Qualche settimana fa una
mamma, all' uscita da un incontro tra genitori e insegnanti in una scuola media
torinese, mi ha detto che era stretta in un dilemma che non la faceva dormire.
Come lei, le altre mamme e gli altri papà della classe. Il bivio era il seguente:
o accettare che i propri figli tornassero a casa da scuola nel caso di un' ora
buca, oppure contribuire economicamente al pagamento del supplente che quell'
ora buca avrebbe coperto. «Hanno cominciato alle elementari chiedendoci la
carta igienica - mi ha detto contrariata -, e adesso dobbiamo pagare gli
stipendi». Al tempo della carta igienica i bambini erano arrivati una mattina e
si erano messi tutti in coda, e poi uno dopo l' altro avevano fatto cadere
ciascuno il proprio rotolo dentro un cestone di vimini. Erano persino contenti,
mi ha spiegato la mamma con improvvisa tenerezza, di fare un dono alla scuola.
All' uscita non parlavano d' altro, e la scuola sembrava diventata di colpo una
cosa che gli apparteneva. Di più: si erano messi a escogitare altre maniere di
fare dono alla scuola di qualcosa di sé. «Tutto bellissimo», mi ha detto la
mamma inghiottendo la tenerezza. «Ma scusa: noi non pagavamo le tasse? Non
eravamo dei cittadini?». Di fronte alla domanda di questa donna ho pensato che
il cittadino stava poco a poco svanendo per lasciare il posto a una schiera di
donatori bambini mandati avanti dai genitori: tutti in coda per buttare in un
cestone di vimini un obolo per salvare uno stato in sfacelo. Così mi sono
venuti in mente gli istituti oncologici. Quando si entra in un Istituto
oncologico di cosiddetta eccellenza, quel che colpisce di più sono gli enormi
assegni appesi alle pareti. Hanno la dimensione dei poster, e se ne stanno lì,
incorniciati come stampe di Monet. In bella vista c' è un importo in denaro, da
qualche centinaia fino a migliaia di euro, e il nome della persona o dell' ente
che ha donato quei soldi…
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