giovedì 30 aprile 2020

ricordo di Ezio Vendrame













qui un bel ritratto



…L’incontro con Piero Ciampi cambierà Vendrame a tal punto da iniziarlo alla poesia: uno scrittore nato sui campi di gioco, quasi un “unicum” nel panorama dei calciatori di tutto il mondo, tra i quali il massimo della produzione letteraria si ferma nella stragrande maggioranza dei casi a biografie scritte per interposta persona. Dedito all’alcol Ciampi e alle donne Vendrame, due passioni che ne hanno consumato, probabilmente, i rispettivi talenti. Ma la loro amicizia, fino alla morte del cantautore livornese, ha sempre resistito alle bizze del loro genio e della loro conseguente sregolatezza. Vendrame aveva un tale rispetto di Ciampi che, quando l’amico una volta venne allo stadio Appiani di Padova per vedere una sua partita, lui fermò il pallone con le mani ed decise di interrompere d’imperio la partita per rendergli il giusto tributo. Perché, come spiegò in un’intervista: “Il gioco del calcio diventa una cosa volgarissima di fronte ad un poeta come Piero.”
A Vendrame le convenzioni legate al mondo del calcio bigotto, conservatore, ipocrita non sono mai andate giù. E la poesia diventava una via di fuga dalla realtà: non è un caso che una volta lui, originario di Casarsa della Delizia in Friuli, scelse come location per farsi intervistare la tomba di Pier Paolo Pasolini, seppellito in quella che era la terra natia della madre, definendolo “il mio compaesano più vivo“. L’amicizia con Ciampi fu l’approdo finale per questa esigenza di andare oltre la realtà precotta del mondo del calcio, anche se a volte esigeva un prezzo molto alto, col poeta/cantautore ormai alla deriva. “Certe sere”, raccontava Vendrame su Ciampi, “si doveva andarlo cercare, perché magari era qualche giorno che non tornava. Lo cercavamo nei luoghi più assurdi, tra le vie sperdute, o in chissà quali posti: poi te lo trovavi seduto su di un marciapiede che beveva dell’alcol denaturato, circondato dai topi”. Ma era in quei frangenti che l’artista livornese dava il meglio di sé e sapeva insegnare tutto sulla vita, l’amore e la morte, come spiegò il fantasista del Vicenza: “La definizione che mi diede Piero Ciampi sull’amore è capire la sofferenza di chi ti sta vicino. Talmente grande che ho quasi paura a dire di amare qualcuno. Di solito siamo egoisti quando amiamo”.
Ancora parole di Vendrame: “A Piero devo tutto. Quello che so l’ho imparato da lui. La sua morte mi sconvolse“. Si conobbero a Roma, nel ristorante di Marcello Micci, e litigarono furiosamente la notte prima della sua scomparsa. Ciampi morì nel gennaio del 1980, assistito da un altro cantautore che era però anche medico, Mimmo Locasciulli. Lo uccise un cancro alla gola, “dopo essersi preparato per tutta la vita a una morte per cirrosi epatica”, dissero. E appena prima di morire, come raccontato da Vendrame in uno dei suoi libri, era andato a casa sua in cerca di rifugio. Ma cominciò a bere, a sbraitare, con i suoi deliri non fece chiudere occhio per tutta la notte al calciatore che sbottò, cacciandolo via, insultandolo, dicendo che non aveva rispetto per gli amici. Ciampi non poté far altro che rispondere con una frase lapidaria, innocente e spiazzante al tempo stesso: “Ma Ezio, io sono un poeta!“.

Ezio Vendrame: la tua poesia per ricordarti

Viveva in un monolocale di campagna, con la zona notte incollata a una parete: di giorno il letto è inghiottito da un muro… «Sono in affitto, della proprietà privata non mi importa niente».
E’ un poeta e detesta il Natale.
«Il 23 dicembre mi barrico in casa e scrivo i miei versi. Riemergo all’Epifania, il peso delle Feste mi è insopportabile».
Ezio Vendrame, il George Best all’italiana, ha scritto un libro-choc sul calcio: «Se mi mandi in tribuna, godo», edizioni Biblioteca dell’Immagine. Prefazione di Giancarlo Dotto. Una raffica di raccontini verità: doping, partite truccate, sesso. E linguaggio vietato ai minori. «Ma sono le parole del calcio: i giocatori non sono leccati e compiti come li vedete in tv. Non facciamo gli ipocriti». Nel libro c’è di tutto. C’è il Vendrame ragazzino, che approdato alla Spal di Ferrara diserta gli allenamenti perché si innamora di una baby-prostituta genovese.
«Quante donne ho portato a letto? Centinaia, ma le ho amate una per una. Non ho mai fatto l’amore senza sentimento». C’è il Vendrame più adulto, che al momento di trasferirsi al Napoli si fa buggerare come un pivello. «Al Vicenza prendevo 10 milioni di lire e quando andai a trattare l’ingaggio con Janich, d.s. del Napoli, pensai: “Ora lo frego, gli chiedo il doppio”. Quanto vuoi?, mi domandò. Venti milioni, risposi. Firma qua, replicò senza esitazione. Uscii convinto di aver raggirato i napoletani. In spogliatoio scoprii che Ferrandini, un ragazzo proveniente dall’Atalanta, l’ultimo della compagnia, prendeva 60 milioni. Mi sentii lo scemo del villaggio».
Vendrame svolta a metà anni Settanta, quando conosce Piero Ciampi, poeta-cantautore livornese.
«A Piero devo tutto. Quello che so l’ho imparato da lui. La sua morte mi sconvolse».
Vendrame completa l’opera di auto-annientamento: decide di buttare via il talento che ha nei piedi e sceglie di coltivare l’anima. Diventa poeta, pubblica raccolte di versi. Si stabilisce a San Giovanni, frazione di Casarsa della Delizia, il suo paese. A Casarsa è sepolto Pier Paolo Pasolini. «Ma io a Casarsa non metto piede da anni. Ricambio così l’odio della mia gente. Pasolini fuggì e ritornò in orizzontale, nel senso della bara. Seguirò lo stesso percorso».
Per vivere, per comprarsi le sigarette e per mantenere la scassatissima Golf fine anni Ottanta, Vendrame allena i Giovanissimi della Sanvitese, club del vicino Comune di San Vito al Tagliamento. E’ un bravo istruttore, vince i campionati, sa insegnare calcio.
«Ma certi genitori mi detestano, sogno di allenare una squadra di orfani». La ricca e benpensante provincia del Nordest non sopporta che i propri figli amino un beat, un reperto archeologico del Sessantotto. Perché i ragazzi, sia chiaro, adorano Vendrame. «Cerco di metterli sulla retta via. Prima la vita, poi il calcio». Ci sono problemi, il Best del Tagliamento, a ogni nuova covata, si esibisce nel seguente discorso di iniziazione: «Cari ragazzi, buttate nel cesso le vostre playstation e rinchiudetevi nei bagni con un giornaletto giusto in bella vista. Quando uscite, innamoratevi di una bella figliola: il sesso fai da te è bello, ma quello con una coetanea è meglio».
Comprensibile che la comunità rumoreggi, che parroci e curati non gradiscano. Un papà facoltoso ha offerto un assegno in bianco al presidente della Sanvitese: metti tu la cifra, basta che licenzi quel matto. Proposta respinta, Vendrame per sempre: «Ai giovani bisogna raccontare la verità, le cose come stanno».
Rimane una curiosità da soddisfare: il calcio di oggi? Domanda stupida, risposta stimolante:
«Non esiste, è finto, è acrilico. Al mondo ci sono stati tre giocatori di calcio: Maradona, Zigoni e Meroni. In questo rigoroso ordine, non alfabetico. Il resto è noia».
Ci mancherai Ezio...

Non chiamatemi George Best - Francesco Mistrulli
Con il pallone facevo quello che volevo.
Con la testa pure.
Io sono sempre stato così. Prendere o lasciare.
I giudizi morali li lascio ai pressappochisti. E non mi permetto di dare giudizi! Semplicemente perché ognuno è così com'è. La bellezza degli esseri umani è appunto nell'unicità di ciascuno.
Anche la classica definizione che imperversa da più parti, quel "è tutto genio e sregolatezza", mi fa cagare! Ma perché tutti vogliono incasellarmi in qualche modo? Io voglio essere soltanto me stesso. Io sono stato, sono e sempre sarò Ezio Vendrame.
Punto e basta.
Sono nato a Casarsa della Delizia, in Veneto, nel millenovecentoquarantasette.
Si, la reminiscenza che molti di voi ha avuto è giusta, Casarsa è lo stesso paese che ha dato i natali a Pier Paolo Pasolini. Uno dei più grandi intellettuali italiani. Pasolini diceva che dopo la letteratura e l'eros, il calcio era l'unica cosa in grado di dare emozioni autentiche.
Il calcio come lo intendeva lui, però, e come lo intendevo io.
Ma lasciamo riposare i morti, e torniamo a parlare di me.
La mia vita ha inizio con un grande trauma, che non è banalmente quello di abbandonare l'utero materno, da questo punto di vista siamo tutti traumatizzati, no, io all'età di sei anni sono stato affidato dai miei genitori ad un orfanotrofio. Io sono stato abbandonato, ed è per questo che mi sento un orfano, ma con i genitori.
Cosa ricordo di quel periodo dite?
E cosa volete che ricordi! La fame, la paura, la pipì che facevo nel letto, le angherie dei più grandi ricordo, ma soprattutto, e più di tutto, quell'abisso, quel vuoto immenso dell'assenza.
Però mi piaceva giocare al calcio, mi faceva sentire libero, e proprio mentre stavo giocando una partitella assieme agli amici, durante le vacanze estive trascorse alla colonia dell'orfanotrofio, il medico sociale dell'Udinese mi nota ed ecco, il calcio da passione diventa professione, ma per me, in fin dei conti, è sempre rimasto poesia. D'altronde sono nato nello stesso paese di Pasolini, e con la poesia devo avere un conto aperto evidentemente.
Ezio Vendrame al Lanerossi VicenzaLa mia è stata una carriera turbolenta, ho cambiato diverse maglie in anni in cui i trasferimenti da una squadra all'altra non erano così frequenti: SPAL, Torres, Siena, Rovereto, Lanerossi Vicenza, Napoli, Padova…
"El Paròn" Nereo Rocco mi dava del pazzo, e la cosa, non lo nego, mi faceva enormemente piacere. Semplicemente io amavo giocare a pallone, ma non mi piaceva fare il calciatore. Mi sentivo stretto, risucchiato, prigioniero, anche perché i vincoli, non solo societari ma anche morali erano ancora molto forti, in quegli anni Settanta. Avevi voglia a dire che c'era stato il Sessantotto, che la contestazione giovanile aveva cambiato il mondo… L'Italia era ancora un paese retrogrado e bigotto, ed il mondo del calcio non era differente, anzi, era una cartina al tornasole di quella società.
Ad ogni modo fare il calciatore aveva i suoi vantaggi, questo è indubbio, ieri come oggi, ti poneva al centro dell'attenzione, e così avere delle donne era facilissimo, e io non mi tiravo certo indietro, poi io ho sempre avuto una passione per le femmine, avrei sputato sangue e donato un rene per la figa. Però, come vi dicevo, quelli erano tempi di vacche grasse e quindi quei sacrifici non servivano. Ero diventato letteralmente un can da figa. Per me era impossibile resistere al richiamo dell'odore di femmina. E quasi sempre scordavo che avrei dovuto fare soltanto il calciatore. I lunedì erano giornate di riposo per i calciatori. Non per me: i miei erano pieni fino all'orlo. La mia casa sembrava uno studio di ginecologia. La giornata di visite iniziava già alle nove del mattino con la signora Giuliana; alle undici sarebbe arrivata la signora Carla; alle quattordici la mia amica Lella; alle diciotto quella troia della Fernanda e infine, alle ventidue, toccava alla novità della settimana.
Ero spesso in giro con il mio grande amico Gianfranco Zigoni, coetaneo e conterraneo, quanto casino abbiamo fatto assieme non potete immaginare. Le cene da "Luigino", una trattoria magica di Vicenza, una sorta di rifugio, ci davamo dentro in quel locale, quasi ogni sera, a volte fino a notte fonda, bevendo, mangiando, ridendo, suonando, godendo ed esagerando. Eravamo l'eccesso a tutta forza! Se riuscivi a sopravvivere a Luigino e a una delle sue nottate, affrontare una partita di calcio diventava un'inezia!
Soltanto io conosco le mie partite infinite, quelle che cominciavano ogni sabato notte e terminavano alle prime luci dell'alba quando i miei compagni ancora dormivano ed io, con la sigaretta in bocca ero già in giro per la città alla ricerca di un caffè e di un cesso dove vomitare la bile. E soltanto i miei compagni e i miei allenatori sanno che non potevo pranzare prima di una gara perché se avessi ingerito anche un solo grissino, avrei rigurgitato l'anima! Come avrei potuto essere un calciatore vero in quelle condizioni? Ad ogni fischio d'inizio ero già distrutto, avevo già giocato, avevo già finito. Però, nonostante tutto, c'è chi si è sempre accontentato. Anche solo delle mie briciole!
Ed ecco appunto le mie briciole calcistiche, perché di me si ricordano degli episodi, e questo mi va bene, significa che quelle briciole hanno lasciato un sentiero.
Durante una partita contro il Milan a San Siro, ad esempio, mi si para davanti niente meno che Gianni Rivera, "l'Abatino" lo chiamava Gianni Brera, faccio una leggera finta e lui istintivamente apre le gambe e io istintivamente gli faccio un tunnel. Gli chiesi subito scusa!
Perché?
Come perché?
Perché Gianni era un artista del pallone, e umiliarlo così, mi dispiacque tantissimo. D'altra parte però un po' fu anche colpa sua, lui allargò le gambe, e chi allarga le gambe, nel calcio come nella vita, ti spinge sempre a fare qualche cosa!
Un'altra volta dopo aver dribblato tre difensori e messo a sedere il portiere con una finta, invece di fare goal me ne sono tornato tranquillo verso la metà campo. Quando mi hanno chiesto il perché di quel gesto ho detto di averlo fatto perché anche il portiere è un uomo e merita una seconda possibilità.
Altre volte salivo con tutti e due i piedi sul pallone e mettevo la mano di taglio davanti alla fronte per scrutare l'orizzonte, lo chiamavano "il gesto della vedetta", e non era voler polemizzare con i miei compagni che non si smarcavano. Semplicemente quei trenta centimetri di altezza in più mi permettevano, per davvero, di dare un'occhiata migliore al piazzamento dei miei. Pochi aggiungono che spesso, dopo avere fatto la "vedetta" in quel modo, magari ti pescavo un attaccante con un lancio di quaranta o cinquanta metri, e d'esterno per giunta.
Ve lo dicevo che ognuno può interpretare le cose come vuole, è solo che tutti o quasi tutti almeno, cercano di trovare del dolo, del marcio in quelli che sono gesti puri e senza malizia.
Come quell'altra volta, che contro l'Udinese, mi sono soffiato il naso alla bandierina del calcio d'angolo. Ma vi pare bello vedere quei giocatori che si puliscono il naso con le mani? Io ero lì per battere un corner, e mi sembrò più fine, se vuoi anche più educativo, usare la bandierina come fosse un fazzoletto. Tutti hanno gridato allo scandalo, alla provocazione, nessuno ricorda però che subito dopo, annunciai alla tribuna che avrei segnato direttamente dal corner. E così feci. Per una volta rubai la scena a "O Rei" Palanca, lui che dal calcio d'angolo segnava sempre!
Un'altra volta, giocavo nel Padova, e, seppur indirettamente un mio eccesso provocò una tragedia. Si giocava contro la Cremonese. In campo avevano deciso la "torta", o il "biscotto", se preferite. Erano gli anni Settanta, ci fu lo scandalo del "Calcioscommesse", ma a me questo tipo di cose non è mai andato giù. Non potevo prendermela con gli avversari e puntare verso la loro rete. Ma potevo prendermela con i miei compagni di squadra, così, dal centro del campo, feci dietro front e puntai verso la nostra area. Qualche compagno, ripresosi dallo spavento, mi si fece incontro ma io lo saltai secco in dribbling, fino a trovarmi a tu per tu con il nostro portiere. Solo a quel punto, e dopo aver fatto finta di tirare, blocco il pallone con la pianta del piede. Ricordo il sospiro come di sollievo di tutto lo stadio. Solo che a fine partita venni a sapere appunto del dramma: un tifoso si era spaventato a tal punto da morire di infarto.
Comunque, tante, veramente troppe volte sono stato avvicinato per truccare l'esito di una partita. Ma non mi sembrerebbe onesto, da parte mia, tornare ora su quegli episodi. Non ho denunciato nessuno allora, sarebbe ipocrita agire diversamente adesso.
Stavo bene, e ciò lo dovevo in parte al fatto di essere un calciatore, non tanto dal punto di vista economico quanto per le libertà che riuscivo a prendermi. In generale… Forse c'era più autenticità, c'era più spazio per le emozioni. Per uno come me erano cose importanti, io avevo bisogno di sentire, ovunque, il calore, la poesia…
Ve l'ho detto, e torno a ripeterlo, sono nato nello stesso paese di Pier Paolo Pasolini, e con la poesia devo avere un conto aperto io. Infatti nel millenovecentosettantacinque conosco Piero Campi, poeta Livornese, uno che in qualche modo la mia vita l'ha cambiata, anzi, che la mia vita l'ha proprio segnata. Un amicizia profonda, incondizionata. Piero raccontava spesso che un giorno, a Padova, si trovava a vedere una mia partita, e che, quando lo scorsi in tribuna, fermai il gioco e, fra lo stupore generale, andai a salutarlo.
Gli amici, che gran cosa!
Oggi scrivo, anche poesie certo, e insegno calcio ai ragazzini, e sapete una cosa, affanculo pressing, squadra corta, fuorigioco e diagonali. Ci sputo sopra agli inventori di queste cagate! Il calcio vero è un'altra cosa, ha un'anima che almeno a livello giovanile dovremmo salvaguardare! A loro dico che a quattordici o quindici anni è normale farsi le seghe e se trovano una ragazza che collabora è ancora meglio! Casomai è chi non se le fa che è malato e non è giusto che giochi. E la domenica, quando abbiamo dato tutto e siamo a posto con la coscienza, dobbiamo sempre accettare anche la sconfitta, senza alcun dramma, perché il gioco del calcio è soltanto un gioco: una piccola cosa della vita. Non dobbiamo stare male più di tanto quando perdiamo una partita, ma quando perdiamo un affetto, o quando deludiamo qualcuno che ci ama! Ma tutto questo loro lo capiscono subito. Sono gli adulti che non comprendono, a cominciare dai genitori. Per questo motivo sogno da sempre di allenare una squadra di orfani!
Non ho rimpianto alcuno. Zero. Ho fatto della mia vita un capolavoro e continuo a farlo perché ho sempre fatto il cazzo che ho voluto, e, speriamo che quel sentiero di briciole che mi sono lasciato alle spalle sia percorso da qualcuno… prima o poi.



Nessun commento:

Posta un commento