martedì 31 agosto 2021

Manifesto per la nuova scuola

 

Manifesto per la nuova scuola

1) La scuola come luogo della relazione umana e del rapporto intergenerazionale

La scuola si occupa delle persone in crescita, non di entità astratte scomponibili e riducibili a una serie di “competenze”. L’insegnamento e l’apprendimento toccano infatti tutte le dimensioni dell’essere umano – intellettuale, razionale, affettiva, emotiva, relazionale, corporea – tra loro interconnesse e inscindibili; bisogna sempre ricordare, in tal senso, che quello tra gli insegnanti e gli studenti è prima di tutto un rapporto umano.

L’idea che la scuola possa essere incentrata sulla semplice acquisizione di “competenze” è profondamente sbagliata, sia perché applica a un ambito, quello scolastico, categorie nate in tutt’altro ambito, quello cioè dell’azienda e della produttività lavorativa, sia perché esclude appunto la dimensione integralmente umana, centrale nella scuola e nei processi lunghi e non lineari dell’apprendimento e della crescita.

2) Per una scuola della conoscenza

Per svolgere il compito che le è affidata dalla Costituzione, la scuola pubblica deve essere incentrata sulla conoscenza e sulla trasmissione del sapere, oltre che sul rispetto delle esigenze psico-fisiche di crescita dei giovanissimi. Solo attraverso il confronto con i contenuti culturali, la loro elaborazione e acquisizione – a partire da un’approfondita e reale alfabetizzazione – gli studenti potranno diventare cittadini liberi e consapevoli, in grado di contribuire a un autentico progresso della società. Senza l’istruzione delle nuove generazioni, la stessa democrazia è svuotata di sostanza.

3) Un giusto rapporto tra mezzi e fini

Se è vero che la scuola deve essere fondata sulla conoscenza, sul sapere, sullo studio, tutti gli strumenti e i metodi dell’insegnamento, compresi quelli legati all’uso delle tecnologie digitali, devono rimanere o ritornare a essere dei semplici mezzi, da utilizzare non a prescindere ma se e quando le necessità della condivisione dei contenuti culturali (che è continua attività dell’intelligenza, attualizzazione e rielaborazione critica delle conoscenze guidata dall’insegnante) lo richiedano. Vanno cioè evitati i deleteri rovesciamenti e le frequenti inversioni di priorità tra mezzi e fini che hanno caratterizzato il “didattichese” degli ultimi decenni – al punto che alcuni sembrano pensare che i mezzi siano essi stessi il contenuto della didattica – e va restituito il giusto posto alla libertà di insegnamento (spesso schiacciata e conculcata dall’imposizione di mode di scarsissimo valore didattico e culturale), nel segno di un’istruzione il più possibile ricca e plurale e della responsabilità educativa degli insegnanti. Bisogna ricordare come gli insegnanti siano degli intellettuali e dei professionisti, il cui compito non è quello di applicare burocraticamente e passivamente delle decisioni prese altrove, ma quello di trovare di volta in volta i mezzi più adatti per l’insegnamento. D’altra parte, non si capisce in che modo un insegnante ridotto a burocrate e certificatore potrebbe aiutare gli studenti ad acquisire un indispensabile senso critico di fronte alla realtà e ai contenuti culturali di cui via via essi si appropriano.

In qualunque ragionamento sui mezzi, non va poi dimenticato come l’uso sempre più pervasivo della tecnologia digitale – che il ricorso alla “didattica a distanza” ha reso preponderante anche a scuola, a discapito di ogni esigenza didattica ed educativa che richiedesse strumenti diversi – sia collegato ai disturbi da iperconnessione che colpiscono i giovanissimi, ai rischi del ritiro sociale, al senso di insicurezza, alla dipendenza dagli strumenti tecnologici, fino agli attacchi di panico, fenomeni che insorgono anche in conseguenza della mancanza di rapporti che è possibile vivere solo in presenza  e della negazione della dimensione fisico-corporea, la cui messa in gioco è fondamentale per le persone in crescita. In questo contesto andrebbe sempre ricordato che la relazione, le parole, i gesti e tutto ciò che passa nella comunicazione verbale e non verbale sono i primissimi strumenti degli insegnanti, gli unici davvero indispensabili.                        

4) Il mancato coinvolgimento degli insegnanti nelle “riforme” degli ultimi vent’anni

Poiché la scuola pubblica ha come finalità l’istruzione e la formazione umana e culturale delle persone in crescita, i decisori politici, prima di ipotizzare qualunque “riforma”, dovrebbero interloquire con gli esperti della trasmissione culturale e quelli dell’età evolutiva – insegnanti, psicoanalisti, intellettuali, educatori – e non con i rappresentanti di associazioni private – Fondazione Agnelli, Treelle, Anp – che rappresentano e perseguono appunto interessi privati. 

5) Il reclutamento e la formazione degli insegnanti

 La formazione e il reclutamento degli insegnanti devono avere al centro la preparazione culturale, la conoscenza approfondita e di prima mano dei contenuti disciplinari, – solo degli autentici esperti possono infatti trasmettere agli studenti la passione per il sapere e per le singole discipline – la motivazione e la propensione all’insegnamento, alla condivisione culturale e alla relazione con le persone in crescita. Per quanto riguarda l’aspetto relazionale, gli insegnanti devono poter avere un confronto con esperti dell’età evolutiva di comprovata esperienza ed elevata professionalità, anche attraverso lo strumento dello sportello d’ascolto o di gruppi dedicati, per esaminare le dinamiche su cui si fonda il rapporto educativo e per poter sciogliere, dove occorra, eventuali nodi relazionali.

6) Restituire centralità all’ora di lezione

Autorevoli esponenti politici hanno chiesto che gli apprendimenti non acquisiti in “didattica a distanza” vengano recuperati attraverso un prolungamento dell’anno scolastico. Questa proposta, purtroppo, appare niente più di una boutade demagogica: chiunque conosca il mondo della scuola e le dinamiche dell’insegnamento/apprendimento – e non pensi che consistano in una rapida verniciatura di “competenze” – sa benissimo che in due o tre settimane, alla fine di un periodo terribile, non è possibile recuperare nulla di ciò che si è perso in un anno di mancata scuola in presenza. Dopo vent’anni di devastanti “riforme”, occorrerebbero invece interventi precisi e profondi, per rilanciare la funzione della scuola, e cioè, prima di tutto, restituire centralità all’ora di lezione disciplinare, un’ora squalificata e messa ai margini da una serie di attività che ne snaturano la funzione e la rendono un’attività residualeSe davvero si vuole recuperare il tempo perduto, occorre eliminare ciò che non è apprendimento e insegnamento: 

– via  gli inutili percorsi di “alternanza scuola-lavoro” (ora PCTO), da sostituire semmai con stage sensati e non obbligatori, se e quando ne valga la pena, fuori dall’orario scolastico e su decisione dei consigli di classe; 

– via i test INVALSI, che sottraggono settimane di tempo all’attività scolastica senza che se ne siano mai chiariti il senso, la funzione e l’utilità; 

– via i progetti non indispensabili (ad eccezione ad esempio della mediazione linguistica e culturale per gli studenti stranieri e dello sportello d’ascolto psicologico, attività che andrebbero potenziate e affidate a seri professionisti attraverso degli albi nazionali e non alla casualità di progetti improvvisati), funzionali soltanto ad alimentare un’assurda concorrenza tra istituti, che fanno dimenticare da decenni che l’unico vero, utile, indispensabile progetto che la scuola offre è l’ora di lezione. Va rovesciata la prospettiva: non è la scuola ad essere un progettificio a prescindere, è che singoli progetti particolarmente validi possono essere accolti da una scuola che però di base fa altro;

– via il RAV, le programmazioni ipertrofiche e standardizzate e tutti quei documenti in cui la descrizione astratta e burocratica dell’insegnamento prende il posto dell’insegnamento stesso, in una continua e paradossale certificazione del nulla; 

– via i PTOF cervellotici che prendono a pretesto presunte esigenze dei “territori”. Ciò che davvero offre qualunque scuola pubblica è l’insegnamento dell’italiano, della matematica, delle lingue, delle scienze, delle arti, delle tecnologie, della letteratura, della storia, della geografia,  della storia delle idee, del diritto, la conoscenza di sé e del proprio corpo anche attraverso l’attività fisica e la socialità scolastica…non basta? Quelli che dicono che non basta vogliono in realtà togliere di mezzo proprio ciò che di prezioso la scuola offre; 

– via insomma tutte le attività burocratiche inutili che sottraggono tempo, attenzione ed energie agli insegnanti, che devono dedicarsi esclusivamente all’insegnamento. Perché questa rivoluzione sia possibile occorre però:

7) Rivedere l’intero impianto fallimentare dell’ “autonomia scolastica”

L’ “autonomia scolastica”, introdotta al tempo del ministro Berlinguer, da oltre vent’anni a questa parte ha trasformato la Scuola pubblica nazionale, – “organo  costituzionale della democrazia”, nelle parole di Calamandrei – in una serie di para-aziende in assurda concorrenza tra loro per la conquista  della clientela, in inutili progettifici, in centri di potere e di proliferazione burocratica fine a se stessa, nei quali l’ambigua figura del dirigente-manager subordina quasi inevitabilmente le finalità didattiche ed educative della scuola, le uniche che la fanno esistere e le danno senso, a esigenze burocratico-gestionali ed amministrative. È indispensabile dunque restituire alla scuola l’orizzonte pubblico, democratico e nazionale che le è proprio, in modo che nessuna finalità estranea possa interferire con l’unica attività che la scuola è chiamata a compiere, quella cioè di istruire ed educare.

8) Un diverso rapporto numerico tra studenti e insegnanti

Infine, occorre fare ciò che tutti annunciano e nessuno realizza: diminuire nettamente il numero di studenti per classe, in modo che gli insegnanti possano davvero dedicare tempo e attenzione alle esigenze di ogni studente, operazione oggi più fattibile grazie ai previsti finanziamenti europei. Occorre mettere fine al paradosso per il quale si chiede agli insegnanti di attuare una didattica personalizzata – richiesta che si risolve in realtà nella proliferazione burocratica e nella richiesta di “certificazioni” di ogni tipo – e contemporaneamente gli si impedisce di farlo, imponendo loro di lavorare in classi sovraffollate in cui sono presenti fino a trenta/trentacinque studenti. Non è un caso che il numero dei partecipanti a un gruppo di discussione, secondo la psicologia dei gruppi, vada limitato a un massimo di quindici, pena l’impossibilità dell’aggregazione e del funzionamento del gruppo stesso; per la scuola, bisogna ribadire almeno che in nessun caso possano essere formate classi con un numero di studenti superiore ai venti.

C’è inoltre da smontare subito quella che, nel migliore dei casi, può essere considerata un’ingenua illusione, l’idea cioè che gli strumenti digitali permettano agli insegnanti di seguire un numero ancora maggiore di studenti, magari attraverso la produzione di video da mostrare in lezione asincrona. È vero esattamente il contrario: la “didattica a distanza”, largamente inefficace con le persone in crescita, visto che per bambini e adolescenti non esiste apprendimento che non passi per la relazione e per continui feedback verbali e non verbali, richiederebbe semmai un rapporto uno a uno tra studenti e insegnanti, per poter avere una sia pur limitatissima validità.

https://www.change.org/p/manifesto-per-la-nuova-scuola

https://nostrascuola186054220.wordpress.com/2021/03/20/manifesto-per-la-nuova-scuola/



Appello per creare dal basso e collegialmente una nuova scuola per un futuro inedito - Davide Viero

Si vuole qui fare un appello in vista dell’inizio dell’anno scolastico; un tempo in cui si definiscono le linee programmatiche per l’intero anno.

È un appello rivolto a insegnanti e genitori affinché facciano sentire la propria voce negli organi collegiali, che formalmente hanno voce in molte questioni fondamentali riguardanti la scuola. Ora come ora questi organi sono svuotati di senso nella loro funzione meramente ratificante. Si tratta di ridare sostanza e vita alla loro ormai vuota forma.

Oggi vediamo la scuola destinataria di una miriade di atti normativi e legislativi con circolari, note ministeriali che ne stanno ridefinendo il ruolo: non più quello di emancipare in vista del compimento soggettivo di ognuno attraverso il sapere e la cultura affrontati rigorosamente e con passione, bensì quello di attagliare, conformare ed adattare le soggettività degli uomini di domani al canone dominante di oggi, così che questi stessi uomini lo implementino senza mai metterlo in discussione. L’uniformazione del soggetto nella sua totale inconsapevolezza è la cambiale per avere i benefici pre-disposti da altri.

Nel versante interno alla scuola, l’artificio con cui si ottiene il cambiamento istituzionale è l’atomizzazione dei suoi elementi costitutivi e il conseguente smarrimento dell’identità. Con l’autonomia scolastica il centro è diventato l’esterno a cui conformarsi attraverso la concorrenza. Il dirigente non è più un primus inter pares, ma un imprenditore che tratta gli insegnanti da suoi operai invece di stare dalla parte di allievi ed insegnanti per il bene dei primi. Il tutto in una crescente burocratizzazione verticista che sta lentamente soppiantando la sfera umana e collegiale e che dovrebbe portare a chiedersi quale sia il fine stesso dell’organizzazione perseguita strenuamente dai dirigenti e dagli uffici territoriali; un fine che sembra assolutamente autoreferenziale.

Questa ricercata disgregazione ha frammentato l’identità della scuola rendendola plastica e malleabile rispetto alle esigenze ad essa eterogenee della sfera economica, la quale ha colonizzato la scuola con i suoi principi della concorrenza, della meritocrazia, della misurabilità e del raggiungimento di obiettivi sempre più precisi ma allo stesso insignificanti per gli uomini che la popolano. Un’insignificanza che allontana passione ed interesse profondi, sostituiti dai belletti del successo, da una competizione e da una distribuzione di identità preconfezionate (per docenti ed alunni) che fanno strame della sfera umana nel suo mutevole darsi e costruirsi. Una scuola che deve essere una efficiente emanazione della sfera economica nella precisa conformazione di stampo mercantilistico-finanziario. Un modello che, è bene ricordare, non estende i suoi benefici a tutti ma, al netto della retorica inclusiva, oramai elemento della concorrenza stessa, produce innumerevoli scarti che sono sotto gli occhi di tutti. Perché se tutto diviene una competizione, per uno che vince ci sarà una schiera di perdenti. Che resteranno tali anche al netto delle stesse politiche “inclusive”: scarti passati di mano in mano come tali per estrarre l’ultima stilla di valore e non destinatari di amorevole attenzione. Una scuola serva di questo nuovo padrone e indifferente verso gli uomini a cui essa si rivolge.

Questo appello vuole essere una chiamata ad agire contro questa forma che si sta imponendo a macchia d’olio, proprio a partire dagli organi collegiali: Collegio docenti e Consiglio di istituto.

I temi sui quali agire nelle riunioni degli organi collegiali sono molteplici. Vediamone alcuni.

– L’orario delle lezioni, con la cosiddetta settimana corta che ormai è generalizzata. Sappiamo che il lavoro intellettuale non è assimilabile a quello di fabbrica e che concentrando le ore su meno giorni non è possibile accrescere l’efficacia. Questo perché la sfera culturale abbisogna di tempi brevi e costanti: solo questi infatti permettono al sapere di lasciare traccia interiore nel soggetto. Altrimenti con le molte ore giornaliere il fare diventa compilativo, esecutivo e meccanico, conformando su tale canone le generazioni future.

– Insegnanti come oggetti e non soggetti di formazione. Ricordiamo che un insegnante, se vuole insegnare, deve essere autonomo perché riceve linfa vitale tanto dagli alunni quanto dai saperi con cui si confronta; sono queste le fonti di un rinnovamento continuo e non eteronomo. Ora purtroppo si sta affermando una figura di insegnante vuoto e sempre in attesa di istruzioni; un insegnante inteso come facilitatore, esecutore di ordini di altri che di volta in volta gli dicono cosa deve essere fatto, non apertamente, ma attraverso l’imposizione del come. Un fare oggi improntato su una concezione di stampo economicista.

– Le figure organizzative e le commissioni nei singoli istituti. Figure e commissioni che sono corpi estranei rispetto all’attività educativa dal momento che sono afferenti alla sfera organizzativa. Una sfera che diventa sempre più complicata e necessaria a causa della frammentazione e dell’iperspecializzazione. Senza più il controllo dell’intero processo da parte del singolo, scrive S. Weil, sale alla ribalta la burocrazia come forma di controllo del generale. Ma più che aggiungere figure organizzative, nella scuola è giunto il momento di semplificare. Il docente e i suoi alunni. E l’universalità in questa relazione mediata dalla cultura. Il resto è in più.

– Rifiutare tutta la gran messe di progetti e interferenze del territorio sulla scuola. Tutte iniziative che sono la conseguenza dell’universalità che è stata espunta a seguito della specializzazione e dell’oggettivazione. Un’universalità che però ritorna a bussare, da fuori, sotto forma di millanta iniziative, dallo yoga all’educazione finanziaria e altre amenità; tutti sintomi di come la scuola ridotta al punto e all’attimo si senta debole e sperduta e per farsi forte e di nuovo universale accolga queste “universalità” di volta in volta, come la somma dei numeri naturali anziché affidarsi al simbolo dell’infinito. Che dovrebbe essere la porta in comunicazione con qualunque contenuto culturale affrontato a scuola. Perché l’universalità va coltivata nell’ora di lezione e in ogni contenuto, non attesa dall’esterno dopo che la si è rifiutata aprendo la porta all’iperspecialismo.

– L’esproprio della valutazione. Con l’INVALSI a guidare le procedure valutative, si sta costruendo una valutazione per test su modelli eteronomi che, come scrive lo storico Mauro Boarelli, sono di matrice economicista. Test che misurano l’interiorizzazione di stereotipie da applicare come psitacismi nelle condizioni date. La metrica di tutto deve essere sostituita dallo sguardo attento e preciso dell’insegnante, che non può essere espropriato del giudizio relativo all’alunno, oggi ridotto a poche frasi preconfezionate da scegliere da un elenco predisposto.

– I curricula verticali, che vengono affrontati nella direzione sbagliata. Perché invece che essere i gradi-scuola successivi a tenere conto delle basi costruite precedentemente, sono i gradi inferiori che si attagliano su ciò che verrà richiesto poi e lo anticipano senza dare prima le basi delle discipline; creando una scuola che non istruisce perché si accontenta di offrire vacue formule. Che solo pochi comprendono e una gran massa esegue dimenticandole poco dopo.

Tutto ciò va contrastato negli organi collegiali, che devono riappropriarsi delle questioni con la consapevolezza del proprio ruolo e attraverso deliberazioni collegiali e non ratificative. Importante a tal proposito è richiedere il rispetto della normativa e della legge che, molte volte non essendo ancora state riformate, possono fungere da solide barriere alla deriva scolastica.

Se noi insegnanti e genitori abbiamo questa consapevolezza, votando per il bene dei nostri alunni e figli e rifiutando incarichi in contrasto a ciò, sicuramente saremo sulla via per una scuola umana attraverso la cultura. Che è libertà nella rigorosità attenta all’universale.

Iniziare a contrastare con altre proposte tutti i punti citati. Sarebbe un ottimo inizio di anno. Per una nuova scuola.

da qui

 

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