venerdì 17 aprile 2020

discussioni sulle migrazioni



Non chiamiamole migrazioni: questo è un esodo

(intervista di Maria Antonietta Calabrò a Paul Collier)

«L’immigrazione? Si tratta di una questione troppo seria per lasciare le cose come stanno», afferma Paul Collier. E per cominciare a capire basta prendere in mano il suo ultimo libro: Exodus. I tabù dell’immigrazione (Laterza). Dimensioni bibliche insomma, e non come modo di dire, per un fenomeno che viene affrontato con dati e ricerche globali per consentire — si augura Collier — che «il dibattito sulle politiche migratorie superi le posizioni ostentatamente polarizzate ed esasperate di oggi».
Per Collier è stata una settimana molto impegnativa: una conferenza a Parigi, poi ha raggiunto Dacca (la capitale del Bangladesh), infine due conferenze in Svizzera, a Zurigo e Ginevra; per poi rientrare a Oxford dove insegna Economia e Politica pubblica alla Blavatnik School of Government ed è condirettore del Centre for the Study of African Economies. Nelle pause ha accettato di spiegare a «la Lettura» che cosa sia in realtà questo spostamento in massa di popolazioni da una parte all’altra del pianeta. E soprattutto quale sia la sua effettiva portata. Numeri impensabili anche per noi italiani, che pure abbiamo fatto fronte, nell’ultimo anno, a oltre 100 mila arrivi sulle nostre coste, con il Mediterraneo che è diventato una bara d’acqua.
Numeri impensabili perché Collier dice chiaramente che quasi il 40% della popolazione dei Paesi poveri, se potesse, vorrebbe lasciare la propria terra per raggiungere le nazioni ricche. E 40% significa che si tratta non più di milioni, ma di centinaia di milioni, forse di miliardi di persone che si trovano nella situazione di essere costrette a partire. Inoltre — aggiunge — la spinta a migrare durerà non anni, ma decenni. Perché la differenza di reddito da una parte all’altra del mondo è semplicemente «mostruosa».
Per 5 anni (dal 1998 al 2003) Paul Collier ha lavorato come direttore del dipartimento di ricerca sullo sviluppo della Banca mondiale, e come adviser del dipartimento di strategia e politica del Fondo monetario e del dipartimento per l’Africa della stessa Banca mondiale. Ha collaborato con il «New York Times», il «Financial Times», il «Wall Street Journal» e il «Washington Post».
Professore, lei ha individuato «fatti concreti che hanno conseguenze devastanti». Ciò significa che siamo soltanto all’inizio di questo fenomeno?
«Non bisogna farsi prendere dal panico, ma penso che le pressioni per le migrazioni tenderanno ad accelerare nell’arco dei prossimi due decenni, perché ci sono due motori potenti che spingono a emigrare. Innanzitutto il divario di reddito tra Paesi ricchi e Paesi poveri, divario che non diminuirà per molto tempo. Ed è semplicemente qualcosa che definisco mostruoso. Poi la diaspora dei migranti che sono già arrivati da noi e che costituiscono un ponte per gli altri, e questo ponte è in costante aumento».
Perché parla di «Exodus»?
«L’evidenza della ricerca suggerisce che molte persone nelle società povere, forse il 40%, affermano che vorrebbero emigrare verso i Paesi ricchi, se questo fosse possibile. Se si trovasse nella loro stessa situazione, lo farebbe anche lei».
Dunque lei è convinto che questo fenomeno abbia dimensioni davvero epocali?
«Quello che c’è di epocale è la disuguaglianza. Il desiderio di migrare è una risposta naturale, razionale, alla diseguaglianza».
Le migrazioni internazionali di massa sono una reazione all’estrema diseguaglianza globale?
«È così».
Perché? I Paesi poveri sono sempre più poveri?
«No, la maggioranza dei Paesi poveri sta facendo progressi, ma il divario è così ampio con noi Paesi ricchi che ci vorranno decenni».
Così lei ritiene che dobbiamo ripensare le politiche migratorie? In quale modo concreto?
«Sì, penso che dovremo farlo. Abbiamo bisogno di gestire le migrazioni in modo da non sottrarre ai Paesi poveri le persone più brillanti e più ricche di energia. Perché altrimenti anche la migrazione in se stessa contribuirà a crearne ancora, a prolungare ulteriormente la durata del fenomeno. Il nostro interesse stretto sarebbe il contrario, cioè accogliere i più brillanti e i migliori; ma questo vorrebbe dire sottrarre talento da dove è più necessario. La cosa più utile che possiamo fare, invece, è quella di accogliere i giovani brillanti, addestrarli, lasciarli lavorare temporaneamente da noi, ma con l’accordo che poi dovrebbero tornare indietro per aiutare le loro società».
Fenomeni come l’estremismo e il fanatismo sono in aumento. Pensa che il multiculturalismo abbia fallito?
«Noi non pensiamo mai a questo. Credo che l’integrazione sociale sia più preziosa di quanto fin qui compreso. Avere persone con culture radicalmente diverse dalla nostra va bene quando i numeri sono piccoli, ma produce tensioni quando questi numeri continuano a crescere».
I Paesi ad alto reddito diventeranno sempre più multirazziali?
«Non a tempo indeterminato. No. Raggiungeremo un equilibrio della diversità in cui le diaspore di migranti presenti da noi si integreranno tanto velocemente quanto i nuovi migranti che arriveranno».
Da un lato, le élite politiche hanno a che fare con le paure e i bisogni dei loro elettori; dall’altro con gli studi degli economisti. Il risultato finora è una grande confusione. Come se ne esce?
«Penso che gli effetti economici dell’immigrazione sulla popolazione ospite siano così piccoli che non sono una buona base per decidere cosa fare».
Per favore, suggerisca due passi da fare in un Paese come l’Italia, primo approdo in Europa del grande esodo.
«Primo: creare una politica di asilo più ragionevole che non dipenda dal fatto che qualcuno sia riuscito, con una buona dose di fortuna, a mettere un piede su una spiaggia di Lampedusa. Un sistema per cui gli immigrati che fanno domanda legalmente al di fuori dell’Ue abbiano una chance di entrare invece di pagare i trafficanti e rischiare di morire».
Secondo?
«Incrementare i posti di formazione per i migranti, subordinando questa formazione a un ritorno nei Paesi d’origine dopo 5 anni».


PAUL COLLIER, IL NEMICO SNOB DELLA DIASPORA - Sandro Chignola

Ho molti amici immigrati. Con alcune e con alcuni di loro ho condiviso pratiche di ricerca e lotte politiche. Qualcuno di loro è finito in galera o è stato espulso. Altri sono rimasti e contribuiscono attivamente a cambiare l’idea di cittadinanza e il diritto del lavoro in questo paese. È perciò con un certo fastidio che ho letto il libro di Paul Collier (Exodus. I tabù dell’immigrazione, Laterza, pp. 287, € 24). Come è mio costume, l’ho letto per intero. Un libro «imprescindibile per chiunque voglia approfondire» lo spinoso tema delle migrazioni, strilla la copertina. E forse è davvero così. Certo, non per le ragioni che esso direttamente esprime. Altri recensori dell’edizione inglese – su tutti gli economisti Michael Clemens e Justin Sandefur per “Foreign Affairs” (Let the people goqui) – ne hanno decostruito le pretese di scientificità, i circoli logici, l’uso selettivo e tendenzioso, per quanto ammantato di asettica scientificità, delle statistiche e della letteratura. Il libro di Sir Paul Collier, professore di Economia e politiche pubbliche ad Oxford, esperto delle economie africane e consulente del governo inglese, può essere letto come un sintomo dello strabismo dell’economia e dell’ideologismo che orienta il definirsi dell’agenda delle politiche migratorie, piuttosto.

Un modello prêt-à-porter
Collier posiziona il suo libro nell’alveo del razionalismo critico e del realismo. Con le «analisi accessibili e spassionate» in esso condotte, egli intenderebbe «scuotere le posizioni polarizzate» che sclerotizzano il dibattito opponendo da un lato l’ostilità ai migranti di xenofobi e razzisti e dall’altro gli interessi delle «élite imprenditoriali e liberali» (ovvio che sia così: da un lato il «comune cittadino» che subisce la pressione delle diaspore, dall’altro il liberale stilizzato come uno snob) per le quali la «politica delle porte aperte è un imperativo etico» in grado di continuare a garantire grandi benefici. Il suo problema, dopo un’analisi svolta per molte pagine in cui a quella che egli chiama, modellizzandola, l’«economia politica del panico» oppone una politica delle quote in grado di filtrare i flussi migratori selezionando i migranti in base a criteri di integrabilità e di skills, è di definire un «pacchetto» di misure concretamente spendibile per governarli massimizzandone l’utilità tanto per i paesi di accoglienza, quanto per quelli di provenienza, evitando così su di un lato il collasso della cittadinanza multiculturale (cui egli riconosce, bontà sua, di aver reso più «varie» e «vivaci» le culture dei paesi nei quali essa ha trovato realizzazione) e sull’altro l’intensificarsi di processi di spopolamento e di sottosviluppo.
Le migrazioni internazionali di massa sono una reazione all’estrema disuguaglianza mondiale, ci dice Collier. E questa disuguaglianza, che è aumentata nel corso degli ultimi due secoli, finirà nel prossimo, in nome di una teodicea del capitale, per il «globalizzarsi» della ricchezza e per il progressivo aggancio che i paesi poveri realizzeranno nei confronti dei paesi ad alto reddito (pp. 269-270). Si tratterebbe perciò di governare una fase transitoria, con il disincantato realismo di chi affronta l’immigrazione negli stessi termini del «riscaldamento globale» (l’analogia ricorre più volte nelle pagine finali del libro) e con il solare ottimismo di chi crede fermamente nei benefici del mercato. Una politica che restringa l’accesso dei migranti ai paesi ricchi – è piuttosto evidente che Collier solo questo problema veda – svolgerà la doppia funzione di garantire «l’interesse bene inteso» dei migranti e di rappresentare, questa la sua tesi fondamentale, un «atto compassionevole» nei confronti dei paesi e delle economie dalle quali essi provengono, permettendo altresì di mettere fuori corso tensioni e derive reazionarie nei paesi di accoglienza. Niente di meno.
Che la preoccupazione fondamentale del professore di Oxford sia la tenuta interna dei paesi ricchi ben più di quanto non lo sia lo sviluppo delle economie dell’«ultimo miliardo» oggetto più proprio dei suoi studi, lo dimostra la rappresentazione alquanto caricaturale del migrante che talvolta gli sfugge di sotto alla mole di dati selettivamente raccolti dalla più recente letteratura sulla sociologia delle migrazioni. Il migrante non soltanto è latore di una «cultura» cui resta rigorosamente identificato – quella stessa cultura che il «liberale benpensante» vorrebbe invece venisse riconosciuta e difesa — ma povertà e sottosviluppo del suo paese dipenderebbero per buona parte da essa. Sono le «culture – o le norme e le narrazioni – delle società povere, così come le loro istituzioni e organizzazioni», nel giudizio di Collier, «ad essere la principale causa della loro povertà» (p. 28). Il migrante tende a riprodurre la propria cultura — il nigeriano tenderà a comportarsi nel paese di accoglienza «in maniera diffidente e opportunistica» riproducendo il «codice morale» della propria società di partenza (p. 61) –, anche se nella sua scelta implicitamente si esprime un giudizio definitivo su di esso, poiché andandosene, «vota a favore del modello sociale dei paesi ad alto reddito». Ed è questo che conta: per Collier, «le migrazioni odierne non sono un viaggio alla ricerca di terre da coltivare, ma un viaggio alla ricerca di efficienza» (p. 44).


Moralismo compassionevole
Di qui la serie di conclusioni che affollano i capitoli del libro. Il migrante è un soggetto che imprenditorialmente investe su di sé e che cerca di massimizzare il suo self interest. Credendo di farlo, tuttavia, finisce talvolta con il fraintenderlo. Accade ad esempio quando la vita da migrante si fa pesante, lasciando trasparire un costo marginale negativo nel saldo tra un salario più alto e i «costi psicologici» della migrazione. Quello che appare al migrante un investimento può rivelarsi invece un errore. Altri hanno avuto modo di sottolineare come seguendo questa illuminata logica economica, lo stress delle donne che lavorano avrebbe dovuto consigliare loro (e a tutte le altre) di restare a casa e di preferire per la loro vita una comoda logica patriarcale del focolare e degli affetti. È il moralismo compassionevole con cui Collier guarda ai migranti e ai loro paesi di provenienza ciò che ancor più da fastidio. Almeno a me; non certo a chi ha ritenuto di tradurre e di far circolare in Italia, all’epoca del governo Renzi, un libro come questo, con il suo stile tecnocratico, progressista, centrista, anche se trasudante rappresentazioni arcaiche della migrazione e dei suoi soggetti: metafore climatiche, problemi sociali trattati in termini di pressioni e di tensioni demografiche (sui paesi ricchi, perché le migrazioni minano le coesioni «nazionali»; sui paesi poveri, portati a spopolarsi e a diventare «deserti»: «se l’Angola diventasse una propaggine della Cina o l’Inghilterra una propaggine del Bangladesh» — suppongo sia quest’ultima la preoccupazione principale del professore oxoniense — «si tratterebbe di una terribile perdita culturale per il mondo intero» (p. 245), egli ha modo di scrivere), «nazioni» pensate come oggetto di «identificazione emotiva» e dunque come «potentissimi fattori di equità».
«Le politiche pubbliche sono tenute a tener conto degli effetti che i migranti trascurano» (p. 248). È questo il punto di partenza e di arrivo. La scelta di migrare è un «atto privato» solitamente compiuto dal migrante stesso, talvolta con il contributo della famiglia.


Un quadro fosco
Eppure questa scelta privata produce effetti tanto sulla società ospitante quanto su quella di origine, dei quali il migrante non tiene conto. Su quella ospitante, non già un abbassamento dei salari o una perdita di lavoro per gli autoctoni, ma benefici minimi sulle finanze pubbliche – nonostante la massa di ricerche che attestano come il lavoratore straniero, in genere giovane, versi molti contributi e fruisca poco, ad esempio, dei sistemi sanitari nazionali, permettendo invece che ne godano le popolazioni locali – ed effetti di indebolimento del legame nazionale; su quella di partenza, un peggioramento complessivo poiché a migrare sono per lo più i più istruiti e i più dotati, i soggetti più disposti ad investire (prima di tutto su di sé) e coloro per i quali gli investimenti sulla formazione – ricaduta positiva sulle società di partenza, egli ci dice, proprio per la prospettiva migratoria che porta i genitori a scegliere per i propri figli un’istruzione migliore e un accesso alle lingue straniere – si traducono in una perdita secca. Perché mai impedire la migrazione, oppure renderla più selettiva e difficile, dovrebbe far sì che i cittadini stranieri «più dotati» possano esprimere le loro capacità producendo effetti progressivi e di modernizzazione su società delle quali, con una costante e sorprendente oscillazione, Collier sottolinea insistentemente la corruzione e l’inefficienza, così come le straordinarie potenzialità, il libro non ce lo dice.
È l’accelerazione dei flussi migratori determinata dalla crescita e dalla stabilizzazione delle diaspore l’ossessione – più che non il dato di analisi – che attraversa il libro. La facilità dei ricongiungimenti familiari e la truffa sul diritto di asilo, nel parere di Collier, permettono di abbattere rischi e costi della migrazione. Di qui, l’innesco di reazioni potenzialmente pericolose e fondamentalmente razziste nelle società di accoglienza. Non solo per la «pressione» degli immigrati, ma per l’incistarsi di gruppi – le diaspore, appunto, trattate in termini pesantemente culturali – non facilmente disposte a sciogliersi nel tessuto sociale delle democrazie avanzate.
Il «pacchetto» proposto da Collier per governare il problema cerca di comporre esigenze economiche e «compassione» per i migranti contestando il paradigma per il quale i flussi di migranti agiscono sempre in direzione di un incremento della ricchezza complessiva. Nei paesi di arrivo per l’enorme bacino di manodopera da essi fornito e per il volume delle rimesse (la World Bank le ha quantificate in oltre 400 miliardi di dollari) che i lavoratori inviano a casa. Si tratta di filtrare e di rallentare, non di impedire, i flussi di ingresso grazie a un meccanismo di quote programmate e di adottare quattro «criteri» che permettano di selezionare gli happy few ammissibili al permesso di soggiorno in base a «istruzione, occupabilità, origini culturali e vulnerabilità» (p. 258). E cioè: di far accedere uno stock di migranti immediatamente fungibili al mercato del lavoro dei paesi ricchi selezionato in base a criteri culturalisti di integrabilità e di corrispondenza alle esigenze delle loro economie.


La feroce logica delle quote
Collier arriva a sostenere che «un ulteriore requisito di ingresso» possa essere direttamente affidato al giudizio di «conformità» delle aziende che intendono assumere i migranti (p. 260) e il suo liberalismo «compassionevole» arriva ad ammettere sì il diritto d’asilo, ma spingendo per la sua riforma in senso restrittivo dato il costante «abuso» che di esso verrebbe fatto. Sua ipotesi conclusiva: i benefici economici sono prodotti dalla migrazione professionale; i costi sociali dalla diaspora non integrata. Che il costo dell’integrazione sia la riproposizione, sotto accademiche spoglie, del modello del lavoratore ospite degli anni Cinquanta del secolo ventesimo aggiornato alle esigenze del capitale globale, non sembra un’idea tale da giustificare l’operazione editoriale di Laterza. Certo, il libro venderà e troverà ascolto tra i consiglieri del governo del Patto del Nazareno. E il professor Collier potrà continuare a prendere il the a Oxford senza che un eccessivo odore di cucina bengalese finisca con l’infastidirlo.

questo articolo è stato pubblicato sul manifesto del 12 marzo 2015 col titolo “Il nemico snob della diaspora”


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