sono sempre da incolpare. La violenza israeliana, ci viene ripetutamente detto, è semplicemente autodifesa. “I militanti di Gaza lanciano 250 missili e Israele risponde con attacchi aerei”, ha proclamato domenica il New York Times; questa  onnipresente versione potrebbe farvi credere che Gaza sia stata pacifica fino a quando Hamas ha iniziato a lanciare missili. Ciò che non è menzionato è il fatto che venerdì,  prima che venissero lanciati i razzi, le forze israeliane hanno sparato a dozzine di manifestanti palestinesi disarmati; due di questi, uno di appena 19 anni, sono morti.
Le morti palestinesi come quelle di venerdì non ricevono molta copertura mediatica, perché la violenza nella regione sembra avere importanza solo quando muoiono degli Israeliani. Il Washington Post e il New York Times lo hanno detto loro stessi quando, lunedì, hanno dichiarato che questa recente violenza è stata la “più sanguinosa battaglia dalla guerra del 2014”. A Gaza il 14 maggio dello scorso anno, durante le proteste scatenate dall’apertura dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, più di 50 Palestinesi sono stati uccisi e più di 2.400 feriti. Gli ultimi giorni non sono quindi stati, in  nessun modo, i “combattimenti più letali” dal 2014 per i Palestinesi.
Sotto un blocco israeliano che dura da 12 anni, la vita a Gaza è insopportabile. La disoccupazione è superiore al 50%; c’è poca elettricità; meno del 4% dell’acqua è potabile. È anche praticamente impossibile entrare o uscire; la Striscia è una prigione a cielo aperto. La responsabilità della situazione in cui si trova  Gaza è attribuita alle persone che con Hamas  hanno  eletto un governo estremista, ma anche le forze armate israeliane hanno ammesso che Israele  dovrebbe  migliorare le condizioni di vita nella striscia di Gaza, se vuole evitare più violenza.
È difficile immaginare come si possa  affermare che non esiste un modo giusto per protestare contro questo trattamento. La resistenza violenta è ovviamente fuori questione. Ma fuori questione sembrerebbero anche le forme di resistenza non violenta, come il movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni, visto  che gli Stati Uniti stanno cercando di renderle illegali. A quanto pare, l’unica cosa accettabile che possiamo  fare come  Palestinesi è semplicemente stare zitti e morire. E, per l’amor di Dio, non protestare contro l’Eurovision!

(Questo articolo è stato modificato l’8 maggio 2019. Il concorso Eurovision si svolge dal 14 al 18 maggio, non dal 12 al 14 maggio, come indicato in una precedente versione
Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù”- Invictapalestina.org)


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