giovedì 23 aprile 2020

Sisyphus. Il devastante impatto dell’emergenza coronavirus su librerie e case editrici - Pietro De Vivo *



[Per una volta, anche noi «partiamo da noi». Siamo scrittori. Da vent’anni circa siamo “stipendiati” da voi lettrici e lettori. Ogni volta che comprate una copia di un nostro libro, noi riceviamo una percentuale del prezzo di copertina, variabile a seconda dei titoli e dei contratti. Percentuale che dividiamo tra i membri del collettivo, «stecca para per tutti». Quella è la nostra principale fonte di reddito.
Per una radicata convinzione etica e politica che ci accompagna da sempre, i nostri libri sono anche scaricabili gratis da questo stesso blog, magari in cambio di una donazione, spiccioli con cui paghiamo i costi del server e altre spese tecniche; ma abbiamo sempre chiarito che senza le vendite di libri – libri di carta – non camperemmo. E non si parla di “largheggiare”, ma di sbarcare il lunario. In Italia, dove si legge pochissimo, chi scrive libri si rivolge a una ristretta minoranza di potenziali acquirenti.
Questa, in realtà, è la fotografia della situazione prima dell’emergenza coronavirus.
All’incirca un mese fa, tutto il mondo del lavoro culturale è stato sconvolto. Nessuna lavoratrice o lavoratore delle filiere culturali sa se e come riuscirà a superare questa fase. Soprattutto chi era già in condizioni di precarietà, oggi vive nell’angoscia, in un limbo dentro il limbo. Tra non molto, buona parte della working class di quei settori – editoria, musica, cinema, teatro: tutti dichiarati «non essenziali» – sarà letteralmente alla fame.
Per quanto riguarda il nostro comparto, le librerie sono chiuse e non si sa quante riusciranno a rialzare la serranda «dopo»; dentro le case editrici non si sa ancora quali progetti andranno avanti, quali titoli usciranno e in che forma, quali contratti saranno rinnovati, se e quando arriveranno i pagamenti.
E bisogna allargare l’inquadratura, perché intorno alla scrittura e alla pubblicazione di libri si è sempre mosso molto altro. Nella nostra esperienza, è sempre stato centrale l’incontro con lettrici e lettori, indispensabile momento di promozione dei nostri titoli ma anche di confronto, di verifica del lavoro compiuto e ispirazione per il futuro. Eravamo abituati a macinare chilometri, in vent’anni migliaia di incontri pubblici: presentazioni, conferenze, laboratori, corsi, escursioni a tema… E anche reading e spettacoli, che in alcuni casi ci hanno aiutato ad arrotondare i proventi dei romanzi. Ora anche quest’aspetto è congelato. Musicisti, teatranti e circensi con cui abbiamo collaborato in questi anni riusciranno a risollevarsi? E quando e come sarà ancora possibile ritrovarsi in una sala piena di gente a parlare di libri?
È un mondo che è stato spinto in un cono d’ombra, e allora lo raccontiamo, dal punto di vista degli editori e librai indipendenti, con quest’articolo di Pietro De Vivo delle edizioni Alegre.
Colonna sonora consigliata: Pink FloydSisyphus, dall’album Ummagumma, 1969.
Buona lettura. WM ]

1. Una fatica di Sisifo
La sensazione è quella di girare in tondo, compiendo un percorso sempre uguale senza arrivare da nessuna parte eppure facendo uno sforzo enorme. È questo ciò che si prova a lavorare coi libri durante la crisi del Covid-19.
Se gli altri settori della cultura – a cui va tutta la nostra solidarietà – sono completamente fermi, noi viviamo un paradosso che rende il nostro lavoro simile a una fatica di Sisifo: tutta la filiera del libro è teoricamente funzionante tranne l’ultimo anello, le librerie. In molti avranno provato la sensazione di essere Sisifo, mentre rincorrevano decreti che nell’arco di pochi giorni cambiavano completamente il quadro, cercavano di capire entro quali margini agire per sopravvivere, riorganizzavano ogni volta il lavoro faticosamente ristrutturato dopo il decreto precedente. Una frustrante schizofrenia indice dall’approccio totalmente improvvisato di questo governo.
L’editoria è stata l’ultimo settore della cultura colpito dei decreti. Prima c’erano state le chiusure di teatri e cinema, le cancellazioni dei concerti, le serrate di musei, mostre e siti archeologici.
Già da qualche settimana, in realtà, erano state annullate presentazioni, festival e fiere, per via dell’invito a evitare assembramenti, poi formalizzatosi nel decreto del 9 marzo 2020 che ha contribuito a far rimandare o annullare anche eventi ancora lontani. Ma il paradosso si è materializzato quando il decreto dell’11 marzo ha sancito la chiusura delle attività commerciali al dettaglio che non vendono beni «di prima necessità», tra cui le librerie.
I cortocircuiti si intrecciano e nascono dalla domanda subito sorta spontanea: quale è stato il criterio adottato nella scelta dei beni considerati di prima necessità? In molti si sono chiesti come mai i negozi di informatica e telecomunicazioni e le profumerie fossero stati inclusi e le librerie no. Non è il caso di buttare la croce addosso alle profumerie: la cura e l’igiene del corpo sono sacrosante, anche in tempi di distanziamento sociale, tanto quanto la cura e l’igiene della mente. La produzione e la circolazione di cultura e sapere critico sono fondamentali soprattutto in momenti come questo, momenti di crisi in cui non esistono ricette pronte e si prendono misure emergenziali che potranno modificare per sempre le nostre vite.
Il rigore con cui sono state chiuse le librerie stride col modo in cui si è concesso a Confindustria di tenere aperti comparti realmente inutili come per esempio la produzione delle armi – produzioni dannose in tempi normali, figuriamoci in tempi di epidemia. Stona anche con l’appello sull’importanza di stare a casa a leggere un libro. Come sarà mai possibile leggerlo, questo libro, se non lo si trova da nessuna parte? Certo, è ancora consentita la vendita on line con consegna a domicilio. E qui è doverosa una parentesi.

2. I libri come le pizze
Bisogna dare merito agli sforzi titanici dei librai indipendenti che si stanno organizzando per la consegna a domicilio. Sin da subito alcuni si sono ingegnati per trovare strategie di resistenza senza rinunciare alle precauzioni per evitare il contagio: spedire i libri, consegnarli personalmente nella buca delle lettere, scambiarli lasciandoli su panchine o in negozi ancora aperti come le tabaccherie, mettendo i propri cataloghi a disposizione on line o via telefono in modo che i lettori possano scegliere, facendosi pagare virtualmente con bonifici o accrediti in modo da evitare contatti e rispettare le distanze. Ora si stanno organizzando vere e proprie reti di librerie che effettuano il servizio in tutta Italia.
Non è un caso se è dalle indipendenti che nascono queste idee: quando le librerie riapriranno le grandi catene avranno molto più potere commerciale per provare a rilanciare le vendite rispetto alle piccole, che già erano in difficoltà e hanno subito per settimane il monopolio di Amazon e degli store on line.
3. Vendite virtuali, sfruttamenti reali
A parte queste consegne a domicilio, la chiusura delle librerie ha regalato ad Amazon e pochi altri store il controllo praticamente assoluto sui libri. Per più di dieci giorni l’azienda di Bezos ha fatto il bello e il cattivo tempo: a differenza del governo ha inizialmente considerato i libri come beni di prima necessità, di sicuro non per amore della cultura ma per profitto, e ha continuato a venderli quasi in monopolio, al massimo abbassandone la priorità di spedizione. Fino al 22 marzo, data in cui ha spontaneamente deciso di spedire solo una più ristretta gamma di beni, con un’operazione che dietro il velo della responsabilità ha probabilmente una ragione ben più materiale: vendendo praticamente qualsiasi cosa e con la logistica intasata dalla mole di acquisti, non potendo evadere ogni ordine ha semplicemente ottimizzato le attività, che in pratica è come dire che stava guadagnando così tanto da non sapere più dove mettere i soldi.
Anche senza Amazon gli store on line restano la principale fonte di acquisto di libri, un bel regalo per i soliti pochi che egemonizzano la filiera. Le principali piattaforme infatti appartengono ai grandi gruppi editoriali: Ibs, Libraccio e La Feltrinelli sono controllate dal gruppo Feltrinelli e da Messaggerie Italiane; Mondadori Store e Libreria Rizzoli appartengono al colosso Mondazzoli; Giunti al punto si appoggia ad Amazon. Fuori di queste ne rimangono pochissime.

Anche per quel che riguarda gli ebook il discorso è simile: Amazon controlla la stragrande maggioranza delle vendite, e – a parte quelle di Kobo e Apple, comunque colossi internazionali – le restanti sono divise principalmente tra gli store già menzionati.
Un altro canale di vendita è la grande distribuzione organizzata (Gdo): i supermercati e ipermercati che hanno reparti dedicati ai libri. Non è chiaro se le corsie non riservate ai beni di prima necessità debbano essere chiuse sempre o soltanto nei fine settimana, ma resta la contraddizione del privilegio accordato alla Gdo, un settore dell’economia già predatorio. Inoltre non tutti gli editori posso servirsi di questo canale, perché prevede distributori specifici, diversi da quelli delle librerie, per i quali non tutti sono attrezzati e che comunque privilegiano i grandi editori e i best seller.
Si potrebbe obiettare: almeno così posso comprare un libro anche in tempi di distanziamento sociale. È che si fatica a capire come, per la prevenzione del contagio, la chiusura delle librerie sia una misura più efficace del lasciare campo libero ad Amazon e pochi altri, coi loro enormi magazzini affollati e i corrieri lanciati a tutta velocità in giro per l’Italia dalla logica del profitto fatto sulla loro pelle.
Si dirà che anche per fare arrivare i libri in libreria c’è bisogno della logistica, ma – per fare un esempio in scala – tra un solo furgone per città che porta mille libri destinati a dieci librerie, e cinquanta furgoni per città che portano venti libri ciascuno destinati ad altrettante abitazioni, c’è una bella differenza in termini di mobilità e numero di contatti ravvicinati. Inoltre le consegne in libreria permetterebbero di rallentare i ritmi della distribuzione, per garantire misure di sicurezza ai corrieri, rispetto al modello Amazon che fa della consegna in ventiquattro ore un caposaldo.

Non bisogna dimenticare, soprattutto, che gli scaffali delle librerie sono già pieni di titoli preziosi usciti da tempo e spesso offuscati dalla vertiginosa furia delle nuove uscite, e la necessità di rifornirle pur rallentando i ritmi potrebbe essere un buon pretesto per riscoprire libri pubblicati ma presto dimenticati.

4. Pochi grandi o tanti piccoli?
Di sicuro il settore della logistica andrebbe completamente ripensato, non solo nell’attuale emergenza, per alleggerire i ritmi di lavoro e rispettare la salute degli addetti. Ciò potrebbe essere ipotizzabile in una rete commerciale basata su piccoli punti vendita diffusi sul territorio, ma i modelli di Amazon e della Gdo lo escludono a priori.
Sono poi modelli davvero meno rischiosi, per la diffusione del contagio, rispetto a permettere di fare poche decine di metri a piedi, rispettando ogni precauzione sanitaria e al tempo stesso prendendo una boccata d’aria sgranchendo le gambe, per recarsi nella libreria di quartiere e, in fila uno per volta, comprare un libro per poi tornarsene a casa, così come si fa con la spesa? Perché per esempio non chiudere solo le grandi librerie di catena, che come la Gdo sono una più facile fonte di assembramenti (e anche loro di proprietà dei soliti grandi gruppi), e lasciare che a vendere i libri siano le piccole indipendenti sparse sul territorio? Invece si è scelto di chiudere tutte le librerie, mentre si permetteva che industrie, call center e praticamente tutta la grande imprenditoria italiana, anche quella non indispensabile, continuasse le attività arricchendosi sulla pelle di lavoratrici e lavoratori.
Il monopolio on line dei pochi colossi sta comunque garantendo un po’ di vendite agli editori, ma contribuirà ulteriormente a far morire le librerie. Questo, oltre a essere grave di per sé, a lungo termine danneggerà anche le case editrici piccole e indipendenti che in quei librai spesso hanno tra i loro migliori e più entusiasti sostenitori, rispetto alle librerie di catena ridotte ormai quasi solo a supermercati.
Ovviamente non bisogna colpevolizzare chi, preso dalla necessità di leggere, sta acquistando on line. Prima di tutto è una forma di sostegno; in secondo luogo, di sicuro la gestione di quest’emergenza non è colpa di lettrici e lettori, bensì di chi, decreto dopo decreto, ha applicato criteri contradditori e incoerenti, mettendo in serie difficoltà gli attori più deboli e avvantaggiato i più grandi.

5. Viaggi nel futuro, smaterializzazione dei corpi
Siamo in un paradosso da viaggio nel tempo: restiamo immobili ma corriamo fortissimo, come la DeLorean, lanciati a tutta velocità verso il futuro. Perché, come anche in altri ambiti, il cortocircuito in cui ci troviamo sta accelerando processi già in atto.
Da tempo quote sempre più ampie di vendite avvengono on line a danno delle librerie, con percentuali di guadagno progressivamente inferiori per gli editori a causa dello sproporzionato potere contrattuale degli store, e il peso dello sfruttamento lavorativo scaricato sulla logistica. Il timore è che questo paradigma di consumo, dopo settimane e settimane in cui è stato praticamente l’unico modo per procurarsi un libro, venga ulteriormente interiorizzato e resti nelle abitudini anche una volta riaperti i negozi.
Non solo questo comporterebbe un danno economico per editori e librerie, ma contribuirebbe a disgregare un tessuto sociale e culturale fatto di relazioni dal vivo, incontri tra lettori e librai, partecipazioni a eventi organizzati dagli editori, scambi diretti di vedute con gli autori durante gli incontri. Insomma, lo smarrimento del rapporto anche umano e fisico alla base del mestiere editoriale.

Sono già state cancellate centinaia di presentazioni di libri, dibattiti e reading in tutta Italia, oltre a festival e fiere di ogni ordine e dimensione. Al di fuori delle kermesses mainstream, spesso e volentieri gestite con la logica dei grandi eventi e alle quali, volenti o nolenti, si è costretti per ragioni di sopravvivenza a partecipare, gli editori piccoli e indipendenti – e ancor più quelli militanti – organizzano le proprie iniziative dal basso, con modelli alternativi di socialità, diffusione della cultura e sostenibilità. È un modo per diffondere sapere critico e, soprattutto, scendere in strada, animare i territori, far incontrare lettori, autrici ed editori, in maniera orizzontale, aperti al confronto. In questo momento è giusto evitare gli assembramenti, ma il protrarsi indefinito di questa fase rischia di abituare a una fruizione solitaria della cultura, individualizzante, nel chiuso della propria abitazione e mediata da interfacce social e filtri tecnologici, come nel caso dei video e delle presentazioni on line.
È un danno non da poco anche per chi i libri li scrive e prova a farne un mezzo di sostentamento. In tanti organizzano vere e proprie tournée di presentazioni, approccio molto diffuso tra chi vuole non solo vivere del proprio mestiere di scrittore ma anche far circolare le idee mettendosi in gioco, incontrando persone, battendo palmo a palmo il paese – con decine di eventi anche microscopici – senza dimenticarne gli angoli più remoti e trascurati dai circuiti mainstream.

I ragionamenti commerciali spingerebbero a limitarsi a due o tre grandi presentazioni-evento localizzate nelle grandi città, in contesti formali e quindi meno predisposti a un vero dialogo, e per il resto provare a inseguire gli asettici salotti televisivi e le pagine dei giornali. Noi preferiamo una diffusione della cultura più capillare, anche se più faticosa. Un approccio militante, sia da parte degli editori piccoli e indipendenti sia da parte degli autori e delle autrici non mainstream, spesso costruito insieme a librerie, circoli culturali, gruppi di lettura, centri sociali.
Dopo mesi di fermo, si faticherà molto a rimettere in piedi tutto questo, e alla lunga, se si affermasse il modello della virtualità dello scambio rispetto all’incontro, sarebbe un danno anche più grave di quello economico.

6. Retoriche vip
Che nella gestione – tanto mediatica quanto fattuale – del pericolo del contagio si siano concretizzate discriminazioni di classe è evidente non solo dai vantaggi materiali di cui hanno goduto alcuni soggetti. Si nota anche in alcuni frame narrativi circolati sin dai primi giorni, come gli appelli a stare a casa incentrati non su necessità sanitarie ma su quanto sia bello restare nella propria abitazione, propagandati dai divi televisivi direttamente dalle loro ville con giardini o piscine, denotando un totale scollamento dalla realtà fatta di persone che vivono in case piccole o singole stanze, senza spazi aperti, in condomini senza affacci panoramici, e ignorando che per molte donne la casa non è affatto un luogo sicuro, per non parlare di chi una casa proprio non ce l’ha.
Un simile scollamento dalla realtà si è percepito anche nella paradossale retorica mediatica del «restare a casa, sì, ma a leggere un libro», proprio mentre si chiudevano le librerie.
Si potrebbe obiettare che basta leggere i libri già presenti in casa. Bisognerebbe allora ricordare che in Italia più di metà della popolazione non legge nemmeno un libro all’anno. Va sottolineato non per snobismo, ma per specificare che nella stragrande maggioranza delle case italiane i libri non ci sono, e dunque se anche qualcuno che di solito non legge avesse voluto approfittare del distanziamento sociale per farlo, non avrebbe avuto la possibilità di comprare un libro se non sul web. Ma nei motori di ricerca degli store on line di solito si cerca quel che già si sa di volere. Probabilmente chi non ha dimestichezza con la lettura ma volesse approfittare di questo periodo troverebbe molte difficoltà a orientarsi nello sterminato catalogo di Amazon senza un libraio a dare un consiglio. Da potenziale lettore in più si potrebbe trasformare in ancora più convinto non lettore.
Dall’altro lato, per i lettori forti capaci di divorare più libri a settimana  – soprattutto dovendo passare gran parte della giornata a casa – vedersi chiudere le librerie è quasi come vedersi razionato il pane. Può sembrare “colore”, ma è per sottolineare la cialtronaggine con cui durante questa faccenda è stato gestito, finanche nei toni usati dai media, il mondo del libro. Ormai invitare chi è a casa a leggere è quasi come dirgli di farsi una bella nuotata. Se i libri non sono considerati beni di prima necessità non si possono poi fare appelli alla lettura, è una contraddizione culturale in termini, una beffa che si somma al danno.
Altri appelli vip sono arrivati affinché gli editori – come anche altri operatori culturali, in realtà – fornissero gratuitamente alcuni dei loro prodotti (ebook, audiolibri) in modo da dare alle persone qualcosa da fare. È sacrosanto voler aiutare a passare il tempo chi è costretto in quattro mura, resta il problema di quali siano i soggetti sui quali si debba scaricare il costo di questo aiuto. Gli editori sono in grave difficoltà: anche volendo, difficilmente possono permettersi a cuor leggero regali, e chi fa questi appelli dimostra di non conoscere il mondo della carta stampata. Va bene essere solidali con chi è a casa regalandogli un libro, ma perché non chiederlo a chi per settimane si è arricchito godendo di un monopolio di fatto? Se fosse Amazon a farlo consegnandolo gratuitamente a casa, ma pagandolo regolarmente agli editori?

7. Lavoratori e lavoratrici della filiera
I danni di questa situazione stanno colpendo tutta la filiera del libro, non solo editori, tipografe, librai e autrici. Le figure a rischio sono tantissime: traduttori, redattrici (spesso esternalizzate/i), editor free lance, grafici editoriali, addette stampa, senza dimenticare i dipendenti in generale delle case editrici grosse e medie, dei distributori, dei grossisti e delle librerie di catena. I piccoli editori e i librai indipendenti sono spesso sia i titolari sia i dipendenti della propria attività, ma chi invece lavora per realtà più grandi subisce tutte le storture del mercato del lavoro precarizzato da anni di controriforme: esternalizzazione del lavoro redazionale e grafico, ricorso a service e agenzie, concorrenza al ribasso tra lavoratori esterni come i traduttori, utilizzo di tirocini e stage gratuiti per sopperire gratuitamente al lavoro redazionale, ecc. C’è il rischio che i grandi gruppi editoriali scarichino su queste figure il costo della crisi. Lo stesso si può dire di lavoratrici e lavoratori della distribuzione e della promozione.
Questi contraccolpi saranno comuni al mondo del lavoro di diversi comparti, ma è importante ricordarlo anche riguardo l’editoria perché è uno dei settori in cui più si fa ricorso – soprattutto le grandi realtà – a esternalizzazioni, finte partite iva, free lance, e con retribuzioni tra le più basse. Se dedico a questo aspetto solo poche righe è perché mi piacerebbe che queste professionalità prendessero parola in prima persona per aprire un dibattito su come l’attuale situazione stia portando all’estremo criticità radicate da tempo, e su come, una volta ripartiti, cercare di superarle insieme anziché affondare sempre di più.

8. E in tutto questo le nuove uscite?
Al momento siamo in un limbo. Le uscite sono ferme perché i lanci in libreria sono saltati. I distributori non accettano rifornimenti – né di novità né di titoli di catalogo – perché i libri nei loro magazzini sono quasi immobili. Gli unici rifornimenti sono per gli store on line e le librerie che con sforzi eroici si barcamenano nelle poche consegne.
Non si sa quando i negozi torneranno accessibili al pubblico, quindi ci si potrebbe trovare costretti a far uscire i libri comunque, anche se solo in ebook. È una scelta che penalizzerebbe alcuni titoli, su cui magari si stava puntando da tempo, e anche i relativi autori, che su quell’uscita contavano.
Intanto il lavoro di editing e redazionale sulle novità previste deve andare avanti, per evitare il rischio di “colli di bottiglia” non appena le librerie riapriranno. Forse le case editrici piccole che pubblicano un numero limitato di titoli all’anno riusciranno, con molta fatica, a evitare di tagliare la produzione e sacrificare qualcuno dei libri previsti, ciascuno preziosissimo e scelto con cura. Anche perché diminuire il numero di uscite, per chi pubblica poco, significherebbe rinunciare a una percentuale consistente del proprio fatturato.
Alcuni grandi editori, in attesa di poterle stampare, stanno già lanciando in ebook alcune novità, ma data la mole delle loro pubblicazioni saranno costretti a tagliarne molte (probabilmente seguendo criteri commerciali e non qualitativi), con un danno per la bibliodiversità, oltre a quello che ne consegue per autori, traduttrici e collaboratori esterni che sui libri cassati stavano lavorando.
Nonostante questi tagli, il rischio che dopo la riapertura delle librerie il mercato si intasi è reale. Già in condizioni normali in Italia si pubblica una quantità enorme di libri: nel 2018 sono stati 75.758 (più di duecento al giorno), un numero del tutto spropositato che lascia seri dubbi su quanti in realtà meritassero davvero. Questa invasione è determinata dai grandi editori, che sono di meno (circa un settimo del totale) ma pubblicano ben quattro titoli su cinque. Il report Istat sui libri usciti nel 2018 afferma che tra gli editori «il 51,1% ha pubblicato un numero massimo di 10 titoli all’anno (“piccoli editori”), il 33,8% fra le 11 e le 50 opere (“medi editori”) e soltanto il 15,2% ha pubblicato più di 50 opere annue (“grandi editori”). I grandi editori coprono quasi l’80% della produzione in termini di titoli (79,4%) e il 90% della tiratura».
Una tale sovrapproduzione, unita alla diversità di peso in termini di potenza commerciale, visibilità sui media, potere contrattuale con distributori e catene di librerie, determina regolarmente un oscuramento dei libri dei piccoli, letteralmente sommersi da quelli dei grandi.
Quando le librerie riapriranno, i grandi editori pubblicheranno numerosi titoli tutti insieme in poche settimane, accentuando questo fenomeno e causando un’ulteriore accelerazione di uno dei meccanismi perversi della filiera: la frenetica rotazione dei titoli sugli scaffali. Nelle librerie di catena se una novità non vende abbastanza nelle prime tre settimane viene subito resa e rimpiazzata da un’altra. Il tutto a vantaggio dei nomi di grido, degli autori mediatici e dei best seller commerciali, e a detrimento della produzione di ricerca e di qualità, con un ulteriore danno alla bibliodiversità già mortificata.
Non solo: i distributori, intasati, potrebbero scaricarci addosso una mole insostenibile di rese (facendo esplodere la bolla finanziaria tra fornito e reso), tra cui forse anche libri mai realmente arrivati in libreria perché pubblicati a ridosso della chiusura del 12 marzo.
Il mercato del libro ha bisogno di decrescere, ma dovrebbe essere una scelta, con una maggiore selezione qualitativa a monte, un cambio di paradigma produttivo a carico di chi lo ha sempre ingolfato, e non la conseguenza di un intreccio tra mancati acquisti, librerie chiuse, e la gestione dissennata di queste settimane. Intreccio che anzi non farà che accelerare le storture già esistenti.

9. Come uscirne
Dopo questa crisi sarà necessario un forte sostegno a tutti i settori della cultura, che però non dovrà limitarsi agli appelli ad andare al cinema, in un museo, a teatro, a un concerto, o a comprare un libro, scaricando tutto sui fruitori (troppo spesso identificati come consumatori). Di sostegno ne avrà bisogno sia chi la cultura la fa, sia chi – colpito gravemente nel proprio tenore di vita – ne fruisce, e se ne dovrebbe fare carico la collettività con meccanismi di redistribuzione della ricchezza, lotta alle situazioni di oligopolio, meccanismi di sostegno al reddito, sia in generale che nello specifico ai lavoratori e alle lavoratrici della cultura, specie quelle/i che non ne beneficerebbero in quanto autonomi, collaboratori occasionali, partite iva, stagionali, o perché vivono di diritti d’autore, cachet o forme di reddito non da lavoro dipendente (attrici, musicisti, scrittrici), ma anche tecnici, maestranze, grafici, scenografi, turnisti, promotori, e in generale tutti gli operatori delle varie filiere.
I lavoratori delle istituzioni culturali – sia pubbliche sia private – come musei e siti archeologici (ma anche delle biblioteche), spesso esternalizzati o assunti in appalto a terzi, dovrebbero essere internalizzati. La circolazione della cultura dovrebbe essere incentivata con spazi pubblici concessi gratuitamente a editori, musicisti, teatranti, per organizzare presentazioni, eventi, rappresentazioni, proiezioni, concerti, e altro ancora. E le realtà più piccole e in difficoltà – teatri, cinema, piccoli editori – meriterebbero sostegni a fondo perduto. Il tutto dovrebbe essere finanziato andando a colpire con tassazioni e prelievi di ricchezza chi, nei vari settori, ha beneficiato della situazione (Amazon o Netflix, per fare due esempi), ma anche le grandi imprese non della cultura che hanno continuato a fare profitti, come l’industria delle armi.
Più in generale si dovrebbe iniziare un percorso di rivendicazioni dal basso animato dai protagonisti del lavoro culturale, ognuno con le proprie riflessioni, che inizi a elaborare proposte per smantellare le storture che, in un modo o nell’altro, colpiscono ogni settore avvantaggiando pochi grandi e stroncando tanti piccoli. La gestione dell’emergenza coronavirus non ha fatto che accelerare derive in atto da tempo ed è quindi il momento di ripensare a fondo il modo in cui si fa e diffonde la cultura in Italia.
Nel nostro specifico, la riflessione più generale sul mercato editoriale dovrà per forza essere affrontata con uno sguardo complessivo sulla filiera, mettendo insieme editori e librerie indipendenti, autori e lavoratori, senza dimenticare soprattutto che non siamo tutti sulla stessa barca. I grandi gruppi editoriali, la distribuzione e le librerie di catena subiranno meno il contraccolpo (e gli store on line per niente, anzi) e nonostante questo, per garantire i propri profitti, proveranno ad approfittare della situazione intensificando i meccanismi per loro vantaggiosi. Sul fronte del lavoro i grandi editori procederanno probabilmente a licenziamenti, tagli ai collaboratori, ed esternalizzazioni. Sul fronte del mercato inonderanno ancora di più le librerie con uscite spesso di dubbia qualità cercando di rosicchiare il più possibile ai piccoli qualsiasi quota anche minima di mercato. E non è escluso che ci saranno nuove concentrazioni aziendali che faranno nascere colossi ancora più mastodontici.
Quanto alla distribuzione, proverà a rifarsi imponendo contratti ancora più scorsoi, chiedendo percentuali sempre maggiori sui prezzi di copertina. Le librerie di catena punteranno ulteriormente solo sui pochi titoli di grande successo mediatico e commerciale, rischiando sempre meno nell’esposizione di quelli di qualità ma meno facilmente vendibili.
Editori e librerie indipendenti, autrici e autori, lavoratrici e lavoratori dell’editoria, devono provare a immaginare meccanismi di resistenza collettivi, orizzontali e dal basso, forme di collaborazione che inizino già a prefigurare nuovi modi di fare e diffondere cultura, e rivendicare correzioni strutturali alla filiera. Per liberare Sisifo dalle catene della sua fatica e trasformare l’editoria in un luogo di emancipazione e conflitto.

Pietro De Vivo è editor di narrativa e saggistica per le edizioni Alegre, amministratore del canale Telegram della casa editrice e vicedirettore della collana Quinto Tipo diretta da Wu Ming 1. Quando trova il tempo scrive di libri su Il lavoro culturale. È autore di uno dei post di Giap più visitati e commentati da quando esiste questo blog: «È colpa di quelli come te se c’è il contagio!». Abusi in divisa e strategia del capro espiatorio nei giorni del coronavirus.


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