sabato 25 aprile 2020

Pantani era un dio - Marco Pastonesi

me lo ricordo bene, Marco Pantani, quando accendevo la tv per vedere le sue salite.
dopo di lui ho smesso di guardare il ciclismo.
il libro ha la struttura di un coro greco, tante voci che raccontano un pezzo della sua vita, nella gloria e nel dolore, nelle parole di chi gli ha voluto bene.
un libro che vale la pena di leggere, per ricordare quel ciclista che ci ha fatto sognare.
buona lettura.





Sul traguardo chiudeva gli occhi e apriva le braccia come un airone, quasi a voler spiccare il volo dal sellino. Sulle cime, dell’Alpe d’Huez, del Mortirolo, del Galibier era più vicino al cielo, che voleva toccare con un dito. Amava fare l’elastico, che nel gergo ciclistico vuol dire che si allontanava e si avvicinava al gruppo, e quando su quelle montagne pedalava dritto, staccato dal sellino, per parecchi minuti sui tratti più impervi, passava avanti a tutti e li guardava in faccia uno per uno. Poi il 5 giugno del 1999 uno sfregio a freddo, il controllo antidoping qualche ora prima della partenza della tappa Madonna di Campiglio-Aprica e il 14 febbraio di dieci anni fa l’airone ha chiuso le ali, Marco Pantani è morto in una stanza dell’Hotel Le Rose a Rimini.
Marco Pantani, era fatto un po’a modo suo con quella pelata e la bandana, un po’anarcoide, diceva che attaccava solo quando sentiva la voce dentro che gli dava il la, non amava studiare il percorso metro per metro prima della tappa, come facevano gli altri campioni. In virtù di quelle cime dei Pirenei, conquistate a forza di poderose pedalate e di quell’ingresso trionfale ai Campi Elisi a Parigi, al Tour del 1998 dopo aver vinto il Giro d’Italia come Coppi, Pantani aveva osato troppo, si sentiva un dio e rischiava di far saltare il circo delle due ruote, andava fermato. Il sistema sportivo che lo aveva lanciato ed esaltato, non era più disposto a tollerare, poteva andare fuori controllo Marco Pantani, che non era un indisciplinato…

In quasi dieci anni di professionismo Marco Pantani ha vinto poco più di una trentina di corse, un bottino modesto se paragonato a quelli di Coppi o Merckx, Moser o Cipollini. Eppure il Pirata ha conquistato la storia e il popolo del ciclismo come da tempo nessuno riusciva a fare. Perché era uno scalatore che veniva dal mare. Perché è decollato sul Mortirolo e sul Galibier ma è precipitato nella cocaina e nella depressione. Perché inseguiva l'amore ma finiva a puttane. Perché era un uomo solo. Nel decennale della scomparsa, Marco Pastonesi ricostruisce la carriera di Pantani raccogliendo le testimonianze inedite di chi lo ha frequentato da vicino: i suoi gregari, i dirigenti sportivi, gli amici delle piadinerie. Una polifonia di voci inattese che restituiscono la Romagna da cui non si è mai separato, le montagne che lo hanno consacrato a mito, gli scalatori del passato di cui è stato erede, e le debolezze dell'uomo: il doping, qui raccontato da una prospettiva che scardina i luoghi comuni sul fenomeno, e la droga. "Se Pantani era un solista, e un solitario," scrive l'autore nell'introduzione "questo libro è il coro delle tragedie greche, è la banda che accompagna un feretro nei funerali di New Orleans, è cento cantastorie che raccontano le gesta di un guerriero, di un bandito, di un pirata, ed è anche una cartina geografica. Qui non c'è giudizio, non c'è sentenza, non c'è verdetto, non c'è ordine di arrivo né classifica generale. Ognuno ha la sua versione".

Pantani non era un Dio. Pantani era un ragazzo con un talento incredibile per la bicicletta e una sfiga altrettanto incredibile, con una grandissima forza di volontà che gli ha permesso di rialzarsi più volte dopo i vari incidenti, ma anche con un carattere fragilissimo; a dispetto del titolo (perchè abbiano scelto questo passaggio dal ricordo di John Gadret è incomprensibile), il pregio di questo libro è proprio quello di mostrare la sua fragilità umana tanto quanto il suo talento in modo piuttosto originale ed efficace.
Il libro è infatti diviso in una ventina di capitoli, ciascuno dei quali è a sua volta diviso in due: nella prima parte l’autore racconta, con tono epico ma non retorico, le grandi imprese di Pantani.
Nella seconda parte l’autore lascia invece la parola ai “testimoni”, persone che gli sono state accanto nel corso della sua vita ed hanno voluto lasciare un breve ricordo (una paginetta al massimo) del Pirata e del loro rapporto con lui (qualche nome? Alfredo Martini, Beppe Martinelli, Davide Boifava, Andrea Noè, Davide Cassani, Marco Velo, Paolo Savoldelli, Massimo Podenzana, Riccardo Magrini e lo sciagurato – per quella frase fuori posto nel titolo – John Gadret) raccontando piccoli episodi magari insignificanti della sua vita, che messi insieme danno un quadro della sua umana fragilità , della sua sofferenza (anche prima di Madonna di Campiglio) e delle difficoltà di chi ha provato a stargli vicino; tanti punti di vista diversi, tante esperienze diverse, tante tessere di un mosaico che compongono un quadro piuttosto eterogeneo della vita pubblica e privata di Pantani, dell’orgoglio e della difficoltà di chi gli era vicino; il racconto è molto piacevole ed il quadro che ne esce è qualcosa di completamente diverso da quanto eravamo abituati a leggere o sentire su Pantani.
Gradite assenti solo le tesi e le congetture sulla sua morte, che – qualunque sia la verità – non cambiano la storia dell’uomo, il cui destino era forse comunque tragicamente segnato.

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