sabato 20 luglio 2019

La regionalizzazione della scuola non si fa, dice il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte

e i leghisti ancor s'incazzano, direbbe Paolo Conte

domanda: il modello dei leghisti è la Catalogna, o l'ex Jugoslavia?

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Regionalizzazione della scuola, qualcuno mente - Massimo Villone

Le pretese delle regioni secessioniste sulla scuola sono incompatibili con l’accordo del 24 aprile firmato da Conte e Bussetti con i maggiori sindacati (Cgil, Cisl, Uil, Snals, Gilda), a seguito del quale fu sospeso lo sciopero già indetto per il 17 maggio. Tuttavia, dopo il vertice di maggioranza sulla regionalizzazione filtrano notizie di un incontro costruttivo, salvo profili di finanziamento. Se ne riparlerà con Tria. Il governo straccia l’accordo? O qualcuno mente?
C’è un problema, e ha un nome: Bussetti. In una intervista al Corriere Venezia e Mestre del 7 luglio apre – per la scuola veneta – su tutti i fronti: ruoli del personale, concorsi, curricula, organizzazione e finalità del sistema scolastico. Dichiara che il modello è il Trentino-Alto Adige. È l’esatto contrario dell’accordo del 24 aprile, ma il ministro si limita a dire che i sindacati «quando leggeranno le bozze di intesa si convinceranno». Bussetti viene platealmente meno alla propria firma, e certo paga un prezzo politico alto. Evidentemente, pensa che ne valga la pena, perché la scuola è uno dei maggiori capitoli del regionalismo differenziato, per almeno due motivi.
Il primo. La scuola è la fucina dell’identità del paese. Il separatismo nordista in marcia vuole abbandonare definitivamente l’obiettivo di ridurre il divario Nord-Sud e di garantire l’eguaglianza dei diritti. Bisogna concentrare nel Nord le poche risorse disponibili e liberarlo dalla zavorra del Sud, perché almeno la parte del paese che ne è capace si agganci all’Europa dei più forti. Il resto si arrangi, ed anzi contribuisca con il proprio sangue per quel che può. È un neo-colonialismo a uso interno, un cambio violento del paradigma costituzionale originario, che impone di costruire un fondamento culturale nuovo, non più unitario e nazionale. È questo il cruciale compito della scuola regionalizzata.
Il secondo motivo. La scuola è una realtà politicamente appetibile. Quale governatore o assessore si farebbe sfuggire la possibilità di gestire decine di migliaia di docenti, strumenti efficaci di produzione del consenso? Averne la disponibilità definirebbe la cifra dei governanti nel sistema politico. Una volta partito il treno per alcuni, gli altri non potrebbero permettersi di essere da meno, e l’effetto domino condurrebbe a una frantumazione generale, del tutto funzionale al separatismo nordista. Sarebbe ora che le regioni – in specie del Sud – che si sono accodate alle tre di testa parlassero in chiaro, visto che la loro sopraggiunta richiesta di autonomia è richiamata in ogni momento dagli sfasciacarrozze dell’Italia unita.
Il modello Trentino genera dubbi e dissensi, e non è esportabile. Secondo i calcoli più attendibili sposterebbe un pacco di miliardi verso Lombardia e Veneto e – per l’invarianza di spesa – sottrarrebbe un pari importo alle risorse per l’istruzione nelle altre. Ma di sicuro non è solo una questione di soldi. Gli stessi docenti trentini segnalano come a fronte di limitati vantaggi economici, peraltro strettamente legati a un maggiore carico di lavoro, i docenti e l’intero sistema scolastico siano completamente sottoposti al potere politico locale. Abbiamo sempre sospettato – e scritto – che la firma di Bussetti sull’accordo e l’auto-qualificazione di Conte come garante dell’unità del paese valevano poco o nulla. Ma non serve recriminare. Conta sapere cosa il sindacato voglia fare ora per rispondere allo schiaffo. Soprattutto considerando che è inutile sbandierare rimedi non esperibili come il referendum abrogativo, inammissibile – per motivi diversi – sulla legge di approvazione delle intese e sui decreti del presidente del consiglio dei ministri attuativi della riforma.
È intollerabile che gli esponenti leghisti nel governo si comportino da attendenti o sguatteri di Zaia & co., e che quelli M5S li lascino fare. La visione di Bussetti è contraria alla Costituzione, minoritaria nel paese, e nel mondo della scuola trova una avversione netta e dichiarata. Il suo compito di ministro della Repubblica sarebbe, qualora ne fosse all’altezza, quello di «efficientare» la scuola mantenendone intatta la natura e l’organizzazione nazionale e unitaria.
Secondo un’antica teoria, la funzione crea l’organo. La querelle scientifica non ci interessa. Ma notiamo che per l’esperienza empirica almeno in qualche caso è l’organo che definisce la funzione.
[Da Il manifesto]
da qui





Ecco le carte segrete sull’autonomia differenziata: come Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna si preparano a frantumare il paese. - Redazione ROARS


Pubblichiamo in anteprima in forma integrale le bozze di intesa sottoscritte dal Presidente del Consiglio Conte e dai governatori delle tre regioni interessate: Fontana, Zaia e Bonaccini, datate 16 maggio ed attualmente in discussione nelle segrete stanze del governo.
Documenti volutamente occultati durante questi mesi e non pubblicati se non nella parte introduttiva (titolo I), indisponibili al dibattito, alla conoscenza di dettaglio, alle ipotesi sul futuro del paese. Nè studiosi nè cittadini hanno avuto modo di consultarle finora, nonostante la prima versione, circolata surrettiziamente e da noi pubblicata l’11 febbraio, facesse già presagire la gravità del processo verso cui il regionalismo differenziato avrebbe condotto.
In un’atmosfera da “golpe tecnico”, in cui decisioni riguardanti tutti gli italiani sono rimesse nelle mani di pochi esponenti dell’esecutivo e dei governi regionali, i nuovi testi delle intese annunciano un precipizio istituzionale: la frantumazione, sostanzialmente irreversibile, delle strutture materiali ed immateriali alla base della collettività e dell’identità nazionale. Scuola, Sanità, Ricerca, Infrastrutture, Beni culturali, Ambiente, Professioni, Previdenza integrativa, Sicurezza sul lavoro e altro ancora, con relative risorse, dalla competenza statale passerebbero a quella regionale. La pattuglia costituita da Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna continua ad esigere ciò che voleva fin dall’inizio, incurante dei pareri diffidenti o contrari degli studiosi che in questi mesi si stanno avvicendando presso la Commissione parlamentare per il federalismo fiscale o la Commissione per le questioni regionali.
In tema di Istruzione, Università e Ricerca le muove bozze non si discostano in modo significativo dalla precedente versione dell’11 febbraio. Complessivamente, al Veneto spetta la richiesta più aggressiva: tutte le 23 materie consentite dal Titolo V della Costituzione (articolo 2 bozze Veneto). Segue la Lombardia con la richiesta di 20 materie (mancano all’appello giustizia di pace, le casse di risparmio, rurali e gli enti di credito fondiari, art. 2 bozze Lombardia). Infine, l’Emilia Romagna, che chiede 16 competenze (art. 2 bozza Emilia Romagna). Di seguito commentiamo le competenze relative all’istruzione, rimandando a Il Quotidiano del Sud (che ha avuto modo di visionare il documento non ancora pubblicato) i lettori interessati a un commento sugli altri importanti aspetti oggetto di negoziazione: risorse, giustizia, ambiente e rifiuti, lavoro e cassa integrazione, strade e aeroporti e, dulcis in fundo, flussi migratori, ovvero «la programmazione delle quote regionali di ingresso per motivi di lavoro dei cittadini comunitari».

Un breve commento sull’istruzione.
In spregio all’intesa siglata con i sindacati più rappresentativi il 24 Aprile  e alla loro manifestazione  a Reggio Calabria il 22 giugno scorso,  noncurante degli scioperi indetti dai sindacati di base, delle mobilitazioni e manifestazioni di dissenso che si moltiplicano da mesi in ogni angolo del paese, dell’indignazione crescente nei confronti dell’occultamento di un processo denunciato da più parti come irreversibile e lesivo dei principi di uguaglianza e solidarietà,  il Ministro Bussetti – unico titolare della parte di intesa in materia di istruzione – sottoscrive esattamente ciò che le Regioni pretendevano in principio.
Per Veneto e Lombardia, semplicemente tutto. Meno per l’Emilia Romagna, in questa fase, che chiede tuttavia l’organizzazione della rete scolastica, la programmazione della dotazione degli organici, la realizzazione di un sistema integrato di istruzione del secondo ciclo/istruzione professionale, ed altro.
Per quanto riguarda gli articoli del Titolo II delle bozze lombardo-venete sull’istruzione, si tratta di testi sostanzialmente sovrapponibili (fatta eccezione per una clausola sulla mobilità del personale da trasferire nei ruoli regionali, art. 11 comma 7, bozza Lombardia), che chiedono tutte le competenze presenti nella bozza del febbraio scorso.
Anzi. Dettagliano in un apposito articolo (su cui pare si concentri la maggior parte dell’attuale discussione) – l’11 per la Lombardia e il 12 per il Veneto – le norme che regolerebbero il trasferimento del personale degli Uffici Scolastici regionali, dei dirigenti scolastici e degli insegnanti di Lombardia e Veneto.
Come dichiarava, implicitamente, Bussetti proprio ieri in un’intervista al Corriere del Veneto, la scuola disegnata dalle bozze del 16 Maggio passa nelle mani della politica regionale, esattamente come è accaduto in Trentino, il cui sistema di istruzione rappresenta il modello della futura “scuola differenziata”.
D’altra parte, afferma Zaia nella sua audizione del 3 Aprile 2019 presso la Commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale, il disegno è chiaro:
L’ocio del paròn ingrasa el cavàl” (1).
Come a dire: riduciamo le catene di comando, controlliamo gerarchicamente i docenti (mettendo a guardia dirigenti amministrativi e dirigenti scolastici, immediatamente dipendenti regionali) e il loro insegnamento. Facciamo (definitivamente) della scuola l’ organo di governo della conoscenza e del mercato del lavoro regionale.
L’intesa sindacale diventa ora carta straccia. Ai sindacati, dunque, la prossima mossa.
Di seguito, le bozze delle tre regioni…





La scuola è il banco di prova dell’unità del paese - Massimo Villone

Finalmente abbiamo visto a Palazzo Chigi volare un po’ di stracci per l’autonomia differenziata. Probabilmente hanno contribuito a generare la tempesta le bozze pubblicate da Roars. Sono persino peggiori di quel che si poteva pensare, e di sicuro spazzano via ogni residua ipocrita rappresentazione di inconsapevolezza. Era davvero intollerabile la sensazione che scelte di vitale importanza per il futuro del paese scivolassero su un piano inclinato di miserabili scambi con questioni di assai minore momento, o ancora peggio con un attaccamento alla poltrona.
A quanto si sa, il conflitto si è aperto sulla scuola, ed è giusto così. Anzitutto per la cruciale importanza che ad essa riconoscono sia i fan che gli oppositori dell’autonomia differenziata. C’è bisogno di un fondamento culturale sia per l’unità che per la separatezza. È la cultura sottostante che ne determina l’attrattività e la durevolezza nel tempo. La scuola è necessaria a difendere l’unità del paese, come è necessaria a chi il paese vuole dividere per costruire una cultura separatista. Dall’esperienza catalana viene qualche lezione.
  
Può darsi che si mostri impossibile andare avanti sulla scuola, e lo speriamo. Dovrebbe essere tolta dal tavolo della trattativa. Ma non sarà facile indurre Bussetti a cambiare rotta, dopo che ha gettato alle ortiche il suo buon nome di ministro. Mentre firmava l’accordo con i sindacati della scuola del 24 aprile di nascosto costruiva la iper-regionalizzazione nelle bozze di intesa. Come ha commentato, sul modello del Trentino-Alto Adige. E c’è da chiedersi come M5S l’abbia lasciata passare, pur essendo presente a livello di sottosegretario. Comunque, anche una tardiva resipiscenza è meglio di nulla.
Altro ostacolo, a quanto si apprende, le risorse. Vedremo di capire meglio. Ma ormai sono molte le testimonianze – nelle audizioni, oltre allo stesso ministro Tria, Viesti, Giannola, Guerra, Cerniglia – che certificano come con il meccanismo previsto nelle intese non sia possibile evitare un ingiusto e irreversibile privilegio per le tre regioni secessioniste, e giungere a una distribuzione delle risorse equilibrata e attenta ai bisogni, alla solidarietà e alla coesione territoriale. L’ultima voce in tal senso è di Zanardi, dell’Ufficio parlamentare di bilancio (organo tecnico indipendente e lontano dalla politica), che in audizione il 10 luglio si aggiunge alla valutazione negativa del Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi nell’appunto reso al premier Conte.
Altri ostacoli si profilano. Come si potrebbe ad esempio giustificare il passaggio al demanio regionale di infrastrutture e opere pubbliche – come le autostrade – costruite nel tempo con i soldi di tutti gli italiani? Con l’effetto collaterale, a causa della maggiore infrastrutturazione del Nord, di un ulteriore occulto drenaggio di risorse dal Sud. E che dire di uno Stato reso incapace di politiche nazionali di sviluppo e riequilibrio?
Il contrasto che si è aperto potrebbe essere l’occasione buona per rimettere l’autonomia differenziata sul binario di una corretta lettura dell’art. 116, co. 3, Cost., ponendo fine alla bulimia delle regioni di testa e riconducendo le richieste a ragionevoli e limitate forme e condizioni particolari di autonomia.
Basta colpi di mano volti a spaccare il paese occultando le carte e puntando alla mera ratifica di un parlamento imbavagliato. L’Italia ha già vissuto la difficile vicenda di una Padania secessionista. Evitiamo il remake di un «grande Nord» separatista.
E dunque vogliamo sperare che a Palazzo Chigi non sia stata una fake war, di mera rappresentazione teatrale. Se son rose, fioriranno. Anzi, nella specie, appassiranno.


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