venerdì 6 agosto 2021

La morte del padre gesuita Stan Swamy scuote l’India - Marina Forti

 



Il 5 luglio, dopo nove mesi di carcere, è morto l’anziano gesuita Stanislaus Lourduswamy, noto per le sue battaglie a difesa degli oppressi. Le autorità avevano accusato l’84enne di cospirazione. La contestata legge antiterrorismo ha consentito di prolungare la detenzione nonostante la falsità delle prove a suo carico. 

La morte di un anziano gesuita noto per la sua battaglia in difesa dei diritti degli adivasi, i “popoli originari” dell’India, e degli oppressi ha suscitato sgomento in India, dove la sua comunità e molti difensori dei diritti umani parlano di un “omicidio istituzionale”. Padre Stanislaus Lourduswamy, noto come Stan Swamy, aveva compiuto 84 anni in carcere. Era stato arrestato l’8 ottobre 2020 da agenti della National investigation agency (la polizia federale indiana), che lo avevano prelevato in un raid notturno dal suo alloggio nella comunità chiamata Bagaicha che lui stesso aveva fondato vicino a Ranchi, nello stato Nord-occidentale del Jharkhand. Accusato di attentare alla sicurezza dello Stato, era stato tradotto in un carcere di massima sicurezza a Mumbai.

L’anziano gesuita non è mai stato processato e molti sono convinti che le accuse nei suoi confronti non avrebbero retto davanti a un giudice, soprattutto dopo che le “prove incriminanti” erano risultate false. Ma una legge antiterrorismo duramente contestata (“Unlawful acts prevention act”) ha permesso alle autorità di prolungare all’infinito la detenzione preventiva, e le ripetute richieste di libertà provvisoria di padre Stan sono state respinte. Così, ancora prima di considerare le ragioni dell’arresto, resta un senso di sgomento per quei nove mesi di detenzione di un uomo anziano malato di Parkinson, privato di ogni assistenza personale: i magistrati di sorveglianza avrebbero lasciato cadere perfino la richiesta di una tazza con cannuccia, visto che non poteva reggere da solo un bicchiere. Il carcere era di fatto una condanna a morte.

Durante l’ultima udienza per la sua libertà provvisoria davanti all’Alta corte di Mumbai padre Stan aveva dichiarato che non gli restava molto da vivere, e chiedeva di finire i suoi giorni nella sua comunità. Gli è stato negato. Alla fine di maggio, per ordine della Corte suprema, era stato infine ricoverato in un ospedale cattolico di Mumbai, dove gli è stato diagnosticato il Covid-19, contratto in carcere, e dove è morto il 5 luglio 2021.

 

“Questa non è una morte naturale ma l’omicidio istituzionale di un animo gentile commesso da uno stato inumano”, scrivono in un lungo comunicato alcuni attivisti della comunità di Stan Swamy, insieme a compagni e parenti di altre quindici persone tuttora in carcere con le stesse accuse dell’anziano gesuita: avrebbero cospirato per sovvertire lo Stato d’intesa con il partito armato maoista. Si tratta del cosiddetto “caso Bhima Koregaon”, dal nome di un villaggio del Maharashtra (lo Stato che ha per capitale Mumbai) dove nel 2018 una manifestazione per commemorare un’antica rivolta dei dalit (i “fuoricasta”, quelli una volta chiamati intoccabili, lo scalino più basso della scala sociale indiana) si concluse con grandi violenze. Padre Stan Swamy non era là e neppure gli altri quindici attivisti sociali, avvocati del lavoro, difensori dei diritti umani arrestati un anno fa: ma tutti sono stati accusati di aver istigato quelle violenze. I giudici hanno parlato addirittura di un complotto per uccidere il primo ministro indiano Narendra Modi.

Poco prima di essere arrestato, padre Stan Swamy aveva registrato una dichiarazione in cui confutava le accuse contro di lui. La polizia federale aveva già perquisito la sua comunità e sequestrato il suo computer, e stava costruendo un’accusa nei suoi confronti fondata su una montatura, diceva. In quella dichiarazione, padre Stan parlava tra l’altro del suo lavoro per denunciare l’alienazione delle terre e dei diritti dei gram sabha (gli organismi rappresentativi locali), e lo sradicamento degli adivasi. Parlava di arresti indiscriminati di migliaia di giovani nativi, accusati di essere “maoisti” solo perché “mettono in dubbio e resistono all’ingiusta alienazione e sradicamento dalle terra”. Giurista di formazione, nel 2017 l’anziano gesuita aveva avviato un’azione legale in difesa di alcuni adivasi che languivano in carcere da anni senza processo con l’accusa di essere dirigenti maoisti. Questo, diceva Stan Swamy, potrebbe essere il motivo principale per cui è stato messo sotto accusa.

Del resto, l’esistenza stessa della comunità Bagaicha era una sfida: un luogo “aperto ai giovani delle comunità adivasi, ai dalit, ai movimenti popolari in genere”, spiegava padre Stan Swamy quando l’ho visitata nel 2011. Vi ospitava assemblee popolari e incoraggiava i giovani adivasi a mettere per iscritto le loro storie, oltre a fare un attivo lavoro di consulenza legale e di informazione sui diritti delle popolazioni native. Aveva cominciato a documentare come lo sfruttamento di risorse minerarie e altri progetti di sviluppo (“parola usata a vanvera”, diceva) si risolvano nella cacciata delle comunità più povere dalle loro terre: “E chi perde la terra, perde e basta”. Diceva che la Chiesa “non può restare in silenzio” davanti all’ingiustizia.

Che le accuse contro padre Stan Swamy e gli altri detenuti del “caso Bhima Koregaon” fossero una montatura sembra confermato dall’analisi compiuta da un’agenzia di indagini forensi di Boston, Arsenal Consulting, pubblicata lo scorso febbraio dal Washington Post e ripresa anche dai media indiani. Su richiesta della difesa degli imputati, gli esperti avevano esaminato i computer sequestrati a padre Stan e ad altri imputati, e dimostrato che decine di lettere e altri documenti vi erano stati inserito in cartelle nascoste usando un malware, incluse lettere in cui si parlava di come procurare armi, o di uccidere il primo ministro Modi.

“Siamo indignati che padre Stan abbia dovuto pagare con la vita per questa montatura fatta in malafede”, dice il comunicato diffuso da attivisti e amici dopo la morte del gesuita. “Padre Stan non meritava di morire così, imprigionato con false accuse da uno stato vendicativo”. Padre Stanislaus Lourduswamy (era il suo nome completo) era nato a Tiruchirappalli, presso Madras (oggi Chennai), nel 1937, ed è stato per 51 anni in prete che aveva fatto propria la battaglia di adivasi e fuoricasta per “jal, jangal e zameen”. Cioè acqua, foresta e terra. Rifiutava di essere “spettatore silenzioso”.

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